Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

venerdì 3 aprile 2015

Ogni esperienza che possiamo descrivere è qualcosa diversa dall’esperienza di pura auto-attentività

Michael James

3 Aprile 2015
Any experience we can describe is something other than the experience of pure self-attentiveness

Il mese scorso un amico mi ha scritto descrivendo ciò che sperimenta quando cerca di praticare auto-investigazione (ātma-vicāra) e chiedendo se la sua descrizione indica che la sua pratica è sulla strada giusta. Questo articolo è adattato dalla risposta che gli ho scritto.

L’esperienza di auto-attentività o auto-consapevolezza non può essere espressa in parole, perché è senza caratteristiche, così qualsiasi parola che usiamo per descrivere ciò che sperimentiamo quando stiamo cercando di essere auto-attentivi è solo una descrizione di qualcosa diversa dalla pura auto-consapevolezza.

Tuttavia, se cerco di vedere oltre le parole che usi, ciò che deduco è che il primo tipo di esperienza che descrivi è uno stato di parziale auto-attentività (uno stato in cui sei consapevole sia di te stesso sia di altre cose) e che il secondo tipo è uno stato di auto-attentività più pura – uno stato in cui non sei ancora auto-attentivo in modo esclusivo, ma in cui sei consapevole di te stesso molto più di quanto lo sei di qualsiasi altra cosa. Sei d’accordo che questa è un’interpretazione precisa?

Finché sperimentiamo qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi, non ci stiamo sperimentando come siamo realmente, perché niente di diverso da ciò che siamo realmente esiste davvero. Quindi possiamo sperimentarci come siamo realmente solo quando sperimentiamo noi stessi soltanto, in completo isolamento dall’apparente esistenza di qualsiasi altra cosa, e quindi il nostro fine quando pratichiamo auto-investigazione (ātma-vicāra) è di sperimentare noi stessi soltanto.

Tuttavia, poiché siamo abituati da molto tempo a confondere noi stessi con altre cose – cioè, scambiare noi stessi come qualcosa che stiamo sperimentando in questo momento, come la nostra mente e il nostro corpo – non siamo in grado di distinguere immediatamente noi stessi da tutte le altre cose, così quando cerchiamo di essere auto-attentivi in modo esclusivo – consapevoli di nient’altro che noi stessi – continuiamo a essere consapevoli di altre cose in misura più o meno grande. Solo con la pratica persistente saremo in grado di perfezionare il nostro potere di discernimento (vivēka) in modo sufficiente da sperimentare soltanto noi stessi, in completo isolamento da ogni altra cosa.

Come ho scritto in uno dei miei articoli recenti, Essere soltanto (summā irukkai) non è un’attività ma uno stato di perfetta immobilità:
Sadhu Om era solito spiegare questo nei termini di voltarsi di 180 gradi, lontano da tutte le altre cose e verso noi stessi solamente. Più ci avviciniamo a voltarci di 180 gradi, meno ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa sarà mischiata con la nostra auto-consapevolezza, ma se non ci voltiamo di 180 gradi completi non stiamo ancora sperimentando solo noi stessi, in completo isolamento dalla consapevolezza di altre cose. Quando riusciamo una volta a voltarci di 180 gradi completi, sperimenteremo nient’altro che noi stessi, e ci sperimenteremo come siamo realmente, dopo di che non sperimenteremo mai più nessun’altra cosa.

Quando cerchiamo di dare attenzione solo a noi stessi, possiamo riuscire a voltarci di 90, 120, 150 o anche di 179 gradi, ma non possiamo effettivamente sapere di quanto ci siamo voltati, così dobbiamo continuare a provare finché infine riusciamo a voltarci di 180 gradi completi.
Quindi il nostro fine è di essere consapevoli soltanto di noi stessi, escludendo ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa, e per conseguire l’abilità di essere in questo modo, dobbiamo cercare ripetutamente, pazientemente e persistentemente. Ogni volta che abbiamo un po’ di tempo libero, anche per pochi momenti, quando non abbiamo la necessità immediata di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, dovremmo cercare di essere consapevoli di noi stessi soltanto. Tuttavia, molto del nostro tempo è assorbito da altro lavoro o attività, e in quei momenti abbiamo bisogno di essere consapevoli di altre cose, ma anche allora possiamo cercare di essere, almeno parzialmente, auto-attentivi – cioè, ricordare di essere consapevoli di noi stessi più di quanto lo siamo di solito anche mentre siamo consapevoli di altre cose.

Così la nostra pratica ogni giorno, generalmente parlando, sarà di due tipi differenti: cercare di essere quanto più possibile auto-attentivi in modo esclusivo in ogni momento in cui non abbiamo bisogno di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, e cercare di essere almeno parzialmente auto-attentivi quando abbiamo bisogno di essere consapevoli di qualche altra cosa.

Dalla tua descrizione dei due tipi di esperienza che hai quando cerchi di praticare auto-investigazione, deduco che nel primo tipo raggiungi uno stato di auto-attentività parziale, e che nel secondo tipo ti stai avvicinando a essere auto-attentivo in modo esclusivo. Quindi sembra che la tua pratica sia sulla strada giusta.

Riguardo alle tue domande, ‘Quando sono nel secondo tipo descritto sopra, non c’è più niente che posso fare ma solo essere in quello stato ?? E’ questo tutto quello che possiamo fare Michael??’, più ci avviciniamo a essere auto-attentivi in modo esclusivo, meno saremo in grado di fare qualsiasi sforzo ulteriore oltre che restare semplicemente così, perché più siamo auto-attentivi, più il nostro ego sarà sprofondato e dissolto, e meno sarà in grado di fare qualsiasi genere di sforzo.

Questo è il motivo per cui Sri Ramana era solito dire che il nostro sforzo può solo portarci a questo punto e che quando raggiungiamo un determinato punto dove nessun altro sforzo è possibile, la chiarezza assoluta della pura auto-consapevolezza sorgerà dall’interno, per così dire, e ci consumerà completamente. Questo è ciò che egli qualche volta descriveva metaforicamente dicendo che se facciamo un passo verso Dio (che non è nient’altro che noi stessi – ciò che siamo realmente), egli farà dieci passi verso di noi.

C’è un altro punto specifico nella descrizione della tua esperienza che penso abbia bisogno di ulteriore considerazione, vale a dire il tuo uso del termine ‘pensiero’. Per esempio, quando descrivi il tuo secondo tipo di esperienza, dici che non vengono pensieri, cosa che suggerisce che stai usando la parola ‘pensiero’ in un senso piuttosto ristretto, per intendere solo certe specie di fenomeni mentali. Tuttavia, nel senso più ampio in cui Sri Ramana usò termini Tamil che significano ‘pensiero’ o ‘idea’, come நினைவு (niṉaivu) o எண்ணம் (eṇṇam), egli intendeva ogni specie di fenomeno mentale – qualsiasi cosa diversa da ciò che siamo realmente.

Cioè, secondo Sri Ramana, ogni cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi è un pensiero o un’idea, e questo è il motivo per cui dice che ciò che sperimentiamo come il mondo non è nient’altro che i nostri pensieri – una costruzione della nostra mente. Per esempio, nel quarto e quattordicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?) dice:
[...] நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. தூக்கத்தில் நினைவுகளில்லை, ஜகமுமில்லை; ஜாக்ர சொப்பனங்களில் நினைவுகளுள, ஜகமும் உண்டு. சிலந்திப்பூச்சி எப்படித் தன்னிடமிருந்து வெளியில் நூலை நூற்று மறுபடியும் தன்னுள் இழுத்துக் கொள்ளுகிறதோ, அப்படியே மனமும் தன்னிடத்திலிருந்து ஜகத்தைத் தோற்றுவித்து மறுபடியும் தன்னிடமே ஒடுக்கிக்கொள்ளுகிறது. [...]

[...] niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyam-āy illai. tūkkattil niṉaivugaḷ illai, jagam-um illai; jāgra-soppaṉaṅgaḷil niṉaivugaḷ uḷa, jagam-um uṇḍu. silandi-p-pūcci eppaḍi-t taṉṉiḍamirundu veḷiyil nūlai nūṯṟu maṟupaḍiyum taṉṉuḷ iṙuttu-k-koḷḷugiṟadō, appaḍiyē maṉam-um taṉṉiḍattilirundu jagattai-t tōṯṟuvittu maṟupaḍiyum taṉṉiḍamē oḍukki-k-koḷḷugiṟadu. [...]

[...] Eccetto i pensieri [o idee], non c'è indipendentemente una cosa come il 'mondo'. Nel sonno non ci sono pensieri, e [conseguentemente] anche non c'è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, e [conseguentemente] c'è anche un mondo. Esattamente come un ragno produce il filo della tela da sé stesso ed anche ritira il filo in sé stesso, così la mente proietta il mondo da sé stessa ed anche lo dissolve in sé stessa. [...]

[...] ஜக மென்பது நினைவே. [...]

[...] jagam eṉbadu niṉaivē. [...]

[...] Ciò che è chiamato il mondo è solo pensiero. [...]
Anche l’ego, che sperimenta solo il mondo e ogni altra cosa diversa da se stesso, è solo un pensiero – ma la radice e la causa di tutti gli altri pensieri – come dice nel verso 18 di Upadēśa Undiyār:
எண்ணங்க ளேமனம் யாவினு நானெனு
மெண்ணமே மூலமா முந்தீபற
      யானா மனமென லுந்தீபற.

eṇṇaṅga ḷēmaṉam yāviṉu nāṉeṉu
meṇṇamē mūlamā mundīpaṟa
      yāṉā maṉameṉa lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். யான் ஆம் மனம் எனல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. yāṉ ām maṉam eṉal.

அன்வயம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். மனம் எனல் யான் ஆம்.

Anvayam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. maṉam eṉal yāṉ ām.

Traduzione: I pensieri soltanto sono la mente [o la mente è solo i pensieri]. Di tutti [ i pensieri], solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla [la radice, la base, il fondamento, l’origine, la sorgente o la causa]. [Quindi] ciò che è chiamata mente è [essenzialmente solo] ‘io’ [l’ego o il pensiero-radice chiamato ‘io’].
Quindi, se non sperimentiamo noi stessi come siamo realmente e dissolviamo l’illusione del nostro ego e di tutti i suoi pensieri, stiamo sempre sperimentando pensieri, tranne quando siamo addormentati o in qualche altro stato di manōlaya o quiescenza mentale.

Quando descrivi i tuoi due tipi di esperienze mentre cerchi di praticare auto-attentività, ogni cosa che descrivi è un pensiero, come lo sei anche tu che l’hai sperimentata e che ora la descrivi. Uno stato che è completamente privo di pensiero è uno stato come il sonno, e non possiamo descrivere o anche formare una chiara immagine mentale della nostra esperienza nel sonno, perché è priva di ogni caratteristica.

Quindi presumo che ciò che intendi quando dici che non viene nessun pensiero è che, in quel momento, alcuni dei tipi più grossolani dei tuoi pensieri sono assenti, ma altri tipi di pensieri più sottili sono ancora presenti. Poiché ogni cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi (cioè, ogni cosa che sia differente o altro da ciò che sperimentiamo nel sonno, quando non sperimentiamo nient’altro che noi stessi) è solo un pensiero, dovremmo cercare di sperimentare noi stessi soltanto ed evitare di sperimentare qualunque altra cosa.

Qualunque cosa possiamo sperimentare, sia nella veglia, nel sogno o nel sonno, sempre sperimentiamo noi stessi come lo sperimentatore. Nel sonno non sperimentiamo nient’altro che noi stessi, mentre nella veglia e nel sogno sperimentiamo sempre noi stessi con l’aggiunta di qualcos’altro. Questa è la distinzione fondamentale tra il sonno da una parte e la veglia e il sogno dall’altra parte.

Tuttavia, benché nel sonno sperimentiamo nient’altro che noi stessi, la nostra auto-esperienza di quel momento manca della sufficiente chiarezza, perché non entriamo in quello stato cercando di sperimentare soltanto noi stessi, ma solo a causa dello sfinimento, che rende la nostra mente irrequieta troppo stanca per continuare a sperimentare qualunque altra cosa. Quindi quando pratichiamo auto-investigazione, stiamo facendo uno sforzo cosciente per sperimentare soltanto noi stessi, e se riusciamo a farlo, sperimenteremo noi stessi in perfetta chiarezza, e così l’illusione di essere qualsiasi altra cosa diversa da ciò che siamo realmente sarà distrutta per sempre.

Quindi il nostro fine è sperimentare noi stessi soltanto, più chiaramente di come abbiamo fatto nel sonno. Nel sonno il nostro ego è addormentato temporaneamente, così in quel momento non possiamo fare alcuno sforzo per sperimentare noi stessi più chiaramente, ma nella veglia e nel sogno il nostro ego è attivo, così ora possiamo fare lo sforzo richiesto per sperimentarci in perfetta chiarezza cercando di sperimentare soltanto noi stessi, in completo isolamento da ogni altra cosa.

Qualunque cosa possiamo sperimentare nella veglia o nel sogno, siamo consapevoli che lo stiamo sperimentando – cioè, che chi lo sta sperimentando è solo noi stessi – così possiamo cercare di ritirare la nostra attenzione da qualsiasi cosa stiamo sperimentando e focalizzarla invece su noi stessi soltanto. Finché sperimentiamo qualcosa diversa da ciò che abbiamo sperimentato nel sonno, non stiamo sperimentando noi stessi soltanto, così abbiamo bisogno di continuare a cercare di farlo finché riusciamo.

Nella veglia e nel sogno molte esperienze vengono e vanno, ma qualsiasi cosa non sperimentiamo permanentemente non può essere ciò che siamo realmente. Ciò che siamo realmente deve essere qualcosa che sperimentiamo senza alcun cambiamento in tutti i momenti e in tutti gli stati, non solo nella veglia e nel sogno ma anche nel sonno. Quindi, per distinguere noi stessi da qualsiasi altra cosa, abbiamo bisogno di distinguere ciò che sperimentiamo permanentemente da ciò che sperimentiamo solo temporaneamente. Questo è il motivo per cui la pratica di auto-investigazione è qualche volta descritta come nityānitya-vastu-vivēka (nitya-anitya-vastu-vivēka): discriminazione o discernimento di nitya da anitya – il permanente dall’impermanente, o l’eterno dall’effimero.

La sola cosa permanente (nitya vastu) che sperimentiamo è noi stessi, e ogni altra cosa che sperimentiamo è impermanente (anitya). Tutte le esperienze che hai descritto, e tutte le esperienze che possiamo descrivere, sono impermanenti, perché ciò che è permanente – vale a dire noi stessi – è privo di alcuna caratteristica di distinzione, e quindi in Sanscrito è descritto negativamente come nirviśēṣa, che significa senza caratteristiche.

Se cerchiamo di descrivere ciò che abbiamo sperimentato nel sonno, possiamo farlo solo in termini negativi, perché in quel momento non abbiamo sperimentato alcuna caratteristica di distinzione oltre a una completa assenza di tutte le caratteristiche – in altre parole, la sola caratteristica (viśēṣa) di ciò che abbiamo sperimentato nel sonno è la sua mancanza di caratteristiche (nirviśēṣatva).

Nello stesso modo, se cerchiamo di descrivere l’esperienza di essere auto-consapevoli, non possiamo farlo tranne che con il riferimento a cose impermanenti come il nostro corpo o la nostra mente, ma poiché tali cose sono impermanenti, esse non possono essere ciò che siamo realmente.

Se cerchiamo di descrivere o anche di concepire ciò che siamo realmente senza alcun riferimento a qualsiasi cosa che sperimentiamo solo temporaneamente, non possiamo farlo, e questo è il motivo per cui Sri Ramana spesso disse che l’auto-conoscenza non può essere insegnata in parole ma solo attraverso il silenzio. Cioè, solo nello stato di perfetto silenzio, in cui tutto il rumore delle parole, dei pensieri e anche la nostra mente pensante o ego sono completamente cessati, possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Quindi, quando pratichiamo auto-investigazione, abbiamo bisogno di ignorare ogni esperienza transitoria o qualsiasi cosa che possa essere descritta in parole o concepita o immaginata dalla nostra mente, e abbiamo bisogno invece di cercare di sperimentare solo ciò che stiamo sperimentando costantemente – ciò che sperimentiamo anche quando siamo addormentati – vale a dire noi stessi.

Tutte le altre esperienze vengono e vanno, ma noi soltanto rimaniamo permanentemente, così qualunque altra cosa possiamo sperimentare, dovremmo cercare di rivolgere indietro la nostra attenzione per sperimentare solo noi stessi, colui che sperimenta qualsiasi altra cosa. Se riusciamo a fare questo, tutte le altre esperienze cesseranno, e in questo modo cesseremo di sperimentare noi stessi come l’ego transitorio che le ha sperimentate, ma invece sperimenteremo noi stessi come eternamente siamo – come l’unico campo ineffabile e immutabile di tutta l’esperienza.

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