Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 31 maggio 2015

L’ego è essenzialmente un fantasma senza forma e perciò senza caratteristiche

Michael James

28 Maggio 2015
The ego is essentially a formless and hence featureless phantom

Nella quarta sezione di uno dei miei articoli recenti, ‘Osservazione senza l’osservatore’ e ‘consapevolezza senza scelta’: Perché gli insegnamenti di J. Krishnamurti sono diametralmente opposti a quelli di Sri Ramana, ho scritto:
L’importante principio che egli [Sri Ramana] ci insegna nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu è che questo ego è solo un fantasma senza forma e senza sostanza che apparentemente ha origine, permane ed è nutrito e rinforzato solo afferrando la forma (cioè, dando attenzione e sperimentando qualsiasi cosa diversa da se stesso), così non possiamo mai liberarci da questo ego finché insistiamo a dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi (cioè, qualsiasi cosa che ha qualche caratteristica che la distingue da questo ego essenzialmente senza caratteristiche). Quindi il solo modo per liberarci da questo ego è investigarlo – cioè, cercare di afferrare esso soltanto nella nostra consapevolezza. Poiché questo ego è senza caratteristiche e quindi senza forma, e poiché esso può resistere e mascherarsi come noi stessi solo afferrando forme nella sua consapevolezza, se cerchiamo di afferrare soltanto questo ego, esso ‘prenderà il volo’ e scomparirà, proprio come un serpente illusorio scomparirebbe se lo guardassimo attentamente e riconoscessimo che non è veramente un serpente ma solo una corda.
Riferendosi a questo brano, un’amica di nome Hatschepsut ha scritto un commento in cui ha chiesto:
Quando dici: “Poiché questo ego è senza caratteristiche e quindi senza forma, e […]” non copri la differenza tra l’ego e noi stessi soltanto, che anche è detto essere senza caratteristiche e senza forma [?]
Il giorno prima che Hatschepsut scrivesse questo commento un altro amico mi ha inviato un’email in cui ha chiesto una domanda simile. Nella sua email quest’altro amico all’inizio ha citato il seguente brano da uno dei miei primi articoli, Ogni esperienza che possiamo descrivere è qualcosa diversa dall’esperienza di pura auto-attentività:
La sola cosa permanente (nitya vastu) che sperimentiamo è noi stessi, e ogni altra cosa che sperimentiamo è impermanente (anitya). Tutte le esperienze che hai descritto, e tutte le esperienze che possiamo descrivere, sono impermanenti, perché ciò che è permanente – vale a dire noi stessi – è privo di alcuna caratteristica di distinzione, e quindi in Sanscrito è descritto negativamente come nirviśēṣa, che significa senza caratteristiche.
Egli ha poi citato alcuni estratti dal brano che ho riportato all’inizio di questo articolo, in cui ho scritto, ‘[…]così non possiamo mai liberarci da questo ego finché insistiamo a dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi (cioè, qualsiasi cosa che ha qualche caratteristica che la distingue da questo ego essenzialmente senza caratteristiche). […]. Poiché questo ego è senza caratteristiche e quindi senza forma, e poiché esso può resistere e mascherarsi come noi stessi solo afferrando forme nella sua consapevolezza, se cerchiamo di afferrare soltanto questo ego, esso ‘prenderà il volo’ e scomparirà […]’, e ha chiesto: ‘Non potrebbe essere contraddittorio parlare prima di noi stessi come senza caratteristiche e in un altro momento dell’ego come senza caratteristiche?’

Questo articolo è la mia risposta a questa domanda chiesta da Hatschepsut nel suo commento e dal mio altro amico nella sua email.
  1. L’ego è senza forma e perciò senza caratteristiche
  2. L’ego è un fantasma e perciò senza sostanza
  3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: come sembra esistere questo ‘ego-fantasma senza forma’?
  4. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 24: l’ego è cit-jaḍa-granthi
  5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 23: perché questo corpo non è ciò che sono realmente?
  6. Nāṉ Yār? paragrafo 4: questo corpo e questo mondo sono una proiezione dell’ego o mente
  7. Nāṉ Yār? paragrafo 5: senza l’ego niente altro esiste
  8. L’ego e le altre cose sono reciprocamente ma asimmetricamente dipendenti
  9. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: investigare l’ego è abbandonare ogni cosa
  10. Uḷḷadu Nāṟpadu versi 22 e 27: tranne che con l’auto-investigazione, come possiamo sperimentare ciò che siamo realmente?
  11. L’ego non esiste realmente
  12. L’ego è una mescolanza confusa di auto-consapevolezza e consapevolezza di altre cose
  13. L’auto-consapevolezza può essere considerata un caratteristica dell’ego?
  14. Una caratteristica è qualsiasi cosa che si distingue nella nostra consapevolezza
  15. Se il nostro sé reale e il nostro ego sono entrambi senza caratteristiche, come possono essere differenti?

1. L’ego è senza forma perciò senza caratteristiche

Credo che l’idea che il nostro sé essenziale, che solo è il nitya vastu (la cosa permanente o sostanza eterna), è nirviśēṣa (senza caratteristiche o priva di alcuna differenza o distinzione) non è affatto controversa fra i seguaci di Bhagavan Ramana o di ogni altro advaitin, perché dovrebbe essere familiare a chiunque ha studiato o i suoi insegnamenti o qualche altro dei testi più antichi di filosofia advaita, poiché Adi Sankara e altri hanno frequentemente affermato che brahman (che è il nostro sé reale) è nirviśēṣa. Tuttavia mi rendo conto che l’idea che il nostro ego è essenzialmente senza caratteristiche può sembrare nuova e non familiare, e forse anche controversa. Nondimeno, credo che sia una deduzione che possiamo trarre legittimamente da ciò che Bhagavan ci insegna nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in modo particolare dalla sua descrizione del nostro ego come உருவற்ற பேய் அகந்தை (uru-v-aṯṟa pēy ahandai), che significa ‘il fantasma-ego senza forma’.

உருவற்ற (uru-v-aṯṟa) significa ‘senza forma’, perché è un composto di due parole, உரு (uru), che significa ‘forma’, e அற்ற (aṯṟa), che significa ‘che è senza’ o ‘che è privo di’ (essendo il participio passato relativo di அறு (aṟu), che significa cessare, perire, estinguersi o essere interrotto). Penso che dovrebbe essere ovvio che qualsiasi cosa che è una forma (sia una forma fisica che una più astratta come un pensiero o un fenomeno mentale di qualsiasi genere: un concetto, un credo, una sensazione, un’emozione, un ricordo, un desiderio, una speranza, una paura o qualunque altra cosa) avrà caratteristiche di un qualche tipo, perché le caratteristiche sono ciò che definisce ogni forma e ci permette di distinguere una forma dall’altra.

Una forma e le sue caratteristiche sono inseparabili. In verità i concetti di forma e di caratteristica sono inseparabili. Qualunque cosa ha una forma di qualsiasi tipo deve avere caratteristiche di quel tipo, e qualunque cosa ha qualche caratteristica ha quindi una forma. Una forma senza caratteristiche non sarebbe conoscibile e neppure concepibile, perché è solo nei termini delle sue caratteristiche che possiamo conoscere o concepire qualsiasi forma. Le caratteristiche lo devono essere di qualcosa, e quella cosa deve essere una forma di qualche tipo, perché qualsiasi cosa ha caratteristiche ha la forma di quelle caratteristiche. Le caratteristiche sono ciò che dà forma a ogni cosa, così qualsiasi cosa che non ha forma non può avere neppure caratteristiche. Quindi quando Bhagavan descrive l’ego come ‘senza forma’ vuole dire che è anche senza caratteristiche.

2. L’ego è un fantasma perciò senza sostanza

Egli descrive l’ego non solo come ‘senza forma’ (உருவற்ற: uru-v-aṯṟa) ma anche come un ‘fantasma’ o ‘spettro’ (பேய்: pēy). Questa analogia di un fantasma è applicabile in diversi modi. Come un fantasma, il nostro ego sembra esistere ma non esiste realmente. Come un fantasma, sembra esistere solo nascondendosi nell’ombra, per così dire, non visto ma nondimeno facendo sentire la sua presenza. Proprio come un fantasma svanisce nella chiara luce, il nostro ego svanisce nella chiara luce della vigilante auto-attentività. E proprio come un fantasma si manifesta possedendo forme che non sono proprie (cioè, secondo alcune credenze, possedendo i corpi di persone viventi, o secondo altre credenze possedendo cadaveri appena morti al cimitero), l’ego si manifesta solo possedendo forme che non sono proprie, vale a dire una serie di corpi differenti (uno nel nostro attuale stato di veglia, e alcuni altri in ciascuno dei nostri altri sogni). Qualunque corpo il nostro ego prende come se stesso (nel nostro attuale stato o in qualche altro) non è se stesso, non più di quanto un corpo posseduto da uno spettro appartenga a quello spettro.

Infine in questa frase உருவற்ற பேய் அகந்தை (uru-v-aṯṟa pēy ahandai), ‘l’ego-fantasma senza forma’, la parola che Bhagavan usa per indicare l’ego è அகந்தை (ahandai), che è una forma Tamil della parola Sanscrita अहंता (ahaṁtā), che è un sostantivo astratto formato dal pronome अहम् (aham), che significa ‘io’, con il suffisso ता () apposto ad esso, che ha più o meno lo stesso significato del suffisso Inglese ‘-ness’ (‘-ità’), così अहंता (ahaṁtā) o அகந்தை (ahandai) significano letteralmente ‘io-ità’ (‘I-ness’). Parlando o scrivendo in Tamil, questa parola அகந்தை (ahandai) è quella che Bhagavan usò più frequentemente per riferirsi all’ego – il nostro falso e limitato senso di ‘io’, o ‘pensiero chiamato io’ (நான் என்னும் நினைவு (nāṉ eṉṉum ninaivu) o நான் என்னும் எண்ணம் (nāṉ eṉṉum eṇṇam)), come anche lo ha spesso chiamato.

Descrivendo questo ego come உருவற்ற பேய் (uru-v-aṯṟa pēy), un ‘fantasma senza forma’, egli indica che non è solo senza forma ma anche senza sostanza. E’ senza forma perché non ha forma propria, ed è senza sostanza perché non ha sostanza propria. Esso quindi sembra esistere solo usurpando forme che sono diverse da se stesso e una sostanza che non è propria. La forma fondamentale che usurpa come se stesso è un corpo fisico, che è un’apparenza illusoria creata da esso, e la sostanza che usurpa come se stesso è auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente.

3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: come sembra esistere questo ‘ego-fantasma senza forma’?

Il verso in cui Bhagavan descrive il nostro ego come உருவற்ற பேய் அகந்தை (uru-v-aṯṟa pēy ahandai), ‘l’ego-fantasma senza forma’, è il verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṯkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine, afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si estende, si espande, aumenta, s’innalza o fiorisce] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato] si dà alla fuga. Investiga [o conosci di conseguenza].
Poiché non ha forma propria, questo ego può avere origine solo afferrando una o più forme, ed è solo continuando ad afferrare tali forme che esso si regge o resiste. Poiché la sua esistenza dipende interamente dal suo afferrare le forme, è solo afferrando forme che esso si alimenta e si nutre, e più le afferra più fortemente cresce, si espande e prospera. Poiché non può stare senza afferrare una forma o un’altra, quando lascia una forma ne afferra subito un’altra.

Poiché è essenzialmente senza forma, qualsiasi forma questo ego afferra è qualcosa diversa da se stesso. Tuttavia non può afferrare altre forme senza prima afferrare una forma come se stesso (come Bhagavan indica nel verso 4 di Uḷḷadu Nāṟpadu, che ho citato e discusso nell’ottava sezione del mio articolo precedente), e la forma primaria che afferra come se stesso è un corpo fisico. Quindi è solo afferrando un corpo fisico e identificando quel corpo come se stesso che è in grado allora di afferrare o essere consapevole di altre forme. Quando non sperimenta se stesso come un corpo, non sperimenta niente altro. Di fatto quando non si sperimenta come un corpo esso neppure esiste, e questo è il motivo per cui Bhagavan spesso lo descrisse come l’esperienza o idea ‘io sono questo corpo’.

4. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 24: l’ego è cit-jaḍa-granthi

Tuttavia, benché esso non può esistere senza afferrare le forme, è qualcosa di distinto da tutte le forme, perché mentre ogni forma è non-cosciente (jaḍa) questo ego è cosciente o consapevole (cit). Tuttavia anche la sua consapevolezza non è propria, perché la consapevolezza resiste anche quando questo ego ha cessato di afferrare forme ed è quindi sprofondato. Ciò che è consapevole in modo permanente è solo noi stessi, e poiché esistiamo e siamo consapevoli di noi stessi anche in assenza di questo ego (come nel sonno), questo ego non è ciò che siamo realmente. Esso quindi ha origine solo fingendo di essere noi stessi, che siamo ciò che è realmente cosciente o consapevole (cit), e fingendo di essere un corpo, che è non-cosciente (jaḍa), e quindi è descritto come cit-jaḍa-granthi, il nodo (granthi) che lega insieme il cosciente (cit) e il non-cosciente (jaḍa) come se fossero uno.

Quando due lacci sono legati insieme formano un nodo, ma quel nodo non può esistere da se stesso. Quando si toglie uno dei due lacci, il nodo cessa di esistere. Nello stesso modo questo ego sembra esistere solo quando lega insieme il nostro sé cosciente e un corpo non-cosciente. Esso non è noi stessi né un corpo, così non può esistere senza apparentemente legare noi stessi a un corpo. Questo è ciò che è inteso quando Bhagavan dice nel verso 24 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
சடவுடனா னென்னாது சச்சித் துதியா
துடலளவா நானொன் றுதிக்கு — மிடையிலிது
சிச்சடக்கி ரந்திபந்தஞ் சீவனுட்ப மெய்யகந்தை
யிச்சமு சாரமன மெண்.

jaḍavuḍaṉā ṉeṉṉādu saccit tudiyā
duḍalaḷavā nāṉoṉ ḏṟudikku — miḍaiyilitu
ciccaḍakki ranthibandhañ jīvaṉuṭpa meyyahandai
yiccamu sāramaṉa meṇ
.

பதச்சேதம்: சட உடல் ‘நான்’ என்னாது; சத்சித் உதியாது; உடல் அளவா ‘நான்’ ஒன்று உதிக்கும் இடையில். இது சித்சடக்கிரந்தி, பந்தம், சீவன், நுட்ப மெய், அகந்தை, இச் சமுசாரம், மனம்; எண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): jaḍa uḍal ‘nāṉ’ eṉṉādu; sat-cit udiyādu; uḍal aḷavā ‘nāṉ’ oṉḏṟu udikkum iḍaiyil. idu cit-jaḍa-giranthi, bandham, jīvaṉ, nuṭpa mey, ahandai, i-c-samusāram, maṉam; eṇ.

அன்வயம்: சட உடல் ‘நான்’ என்னாது; சத்சித் உதியாது; இடையில் உடல் அளவா ‘நான்’ ஒன்று உதிக்கும். இது சித்சடக்கிரந்தி, பந்தம், சீவன், நுட்ப மெய், அகந்தை, இச் சமுசாரம், மனம்; எண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): jaḍa uḍal ‘nāṉ’ eṉṉādu; sat-cit udiyādu; iḍaiyil uḍal aḷavā ‘nāṉ’ oṉḏṟu udikkum. idu cit-jaḍa-giranthi, bandham, jīvaṉ, nuṭpa mey, ahandai, i-c-samusāram, maṉam; eṇ.

Traduzione: Il corpo jaḍa non dice ‘io’; sat-cit non sorge; [ma] tra [questi due] sorge un ‘io’ come l’estensione del corpo. Sappi che questo è cit-jaḍa-granthi, bandha, jīva, il corpo sottile, ahandai, questo saṁsāra e manam.
Quando egli dice che il corpo non dice ‘io’, è un modo metaforico di dire che esso non è consapevole di se stesso come ‘io’, e la ragione per cui non è consapevole di se stesso è che è jaḍa, che significa non cosciente. Nel termine composto sat-cit, sat significa ciò che è o ciò che esiste, e cit significa ciò che è consapevole o ciò che sperimenta, così questo termine sat-cit si riferisce solo a noi stessi, poiché noi siamo l’unica cosa che esiste realmente ed è realmente consapevole. Poiché noi esistiamo sempre e siamo sempre consapevoli, non sorgiamo mai né appariamo né abbiamo origine. Quindi il corpo e il noi stessi sono del tutto differenti: mentre il corpo è jaḍa e perciò non consapevole di se stesso come ‘io’, noi siamo cit e perciò consapevoli di noi stessi come ‘io’; e mentre il corpo appare e scompare, o sorge e sprofonda, noi non appaiamo né scompariamo, e non sorgiamo né sprofondiamo, perché siamo sat – ciò che realmente esiste, perciò ciò che esiste senza inizio né fine.

Tuttavia tra noi e questo corpo sorge un’entità spuria che definisce se stessa ‘io’, sebbene si intenda se stessa limitata alle dimensioni del corpo (cioè, limitata alla sua dimensione sia nello spazio che nel tempo). Sperimentando e chiamando se stessa come ‘io’, questa entità spuria usurpa ciò che di diritto appartiene solo a noi stessi, e prendendo se stessa come limitata alla dimensione del corpo, nello stesso modo usurpa questo corpo. Quindi è chiamata cit-jaḍa-granthi, il nodo (granthi) che lega insieme il cosciente (cit) e il non-cosciente (jaḍa) come se fossero uno, ed è anche chiamata con vari altri nomi come ahandai (ego), manam (mente), jīva (anima, persona o sé individuale), il corpo sottile, bandha (schiavitù) e saṁsāra, che è una parola che significa vagare, movimento perpetuo, attività incessante, esistenza terrena o il ciclo di nascita e morte.

5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 23: perché questo corpo non è ciò che sono realmente?

Discutendo l’ego, merita di essere considerato anche il verso 23 di Uḷḷadu Nāṟpadu, perché in esso Bhagavan comprime molte delle idee che ha espresso più pienamente nei versi 24 e 26:
நானென்றித் தேக நவிலா துறக்கத்து
நானின்றென் றாரு நவில்வதிலை — நானொன்
றெழுந்தபி னெல்லா மெழுமிந்த நானெங்
கெழுமென்று நுண்மதியா லெண்.

nāṉeṉḏṟid dēha navilā duṟakkattu
nāṉiṉḏṟeṉ ḏṟāru navilvadilai — nāṉoṉ
ḏṟeṙundapi ṉellā meṙuminda nāṉeṅ
geṙumeṉḏṟu nuṇmatiyā leṇ
.

பதச்சேதம்: ‘நான்’ என்று இத் தேகம் நவிலாது. ‘உறக்கத்தும் நான் இன்று’ என்று ஆரும் நவில்வது இலை. ‘நான்’ ஒன்று எழுந்த பின், எல்லாம் எழும். இந்த ‘நான்’ எங்கு எழும் என்று நுண் மதியால் எண்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ eṉḏṟu id-dēham navilādu. ‘uṟakkattum nāṉ iṉḏṟu’ eṉḏṟu ārum navilvadu ilai. ‘nāṉ’ oṉḏṟu eṙunda piṉ, ellām eṙum. inda ‘nāṉ’ eṅgu eṙum eṉḏṟu nuṇ matiyāl eṇ.

அன்வயம்: இத் தேகம் ‘நான்’ என்று நவிலாது. ‘உறக்கத்தும் நான் இன்று’ என்று ஆரும் நவில்வது இலை. ‘நான்’ ஒன்று எழுந்த பின், எல்லாம் எழும். இந்த ‘நான்’ எங்கு எழும் என்று நுண் மதியால் எண்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): id-dēham ‘nāṉ’ eṉḏṟu navilādu. ‘uṟakkattum nāṉ iṉḏṟu’ eṉḏṟu ārum navilvadu ilai. ‘nāṉ’ oṉḏṟu eṙunda piṉ, ellām eṙum. inda ‘nāṉ’ eṅgu eṙum eṉḏṟu nuṇ matiyāl eṇ.

Traduzione: Questo corpo non dichiara [se stesso come] ‘io’. Nessuno dichiara ‘nel sonno non esistevo’. Dopo che un ‘io’ sorge, ogni cosa sorge. Investiga con una mente sottile dove sorge questo ‘io’.
Nella versione kaliveṇbā di Uḷḷadu Nāṟpadu (che è la versione in cui Bhagavan aggiunse parole tra ciascun verso per collegare tutti i quarantadue versi insieme come uno) egli aggiunse parole importanti sia prima che dopo questo verso. Prima aggiunse le parole மதியிலதால் (mati-y-iladāl), che significano ‘poiché è privo di consapevolezza’, e che quindi indicano che il motivo per cui il corpo non dichiara se stesso come ‘io’ è che non è consapevole. E alla fine di questo verso cambiò la parola finale எண் (eṇ) in எண்ண (eṇṇa) e aggiunse la parola நழுவும் (naṙuvum).

எண் (eṇ) è un imperativo che abitualmente significa pensare, considerare, ponderare su, riflettere o determinare, ma in questo conteso significa investigare, esaminare o osservare, e எண்ண (eṇṇa) è la forma infinita dello stesso verbo. Tuttavia in Tamil l’infinito è spesso usato in un senso avverbiale per connettere una proposizione condizionale a una proposizione principale, nello stesso senso in cui ‘quando’ è usato in Inglese come una avverbio condizionale, così in questo contesto எண்ண (eṇṇa) significa ‘quando uno investiga’ o ‘quando uno osserva’. நழுவும் (naṙuvum) è la terza persona singolare neutra di நழுவு (naṙuvu), che significa scivolare, allontanarsi alla chetichella, svignarsela, nascondersi, scappare o evadere, così significa ‘essa se la svignerà’. Quindi la frase finale della versione kaliveṇbā di questo verso è ‘இந்த நான் எங்கு எழும் என்று நுண் மதியால் எண்ண, நழுவும்’ (inda nāṉ eṅgu eṙum eṉḏṟu nuṇ matiyāl eṇṇa, naṙuvum), che significa: ‘Quando uno investiga [o osserva] con mente sottile dove sorge questo ‘io’, esso se la svignerà’.

Di conseguenza nella versione kaliveṇbā di questa frase finale Bhagavan esprime la stessa idea che ha espresso nel verso 25 quando dice, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa, ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso [l’ego] prenderà il volo’. Il motivo per cui esso ‘se la svignerà’ o ‘prenderà il volo’ quando lo investighiamo o osserviamo attentamente è che esso non ha forma propria e può quindi sembrare esistere solo quando afferra qualche forma (cioè, qualsiasi cosa diversa da se stesso), perciò quando cerca di afferrare solo se stesso sprofonderà o scomparirà.

Nel verso 25 la condizione per la quale l’ego ‘prenderà il volo’ è specificata come ‘தேடினால்’ (tēḍiṉāl), che significa ‘se cercato’. Cioè, il nostro ego sembra esistere finché guarda o dà attenzione a qualche forma (qualsiasi cosa diversa da se stesso), ma se volge la sua attenzione indietro guardando se stesso, scomparirà, perché non esiste realmente. Qui nel verso 23 la condizione per la quale esso ‘se la svignerà’ è specificata come ‘இந்த நான் எங்கு எழும் என்று நுண் மதியால் எண்ண’ (inda nāṉ eṅgu eṙum eṉḏṟu nuṇ matiyāl eṇṇa), che significa: ‘Quando uno investiga con mente sottile dove sorge questo ‘io’’. L’ ‘io’ che sorge è solo il nostro ego, e dove sorge è solo in noi stessi, così investigare o osservare dove esso sorge significa investigare solo noi stessi, la sorgente dalla quale sorge questo ego e tutta la sua progenie. Quando facciamo questo, il nostro ego se la svignerà perché esso sembra esistere solo quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Nella prima frase del verso 23, ‘மதியிலதால், நான் என்று இத் தேகம் நவிலாது’ (mati-y-iladāl, nāṉ eṉḏṟu id-dēham navilādu), che significa, ‘Poiché è privo di consapevolezza, questo corpo non dichiara [se stesso come] io’, Bhagavan esprime la stessa idea che esprime nella prima frase del verso 24: ‘சட உடல் நான் என்னாது’ (jaḍa uḍal nāṉ eṉṉādu), che significa, ‘Il corpo non-cosciente non dice io’. In entrambi i casi è un modo metaforico di dire che il corpo non è cosciente ed è quindi non consapevole di se stesso come ‘io’. Ciò che sperimenta questo corpo come ‘io’ è solo il nostro ego.

Nella seconda frase egli spiega perché questo corpo non è ciò che siamo realmente: ‘உறக்கத்தும் நான் இன்று என்று ஆரும் நவில்வது இலை’ (uṟakkattum nāṉ iṉḏṟu eṉḏṟu ārum navilvadu ilai), ‘Nessuno dichiara che nel sonno l’io non esisteva’. Cioè, noi siamo consapevoli che eravamo addormentati, così siamo consapevoli di essere esistiti nel sonno, perciò dopo che ci svegliamo non sentiamo di aver cessato di esistere nel sonno. Abbiamo semplicemente cessato di essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi dormivamo, non eravamo consapevoli né del nostro ego né del nostro corpo, così nessuna di queste cose può essere ciò che siamo realmente – cioè, ciò che io sono realmente.

Ciò che sono realmente deve essere qualcosa che sperimento in tutti i tempi, non qualcosa che sperimento solo temporaneamente. Poiché nel sonno sperimento me stesso, anche se non sperimento né il mio ego né il mio corpo, non posso essere nessuno di questi due fenomeni temporanei. Posso solo essere ciò che sperimento permanentemente, e che non è nient’altro che me stesso. Quindi io sono solo io, e non qualsiasi altra cosa.

Nella terza frase del verso 23, ‘நான் ஒன்று எழுந்த பின், எல்லாம் எழும்’ (nāṉ oṉḏṟu eṙunda piṉ, ellām eṙum), che significa ‘Dopo che un ‘io’ sorge, ogni cosa sorge’, Bhagavan esprime la stessa idea che esprime nella prima frase del verso 26: ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum), che significa ‘se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine’. Nel verso 25 dice che l’ego sorge in essere ‘afferrando la forma’ (உரு பற்றி: uru paṯṟi), che può sembrare suggerire che le forme esistono indipendentemente dall'ego, ma nel verso 23 e 26 egli chiarisce che esse non esistono indipendentemente da esso, perché hanno origine solo quando esso sorge, e quindi non esistono in sua assenza. In altre parole, ogni cosa (tutte le forme) sono solamente una creazione dell’ego e sono proiettate da esso appena sorge, e cessano di esistere appena sprofonda.

6. Nāṉ Yār? paragrafo 4: questo corpo e il mondo sono una proiezione dell’ego o mente

Questa proiezione e ritiro di ogni cosa diversa da se stessi è descritta graficamente da Bhagavan nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?) usando l’analogia di un ragno che produce il filo da dentro se stesso e di nuovo lo ritira in se stesso, perché è in un modo simile che il nostro ego proietta da dentro se stesso ogni cosa diversa da se stesso appena sorge (cioè, quando si sveglia dal sonno o inizia a sognare), e ritira ogni cosa in se stesso quando sprofonda (cioè, quando si addormenta).

Poiché tutto il quarto paragrafo è relativo a ciò che stiamo discutendo qui, e poiché molte delle idee espresse dal verso 23 al verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu sono anche espresse in esso, merita di considerarlo qui nella sua interezza:
மன மென்பது ஆத்ம சொரூபத்தி லுள்ள ஓர் அதிசய சக்தி. அது சகல நினைவுகளையும் தோற்றுவிக்கின்றது. நினைவுகளை யெல்லாம் நீக்கிப் பார்க்கின்றபோது, தனியாய் மனமென் றோர் பொருளில்லை; ஆகையால் நினைவே மனதின் சொரூபம். நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. தூக்கத்தில் நினைவுகளில்லை, ஜகமுமில்லை; ஜாக்ர சொப்பனங்களில் நினைவுகளுள, ஜகமும் உண்டு. சிலந்திப்பூச்சி எப்படித் தன்னிடமிருந்து வெளியில் நூலை நூற்று மறுபடியும் தன்னுள் இழுத்துக் கொள்ளுகிறதோ, அப்படியே மனமும் தன்னிடத்திலிருந்து ஜகத்தைத் தோற்றுவித்து மறுபடியும் தன்னிடமே ஒடுக்கிக்கொள்ளுகிறது. மனம் ஆத்ம சொரூபத்தினின்று வெளிப்படும்போது ஜகம் தோன்றும். ஆகையால், ஜகம் தோன்றும்போது சொரூபம் தோன்றாது; சொரூபம் தோன்றும் (பிரகாசிக்கும்) போது ஜகம் தோன்றாது. மனதின் சொரூபத்தை விசாரித்துக்கொண்டே போனால் தானே மனமாய் முடியும். ‘தான்’ என்பது ஆத்மசொரூபமே. மனம் எப்போதும் ஒரு ஸ்தூலத்தை யனுசரித்தே நிற்கும்; தனியாய் நில்லாது. மனமே சூக்ஷ்மசரீர மென்றும் ஜீவ னென்றும் சொல்லப்படுகிறது.

maṉam eṉbadu ātma sorūpattil uḷḷa ōr atiśaya sakti. ad sakala niṉaivugaḷai-y-um tōṯṟuvikkiṉḏṟadu. niṉaivugaḷai y-ellām nīkki-p pārkkiṉḏṟa-pōdu, taṉiyāy maṉam-eṉḏṟōr poruḷ illai; āhaiyāl niṉaivē maṉadiṉ sorūpam. niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyam-āy illai. tūkkattil niṉaivugaḷ illai, jagam-um illai; jāgra-soppaṉaṅgaḷil niṉaivugaḷ uḷa, jagam-um uṇḍu. silandi-p-pūcci eppaḍi-t taṉṉiḍamirundu veḷiyil nūlai nūṯṟu maṟupaḍiyum taṉṉuḷ iṙuttu-k-koḷḷugiṟadō, appaḍiyē maṉam-um taṉṉiḍattilirundu jagattai-t tōṯṟuvittu maṟupaḍiyum taṉṉiḍamē oḍukki-k-koḷḷugiṟadu. maṉam ātma sorūpattiṉiṉḏṟu veḷippaḍum-pōdu jagam tōṉḏṟum. āhaiyāl, jagam tōṉḏṟum-pōdu sorūpam tōṉḏṟādu; sorūpam tōṉḏṟum (pirakāśikkum) pōdu jagam tōṉḏṟādu. maṉadiṉ sorūpattai vicārittu-k-koṇḍē pōṉāl tāṉē maṉam-āy muḍiyum. ‘tāṉ’ eṉbadu ātma-sorūpam-ē. maṉam eppōdum oru sthūlattai y-aṉusarittē niṯkum; taṉiyāy nillādu. maṉam-ē sūkṣma-śarīram eṉḏṟum jīvaṉ eṉḏṟum sollappaḍugiṟadu.

Ciò che è chiamata 'mente', è un atiśaya śakti [un potere straordinario o meraviglioso] che esiste in ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale]. Esso proietta [o causa l'apparenza di] tutti i pensieri. Quando si mettono da parte tutti i pensieri e si osserva, da sola non c'è una cosa come 'la mente'; quindi solo il pensiero è la svarūpa [la 'forma propria' o natura fondamentale] della mente. Eccetto i pensieri [o idee] non c'è indipendentemente una cosa come il 'mondo'. Nel sonno non ci sono pensieri, [e conseguentemente] anche non c'è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, [e conseguentemente] c'è anche un mondo. Esattamente come un ragno produce il filo della tela da sé stesso ed anche ritira il filo in sé stesso, così la mente proietta il mondo da sé stessa ed anche lo dissolve in sé stessa. Quando la mente esce da ātma-svarūpa, il mondo appare. Perciò quando il mondo appare, svarūpa [la nostra 'forma' o sé essenziale] non appare [come realmente è]; quando svarūpa appare (risplende) [come realmente è], il mondo non appare. Se si continua a investigare la natura della mente, solo il sé risulterà essere [ciò che ora appare come] la mente. Ciò che [qui] è chiamato 'sé' (tāṉ) è solo ātma-svarūpa. La mente si regge soltanto cercando sempre [attaccando sé stessa a] un oggetto grossolano [un corpo fisico]; da sola essa non si regge. La mente da sola è descritta come sūkṣma sarīra [il 'corpo sottile'] e come jīva [l' 'anima’ o sé individuale].
Benché in questo quarto paragrafo di Nāṉ Yār? Bhagavan non menziona effettivamente la parola ‘ego’ ma invece discute la ‘mente’, nel verso 24 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli dice che la ‘mente’ è un altro nome con cui è chiamato l’ego. Il termine ‘mente’ è anche spesso usato per indicare l’intera serie di pensieri, nel qual caso include sia l’ego che tutti gli altri pensieri, ma come ha spiegato nel verso 18 di Upadēśa Undiyār (che ho citato e discusso in Distinguere l’ego dal resto della mente, la quarta sezione del mio articolo precedente, Dṛg-dṛśya-vivēka: distinguere colui che vede dal ciò che è visto) l’ego o ‘pensiero chiamato io’ è la radice di tutti gli altri pensieri, così ciò che la mente è essenzialmente è solo questo ego. In questo paragrafo egli usa la parola மனம் (maṉam) o ‘mente’ nove volte, e nella maggioranza dei casi potrebbe essere sostituita con la parola அகந்தை (ahandai) o ‘ego’ senza cambiare il significato in modo significativo.

7. Nāṉ Yār? paragrafo 5: senza l’ego nient’altro esiste

Bhagavan anche esprime alcune delle idee che ha espresso dal verso 23 al verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu nel successivo paragrafo di Nāṉ Yār? (il quinto), così esso è ugualmente meritevole di essere qui considerato:
இந்தத் தேகத்தில் நான் என்று கிளம்புவது எதுவோ அஃதே மனமாம். நானென்கிற நினைவு தேகத்தில் முதலில் எந்தவிடத்திற் றோன்றுகின்ற தென்று விசாரித்தால், ஹ்ருதயத்தி லென்று தெரிய வரும். அதுவே மனதின் பிறப்பிடம். நான், நான் என்று கருதிக்கொண்டிருந்தாலுங்கூட அவ்விடத்திற் கொண்டுபோய் விட்டுவிடும். மனதில் தோன்றும் நினைவுக ளெல்லாவற்றிற்கும் நானென்னும் நினைவே முதல் நினைவு. இது எழுந்த பிறகே ஏனைய நினைவுகள் எழுகின்றன. தன்மை தோன்றிய பிறகே முன்னிலை படர்க்கைகள் தோன்றுகின்றன; தன்மை யின்றி முன்னிலை படர்க்கைக ளிரா.

inda-t dēhattil nāṉ eṉḏṟu kiḷambuvadu edu-v-ō aḵdē maṉam-ām. nāṉ-eṉgiṟa niṉaivu dēhattil mudalil enda-v-iḍattil tōṉḏṟugiṉḏṟadu eṉḏṟu vicārittāl, hrudayattil eṉḏṟu teriya varum. adu-v-ē maṉadiṉ piṟappiḍam. nāṉ, nāṉ eṉḏṟu karudi-k-koṇḍirundāluṅ-gūḍa a-vv-iḍattil koṇḍu-pōy viṭṭu-viḍum. maṉadil tōṉḏṟum niṉaivugaḷ ellāvaṯṟiṯkum nāṉ-eṉṉum niṉaivē mudal niṉaivu. idu eṙunda piṟahē ēṉaiya niṉaivugaḷ eṙugiṉḏṟaṉa. taṉmai tōṉḏṟiya piṟahē muṉṉilai paḍarkkaigaḷ tōṉḏṟugiṉḏṟaṉa; taṉmai y-iṉḏṟi muṉṉilai paḍarkkaigaḷ irā.

Ciò che sorge in questo corpo come 'Io', questo solo è la mente. Se si investiga in quale punto nel corpo il pensiero chiamato 'Io' sorge inizialmente, si giungerà a conoscere che [esso sorge] nel cuore [il nucleo più interno del proprio essere]. Questo solo è il luogo di nascita della mente. Anche se si continua a pensare 'io, io', ciò condurrà in questo luogo. Di tutti i pensieri che appaiono [o sorgono] nella mente, solo il pensiero chiamato 'Io' è il pensiero primo [primario, basico, originale o causale]. Solo dopo che questo pensiero sorge, sorgono gli altri pensieri. Solo dopo che appare la prima persona, la seconda e la terza persona appaiono, senza la prima persona, la seconda e la terza persona non esistono.
Ciò che Bhagavan descrive qui come நானென்னும் நினைவு (nāṉ-eṉṉum niṉaivu), che significa il ‘pensiero chiamato io’, è solo l’ego, e quando dice che esso sorge nel corpo come ‘io’ intende che esso sorge proiettando un corpo e sperimentandolo come se stesso. Una volta che esso è sorto, la sua esperienza di se stesso sembra essere limitata all’interno dei confini del corpo che ha proiettato, così se l'ego investiga se stesso sembra inizialmente come se stesse investigando se stesso all’interno del corpo. Questo è il motivo per cui egli dice ‘நானென்கிற நினைவு தேகத்தில் முதலில் எந்தவிடத்திற் றோன்றுகின்ற தென்று விசாரித்தால்’ (nāṉ-eṉgiṟa niṉaivu dēhattil mudalil enda-v-iḍattil tōṉḏṟugiṉḏṟadu eṉḏṟu vicārittāl), che significa ‘Se [uno] investiga in quale luogo nel corpo sorge inizialmente il pensiero chiamato ‘io’’. Tuttavia egli conclude questa frase dicendo ‘ஹ்ருதயத்தி லென்று தெரிய வரும்’ (hrudayattil eṉḏṟu teriya varum), che significa ‘[uno] giungerà a conoscere che [esso è] nel cuore’, che è un termine che egli ha usato spesso in modo metaforico per intendere ciò che essenzialmente siamo (il nostro sé reale), poiché ciò che essenzialmente siamo è il nucleo o centro di ciò che ora sembriamo essere.

In tali contesti, ogni volta che egli usa qualche parola che significa letteralmente ‘luogo’, come in questo caso இடம் (iḍam), non si sta riferendo generalmente a un luogo fisico, ma sta invece usando la parola ‘luogo’ in senso metaforico per riferirsi a noi stessi, poiché noi soli siamo la sorgente o ‘luogo di nascita’ (பிறப்பிடம்: piṟappiḍam) dal quale il nostro ego e ogni altra cosa sorge, e il terreno o fondamento su cui ogni cosa si regge. Quindi quando dice che dovremmo investigare in quale luogo il pensiero chiamato ‘io’ sorge, intende che dovremmo investigare solo noi stessi.

Nella frase finale di questo paragrafo si riferisce alla prima, alla seconda e alla terza persona. La prima persona è il nostro ego o pensiero chiamato ‘io’, mentre la seconda e la terza persona sono ogni altra cosa che sperimentiamo. Quindi l’idea che egli esprime nella frase conclusiva di questo paragrafo, ‘Di tutti i pensieri che appaiono nella mente, solo il pensiero chiamato ‘io’ è il primo pensiero. Solo dopo che questo sorge, altri pensieri sorgono. Solo dopo che appare la prima persona, la seconda e la terza persona appaiono; senza la prima persona, la seconda e la terza persona non esistono’, è essenzialmente la stessa idea che esprime nella terza frase del verso 23 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘Dopo che un ‘io’ sorge, ogni cosa sorge’, e anche nelle prime due frasi del verso 26, ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste’.

8. L’ego e le altre cose sono reciprocamente ma asimmetricamente dipendenti

Nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār? Bhagavan ha detto, ‘மனம் எப்போதும் ஒரு ஸ்தூலத்தை யனுசரித்தே நிற்கும்; தனியாய் நில்லாது’ (maṉam eppōdum oru sthūlattai y-aṉusarittē niṯkum; taṉiyāy nillādu), che significa ‘La mente si regge soltanto cercando sempre un oggetto grossolano; da sola essa non si regge’. Qui அனுசரித்தே (aṉusarittē) è un participio che significa letteralmente ‘cercare’, ‘inseguire’ o ‘perseguire’, così in questo contesto significa dare attenzione o attaccare se stessa a qualcosa. ஸ்தூலத்தை (sthūlattai) è la forma accusativa di ஸ்தூலம் (sthūlam), che significa grossolano, solido, concreto o materiale, così ஒரு ஸ்தூலத்தை (oru sthūlattai) qui significa ‘un oggetto grossolano’, ‘una cosa concreta’ o qualsiasi cosa che sia materiale. In questo contesto esso significa in modo specifico un corpo fisico, perché questo è ciò a cui la mente attacca se stessa prima di tutto, e senza reggersi ad esso la mente non può stare.

Così in questa frase Bhagavan esprime la stessa idea che esprime nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, vale a dire che l’ego ha origine e si regge solo ‘afferrando una forma’ (உரு பற்றி: uru paṯṟi). Quindi ciò che vuole dire in questi punti è che l’apparente esistenza del nostro ego o mente dipende dall’apparente esistenza di altre cose, e che esso da solo non si regge, ma deve sempre aggrapparsi ad altre cose che sono più grossolane o solide.

Tuttavia, nella frase conclusiva del quinto paragrafo di Nāṉ Yār? e nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli indica che proprio come l’apparente esistenza del nostro ego dipende dall’apparente esistenza di altre cose, l’apparente esistenza di tutte le altre cose dipende dall’apparente esistenza del nostro ego, e che esse non possono apparire senza di esso. Quindi l’ego e le altre cose sono mutualmente dipendenti, perciò nessuno dei due può esistere senza l’altro.

Tuttavia, benché essi sono mutualmente dipendenti, la loro reciproca dipendenza non è simmetrica, perché mentre ci sono molte altre cose, c’è solo un ego, così qualunque altra cosa possa esistere (o possa sembrare di esistere) dipende dall’ego, mentre l’ego dipende da nessun’altra cosa particolare. Esso non può esistere senza afferrare qualcosa diversa da se stesso, ma poiché ogni cosa diversa da se stesso è creata o proiettata da esso stesso, ogni volta che lascia una forma può proiettare e afferrare un’altra forma.

Questo è ciò che Bhagavan ha indicato quando ha detto nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘உரு விட்டு, உரு பற்றும்’ (uru viṭṭu, uru paṯṟum), ‘lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma’. Quindi benché il nostro ego ora sperimenti se stesso come il nostro corpo attuale, non dipende soltanto da questo corpo. Ogni volta che lascia questo attuale stato e sogna qualche altro stato, non sperimenta più il nostro corpo attuale, ma proietta e sperimenta qualche altro corpo come se stesso. Nello stesso modo, quando lascia questo corpo attuale nel momento della morte, sarà in grado di proiettare e sperimentare qualche altro corpo come se stesso.

Questa è la natura di questo ego. Benché dipenda da altre cose, è nondimeno relativamente indipendente, perché qualunque cosa da cui esso dipenda è sempre una propria proiezione, così ogni volta che vuole sorgere può farlo semplicemente proiettando e afferrandosi ad altre cose (come fa nel sogno). Questo è il motivo per cui le frasi finali del quinto paragrafo di Nāṉ Yār? sono una conclusione così importante a tutto ciò che Bhagavan ha detto riguardo la mente (che è essenzialmente solo l’ego) nel quarto e nel quinto paragrafo, e il motivo per cui il verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu è una conclusione così importante a tutto ciò che ha detto riguardo l’ego nei tre versi precedenti.

9. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: investigare l’ego è abbandonare ogni cosa

Ciò che egli ha detto nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu è:
அகந்தையுண் டாயி னனைத்துமுண் டாகு
மகந்தையின் றேலின் றனைத்து — மகந்தையே
யாவுமா மாதலால் யாதிதென்று நாடலே
யோவுதல் யாவுமென வோர்.

ahandaiyuṇ ḍāyi ṉaṉaittumuṇ ḍāhu
mahandaiyiṉ ḏṟēliṉ ḏṟaṉaittu — mahandaiyē
yāvumā mādalāl yādideṉḏṟu nādalē
yōvudal yāvumeṉa vōr
.

பதச்சேதம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் என ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum eṉa ōr.

அன்வயம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், அனைத்தும் இன்று. யாவும் அகந்தையே ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே யாவும் ஓவுதல் என ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte secondo ordine natural di prosa): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, aṉaittum iṉḏṟu. yāvum ahandai-y-ē ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē yāvum ōvudal eṉa ōr.

Traduzione: Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Perciò] l’ego è ogni cosa. Quindi, sappi che solo investigare cos’è questo [ego] è abbandonare ogni cosa.
La prima parola nella frase finale di questo verso, ஆதலால் (ādalāl), significa ‘quindi’, così esso fornisce un collegamento logico tra l’idea espressa in questa frase e quelle espresse nelle frasi precedenti. Tuttavia, per comprendere pienamente questo collegamento logico, abbiamo bisogno di riconoscere che esso non si riferisce solo alle frasi precedenti in questo verso, ma anche alla frase finale del verso precedente, vale a dire ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa, ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso [l’ego] prenderà il volo’. Cioè, poiché ogni altra cosa sembra esistere solo quando l'ego sembra esistere, e poiché l’apparente esistenza dell’ego cesserà se lo investighiamo, ‘solo investigare ciò che è questo ego è abbandonare ogni cosa’ (யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும்: yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum).

In questa frase, il suffisso ஏ (ē) che è apposto al sostantivo verbale நாடல் (nādal), che significa ‘investigare’ o ‘esaminare’, è un intensificatore che comporta ‘solo’, ‘certamente’ o ‘esso stesso’, così l’ho tradotto qui come ‘solo’. Il motivo per cui l’ho interpretato in questo senso è, come possiamo dedurre dal verso 25, che investigare l’ego è il solo mezzo con cui possiamo abbandonarlo (e quindi il solo mezzo con cui possiamo abbandonare ogni altra cosa), perché se diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa dall’ego stiamo ‘afferrando una forma’, e afferrando una forma stiamo alimentando e nutrendo questo ego.

10. Uḷḷadu Nāṟpadu versi 22 e 27: tranne che con l’auto-investigazione, come possiamo sperimentare ciò che siamo realmente?

In questo contesto è importante prendere nota del fatto che questi quattro versi di Uḷḷadu Nāṟpadu in cui Bhagavan spiega la natura essenziale dell’ego, vale a dire dal verso 23 al 26, sono interposti tra due altri versi in ciascuno dei quali egli enfatizza (con l’uso di domande retoriche) che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente e quindi distruggere il nostro ego (come anche ha chiaramente inteso nel verso 25). Nel verso 22 egli dice:
மதிக்கொளி தந்தம் மதிக்கு ளொளிரு
மதியினை யுள்ளே மடக்கிப் — பதியிற்
பதித்திடுத லன்றிப் பதியை மதியான்
மதித்திடுக லெங்ஙன் மதி.

matikkoḷi tandam matikku ḷoḷiru
matiyiṉai yuḷḷē maḍakkip — patiyiṯ
padittiḍuda laṉḏṟip patiyai matiyāṉ
matittiḍuda leṅṅaṉ mati
.

பதச்சேதம்: மதிக்கு ஒளி தந்து, அம் மதிக்குள் ஒளிரும் மதியினை உள்ளே மடக்கி பதியில் பதித்திடுதல் அன்றி, பதியை மதியால் மதித்திடுதல் எங்ஙன்? மதி.

Padacchēdam (separazione delle parole): matikku oḷi tandu, am-matikkuḷ oḷirum matiyiṉai uḷḷē maḍakki patiyil padittiḍudal aṉḏṟi, patiyai matiyāl matittiḍudal eṅṅaṉ? mati.

அன்வயம்: மதிக்கு ஒளி தந்து, அம் மதிக்குள் ஒளிரும் பதியில் மதியினை உள்ளே மடக்கி பதித்திடுதல் அன்றி, பதியை மதியால் மதித்திடுதல் எங்ஙன்? மதி.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): matikku oḷi tandu, am-matikkuḷ oḷirum patiyil matiyiṉai uḷḷē maḍakki padittiḍudal aṉḏṟi, patiyai matiyāl matittiḍudal eṅṅaṉ? mati.

Traduzione: Considera, tranne che rivolgendo la mente all’interno e immergendola in Dio, che risplende all’interno di quella mente dando luce ad essa, come conoscere Dio con la mente?
La parola பதி (pati) significa letteralmente ‘signore’ o ‘maestro’, ed è quindi un termine che è spesso usato per indicare Dio, ma in questo contesto si riferisce in modo specifico a Dio come il nostro sé reale, e non a qualche idea di Dio come qualcosa di separato da o diverso da noi stessi. Come il nostro sé reale, Dio è la pura auto-consapevolezza che illumina la nostra mente, permettendole di essere consapevole sia di se stessa che di tutte le altre cose. Quindi per conoscere Dio come è realmente dobbiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e in questo verso Bhagavan enfatizza che il solo mezzo con cui possiamo ‘conoscere Dio’ o sperimentare noi stessi come siamo realmente è rivolgere la nostra mente (il nostro potere di attenzione) indietro in noi stessi e quindi annegandola in Dio, il nostro sé reale.

Egli intende la stessa cosa nel verso 27, in cui dice:
நானுதியா துள்ளநிலை நாமதுவா யுள்ளநிலை
நானுதிக்குந் தானமதை நாடாம — னானுதியாத்
தன்னிழப்பைச் சார்வதெவன் சாராமற் றானதுவாந்
தன்னிலையி னிற்பதெவன் சாற்று.

nāṉudiyā duḷḷanilai nāmaduvā yuḷḷanilai
nāṉudikkun thāṉamadai nāḍāma — ṉāṉudiyāt
taṉṉiṙappaic cārvadevaṉ sārāmaṯ ṟāṉaduvān
taṉṉilaiyi ṉiṯpadevaṉ sāṯṟu
.

பதச்சேதம்: ‘நான்’ உதியாது உள்ள நிலை நாம் அது ஆய் உள்ள நிலை. ‘நான்’ உதிக்கும் தானம் அதை நாடாமல், ‘நான்’ உதியா தன் இழப்பை சார்வது எவன்? சாராமல், தான் அது ஆம் தன் நிலையில் நிற்பது எவன்? சாற்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ udiyādu uḷḷa nilai nām adu-v-āy uḷḷa nilai. ‘nāṉ’ udikkum thāṉam-adai nāḍāmal, ‘nāṉ’ udiyā taṉ-ṉ-iṙappai sārvadu evaṉ? sārāmal, tāṉ adu ām taṉ-ṉilaiyil niṯpadu evaṉ? sāṯṟu.

Traduzione: Lo stato in cui ‘io’ esiste senza sorgere è lo stato in cui noi esistiamo come quello [brahman o Dio]. Senza investigare il luogo [o la sorgente] dal quale ‘io’ sorge, come ottenere l’annientamento di se stessi [l’ego], dove ‘io’ non sorge? [E] senza ottenere [questo annientamento del proprio ego], dimmi, come dimorare nello stato di se stessi, in cui se stessi è quello?
Il ‘luogo’ (sthāṉa) o sorgente dalla quale il nostro ego sorge è solo noi stessi, così ‘investigare il luogo dal quale ‘io’ sorge’ (நான் உதிக்கும் தானம் அதை நாடல்: nāṉ udikkum thāṉam-adai nāḍal) significa investigare proprio noi stessi. Quindi chiedendo ‘நான் உதிக்கும் தானம் அதை நாடாமல், நான் உதியா தன் இழப்பை சார்வது எவன்?’ (nāṉ udikkum thāṉam-adai nāḍāmal, nāṉ udiyā taṉ-ṉ-iṙappai sārvadu evaṉ?), che significa ‘Senza investigare il luogo dal quale ‘io’ sorge, come ottenere l’annientamento di se stessi [l’ego], dove ‘io’ non sorge?’, Bhagavan vuole dire chiaramente ed enfaticamente che il solo mezzo con cui possiamo annientare il nostro ego è investigare noi stessi.

Nello stesso modo, nella frase finale di questo verso, ‘சாராமல், தான் அது ஆம் தன் நிலையில் நிற்பது எவன்?’ (sārāmal, tāṉ adu ām taṉ-ṉilaiyil niṯpadu evaṉ?), che significa ‘Senza ottenere [questo annientamento del proprio ego], come dimorare nello stato di se stessi, in cui il se stesso è quello?’, egli intende che non possiamo sperimentare noi stessi come ‘quello’ (Dio o brahman, che solo è ciò che è reale) tranne annientando il nostro ego.

11. L’ego non esiste realmente

Dal verso 23 al 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan ci dà una descrizione chiara della natura essenziale, del comportamento e dell’effetto del nostro ego, e nei versi 22 e 27 indica che possiamo liberare noi stessi da esso e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente, solo rivolgendo la nostra attenzione indietro in noi stessi, per investigare il nostro sé essenziale, la sorgente dalla quale siamo sembrati sorgere come questo ego. Finora in questo articolo abbiamo considerato il significato di ciascuno di questi versi, e anche il quarto e il quinto paragrafo di Nāṉ Yār?, per comprendere chiaramente e interamente la natura del nostro ego come da lui spiegato. Tuttavia, il nostro primario interesse in questo articolo è nella sua descrizione di esso nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu come உருவற்ற பேய் அகந்தை (uru-v-aṯṟa pēy ahandai), ‘l’ego-fantasma senza forma’.

Dopo aver considerato in così grande profondità ciò che Bhagavan ci ha insegnato riguardo questo ego, possiamo rimanere con l’impressione che esso esista realmente, anche se come qualcosa di molto sfuggente e difficile da fissare. Tuttavia, se questa è l’impressione con cui rimaniamo, avremmo mancato il punto principale di tutto quello che ci ha insegnato, cioè che questo ego non esiste realmente. Questo è il punto più importante che dobbiamo comprendere e tenere in mente in ogni momento.

Questo ego sembra esistere finché afferra o sperimenta qualsiasi cosa diversa da se stesso, ma se lo cerchiamo, non troveremo una tale cosa. Questo è il motivo per cui egli lo descrive come un ‘fantasma senza forma’ (உருவற்ற பேய்: uru-v-aṯṟa pēy), ed è anche il motivo per cui l’ho descritto come ‘senza caratteristiche’. Qualunque caratteristica può sembrare avere non è propria ma di ciò che esso ha usurpato da noi stessi o dalle forme che ha afferrato, o da una combinazione di entrambi.

Se cerchiamo di separare il nostro ego dal nostro corpo e da tutte le altre forme che ha afferrato, rimarremo solo con la semplice auto-consapevolezza, che non appartiene al nostro ego ma solo a noi stessi come siamo realmente. Possiamo comprendere questo cercando di separare analiticamente (cioè, a un livello concettuale) il nostro ego da ogni altra cosa che sperimentiamo, ma non dovremmo limitarci a cercare di separarlo solamente in un senso teorico come questo. Per progredire oltre la teoria e l’analisi concettuale, dobbiamo cercare di separare sperimentalmente il nostro ego da tutte le sue aggiunte e ogni altra cosa che sperimenta, e possiamo farlo solo cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi, isolando noi stessi da ogni consapevolezza di qualsiasi altra cosa. Questa è la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), soltanto con la quale possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi sperimentare la non-esistenza di questo ego.

Nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice che l’ego ha origine afferrando una forma, si regge o resiste afferrando una forma, cresce, si estende o si espande abbondantemente afferrando e nutrendosi di forma, e lasciando una forma afferra un’altra forma. Ma cos’è realmente ciò che afferra la forma? Prima di afferrarla esso non esiste, e senza continuare ad afferrarla non può continuare ad esistere. Se stacchiamo tutte le forme che esso afferra, ciò che rimane è solo pura auto-consapevolezza. Tuttavia, non è la pura auto-consapevolezza ad afferrare la forma, perché qualunque cosa afferri la forma, cessa di essere pura auto-consapevolezza appena l’afferra.

La pura auto-consapevolezza è noi stessi come siamo realmente, e come siamo realmente non afferriamo alcuna cosa, perché semplicemente siamo, e non siamo mai consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi. Quindi ciò che afferra la forma non è noi stessi come siamo realmente né è una qualche forma, perché senza afferrare la forma (qualcosa diversa da se stesso) esso non esiste. Quindi Bhagavan lo descrive come un ‘fantasma senza forma’ (உருவற்ற பேய்: uru-v-aṯṟa pēy). Poiché non è noi stessi come siamo realmente, che è tutto ciò che rimane quando non c’è l’afferrare la forma, e poiché non è una qualche forma che esso afferra, questo ego non esiste realmente, così come potrebbe avere delle caratteristiche?

12. L’ego è una mescolanza confusa di auto-consapevolezza e consapevolezza di altre cose

Finché sembra esistere, il nostro ego è una mescolanza confusa di due cose: l’auto-consapevolezza e la consapevolezza di altre cose. Tranne che una combinazione di queste due cose, non c’è una cosa come l’ego. La consapevolezza di altre cose è ciò che Bhagavan chiama ‘pensieri’ (நினைவுகள் (niṉaivugaḷ) o எண்ணங்கள் (eṇṇaṅgaḷ)), e anche ciò che chiama ‘forma’ (உரு: uru) nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu e altrove. Se togliamo la consapevolezza di altre cose, non rimane una cosa come ‘l’ego’.

Come Bhagavan dice nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?: ‘நினைவுகளை யெல்லாம் நீக்கிப் பார்க்கின்றபோது, தனியாய் மனமென் றோர் பொருளில்லை’ (niṉaivugaḷai y-ellām nīkki-p pārkkiṉḏṟa-pōdu, taṉiyāy maṉam-eṉḏṟōr poruḷ illai), che significa ‘Quando uno accantona tutti i pensieri e vede, da sola non c’è una cosa come la mente’. Qui ‘pensieri’ significa consapevolezza di qualcosa diversa da noi stessi, e ‘da sola non c’è una cosa come la mente’ implica che non c’è una cosa come l’ego, perché la radice o l’essenza della mente è solo l’ego, così la mente resiste finché l’ego resiste, e in assenza della mente non c’è ego.

La consapevolezza di altre cose cambia costantemente – cioè, è in uno stato di flusso costante. E’ un continuo flusso di impressioni o pensieri, ognuno sostituito rapidamente con qualche altro. Tuttavia, benché la consapevolezza di altre cose cambia costantemente, l’ego che è consapevole di quelle altre cose rimane lo stesso, così la consapevolezza di altre cose non è ciò che l’ego è essenzialmente. Poiché l’ego non è costantemente consapevole di qualche altra cosa particolare, non è qualcuna delle altre cose di cui è consapevole. Ma in assenza di ogni consapevolezza di altre cose, tutto ciò che rimane è pura auto-consapevolezza, e come abbiamo visto la pura auto-consapevolezza non può essere chiamata ego, perché l’ego è ciò che è consapevole di altre cose, mentre la pura auto-consapevolezza non è mai consapevole di qualcosa diversa da se stessa.

13. L’auto-consapevolezza può essere considerata una caratteristica dell’ego?

Anche se discutiamo che l’auto-consapevolezza (anche se in una forma mischiata) è la natura essenziale dell’ego, potremmo dire che è una caratteristica dell’ego? Forse in un senso potremmo dirlo, ma generalmente l’auto-consapevolezza non è considerata una caratteristica, o almeno non una ‘caratteristica’ nel senso in cui stiamo ora usando questo termine. Noi stessi come siamo realmente, o brahman come è anche chiamato, è sempre consapevole di se stesso, ma nella filosofia advaita la sua auto-consapevolezza non è considerata una caratteristica.

L’equivalente Sanscrito di ciò che in Inglese chiamiamo ‘caratteristica’ è viśēṣa, e brahman(il nostro sé reale) è definito come nirviśēṣa — non-viśēṣa o privo di viśēṣa. ‘Caratteristica’ non è una traduzione del tutto adeguata di viśēṣa, perché il termine viśēṣa indica un concetto alquanto più astratto di ‘caratteristica’. Ciò che viśēṣa significa esattamente è ciò che è speciale, peculiare, differente o distintivo, o la qualità astratta di essere speciale, peculiare, differente o distintivo, così una caratteristica è qualcosa che è viśēṣa. Cioè, una caratteristica di qualcosa è ciò che è speciale, peculiare, differente o distintivo rispetto a quella cosa.

Poiché essere auto-consapevole è qualcosa che è speciale, peculiare, differente o distintivo rispetto a noi stessi, perché non è considerata viśēṣa nello stesso senso che ogni altra caratteristica è considerata esserlo? In altre parole, perché l’auto-consapevolezza è considerata nirviśēṣa o ‘non-distintiva’? La ragione è che l’auto-consapevolezza è l’unico ingrediente essenziale in ogni esperienza. E’ il vero fondamento su cui ogni esperienza è basata. Senza l’auto-consapevolezza non ci potrebbe essere esperienza, della stessa auto-consapevolezza o di qualsiasi altra cosa. Quindi non c’è niente di peculiare, speciale o distintivo riguardo l’auto-consapevolezza, o almeno non nel senso che è qualcosa sperimentata in certi momenti ma non in altri momenti. Non è viśēṣa perché non è speciale o peculiare in alcun modo, poiché è ciò che sempre è e che è sempre sperimentato.

Questo può anche essere spiegato usando l’esempio della nostra esperienza nel sonno. La maggior parte di noi sarebbe d’accordo, penso, che il sonno è un’esperienza senza caratteristiche. Nel sonno non sperimentiamo alcuna caratteristica, sebbene non cessiamo di essere auto-consapevoli. Nella veglia e nel sogno siamo consapevoli di noi stessi, e siamo anche consapevoli di numerose caratteristiche. Quando la nostra consapevolezza di tutte le caratteristiche che sperimentiamo nella veglia e nel sogno è rimossa, ciò che rimane è lo stato che chiamiamo sonno.

Nel sonno siamo consapevoli di noi stessi, proprio come lo siamo nella veglia e nel sogno, ma mentre nella veglia e nel sogno siamo consapevoli di noi stessi con molte caratteristiche (che sono le caratteristiche del corpo o persona che in quel momento sperimentiamo come noi stessi), nel sonno non siamo consapevoli di noi stessi con qualche caratteristica, tranne forse una completa assenza di tutte le altre caratteristiche. La sola ‘caratteristica’ del sonno che lo distingue dalla veglia e dal sogno è l’assenza di tutte le caratteristiche che sperimentiamo in quei due altri stati. Poiché la nostra auto-consapevolezza è la sola cosa che le nostre contrastanti esperienze di ciascuno di questi tre stati hanno in comune, non è qualcosa che è speciale o peculiare a qualcuno di questi tre stati, così non è una caratteristica di alcuno di essi. Se deve essere considerata una ‘caratteristica’ di qualcosa, è solo una caratteristica dell'esperienza stessa.

In questo contesto ciò che ho scritto in Siamo consapevoli di noi stessi anche se siamo senza caratteristiche (la seconda sezione di uno dei miei articoli recenti, Essere attentivamente auto-consapevoli non comporta alcuna relazione soggetto-oggetto, che ho scritto in risposta a un amico che mi ha chiesto se è possibile dare attenzione o osservare attentamente qualcosa che è senza caratteristiche) è pertinente:
[…] chiedi se è possibile guardare attentamente qualcosa senza caratteristiche. Nient’altro che noi stessi è senza caratteristiche, perché sono solo le caratteristiche che ci permettono di distinguere ogni cosa da ciascun’altra e anche da noi stessi. Non ci può essere una cosa come un oggetto senza caratteristiche, perché niente potrebbe essere oggetto della nostra esperienza se non avesse qualche caratteristica con cui poterlo sperimentare. Ogni oggetto è definito solo dalle sue caratteristiche, e in assenza di ogni caratteristica non sarebbe affatto un oggetto o una cosa distinta.

Ciò che essenzialmente siamo è senza caratteristiche. Ora sembriamo una persona con determinate caratteristiche (sia fisiche che mentali), ma tutte queste caratteristiche sono solo aggiunte, perché nel sonno sperimentiamo noi stessi in loro assenza. Nel sonno non sperimentiamo alcuna caratteristica, sebbene sappiamo di essere addormentati, perché in quel momento non cessiamo di sperimentare noi stessi, Quando diciamo, ‘Ho dormito pacificamente la notte scorsa’, stiamo esprimendo la nostra esperienza di aver vissuto uno stato in cui non sperimentavamo caratteristiche.

Se non sperimentassimo un tale stato in modo intermittente, saremo consapevoli solo di due stati, vale a dire la veglia e il sogno, senza intervallo percepibile tra i successivi verificarsi di essi. Il fatto che siamo consapevoli di intervalli tra tali stati mostra che sperimentiamo realmente tali intervalli mentre si verificano. Questi intervalli sono ciò che chiamiamo sonno, e in essi non sperimentiamo caratteristiche. Così sperimentiamo due generi di stati, uno in cui sperimentiamo caratteristiche, e uno in cui non sperimentiamo caratteristiche. La veglia e il sogno sono del primo genere, mentre il sonno è del secondo genere.

Poiché sperimentiamo noi stessi in entrambi questi generi di stati, non possiamo essere qualcosa che sperimentiamo in uno di essi ma non nell’altro. Quindi non possiamo essere alcuna delle caratteristiche che sperimentiamo nella veglia o nel sogno, perché nel sonno sperimentiamo noi stessi senza sperimentare queste caratteristiche Ciò che siamo realmente è quindi essenzialmente senza caratteristiche.

Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza nel sonno, possiamo farlo solo in termini negative dicendo che non abbiamo sperimentato alcuna caratteristica del genere che siamo abituati a sperimentare nella veglia e nel sogno. La nostra esperienza nel sonno è quindi quasi una negazione completa o l’opposto della nostra esperienza nella veglia e nel sogno, sebbene in entrambi questi stati sperimentiamo noi stessi.

Il fatto che siamo consapevoli di noi stessi in ciascuno di questi tre stati significa che siamo in grado di essere consapevoli di noi stessi anche se siamo essenzialmente senza caratteristiche. In altre parole, non abbiamo bisogno di avere caratteristiche per sperimentare noi stessi. Anche in assenza di tutte le caratteristiche distinguibili, siamo ancora consapevoli di noi stessi. Quindi, se desideriamo descrivere noi stessi con qualche caratteristica, la sola cosa di noi stessi che potremmo chiamare una ‘caratteristica’ è la nostra auto-consapevolezza, ed è solo per mezzo di questa ‘caratteristica’ che conosciamo noi stessi.
In questo brano mi sono riferito solo a ‘noi’ o ‘noi stessi’ senza tracciare alcuna distinzione tra noi stessi come ego e noi stessi come siamo realmente, perché in contesti come questo quella distinzione è irrilevante e cercare di tracciarla confonderebbe la questione piuttosto che chiarirla, poiché noi siamo sempre uno e lo stesso sé, sia che ci sperimentiamo come questo ego sia come siamo realmente. In entrambi i casi, siamo sempre consapevoli di noi stessi, e come tali siamo sempre essenzialmente senza caratteristiche.

La sola differenza tra lo sperimentare noi stessi come questo ego e sperimentare noi stessi come siamo realmente è che quando ci sperimentiamo come siamo realmente non siamo consapevoli di nient’altro che noi stessi, mentre quando ci sperimentiamo come questo ego siamo consapevoli sia di noi stessi che di altre cose. Tuttavia, sia che siamo consapevoli di altre cose o meno, l’unica cosa di cui siamo sempre consapevoli è noi stessi, e come discuterò in seguito, la nostra auto-consapevolezza non è una caratteristica nello stesso senso in cui lo è ogni altra cosa.

14. Una caratteristica è qualsiasi cosa che si distingue nella nostra consapevolezza

Tutte le caratteristiche che sperimentiamo nella veglia o nel sogno sono cose che – mentre sono sperimentate – si distinguono nella nostra consapevolezza. Diveniamo consapevoli di ogni caratteristica solo quando essa si distingue, per così dire, nella nostra consapevolezza, che è forse il motivo per cui la parola Inglese ‘esiste’ è derivata da un verbo Latino che significa ‘distinguersi’. Una caratteristica sembra esistere solo quando si distingue, emerge o appare nella nostra consapevolezza.

Quindi, poiché una caratteristica è qualsiasi cosa che si distingue nella nostra consapevolezza, come può la nostra consapevolezza essere considerata una caratteristica? La consapevolezza non si distingue o appare nella consapevolezza, perché è sempre presente come la consapevolezza in cui tutte le altre cose si distinguono. La consapevolezza di ogni altra cosa può distinguersi, ma la consapevolezza in se stessa non si distingue, o almeno non nello stesso modo.

Se consideriamo la consapevolezza come una caratteristica, è fondamentalmente dissimile da ogni altra caratteristica. Non solo è la più astratta di tutte le caratteristiche, ma è anche quella per mezzo della quale o nella quale tutte le altre caratteristiche sono sperimentate. Altre caratteristiche sono conosciute quando si distinguono nella consapevolezza, ma la consapevolezza è conosciuta da se stessa senza mai distinguersi in qualcosa.

Tuttavia, la consapevolezza in cui altre cose si distinguono non è la forma fondamentale di consapevolezza. La forma fondamentale di consapevolezza è solo l’auto-consapevolezza, e l’auto-consapevolezza non è consapevolezza di nient’altro che se stessa, così niente si distingue in essa. Ciò che si distingue è caratteristica, e nell’auto-consapevolezza non ci sono caratteristiche, come sappiamo dalla nostra esperienza nel sonno, quando non sperimentiamo nient’altro che pura auto-consapevolezza.

La consapevolezza in cui altre cose si distinguono non è noi stessi come siamo realmente ma solo noi stessi come questo ego o mente. L’auto-consapevolezza è certamente un elemento di questo ego, ma non è l’interezza di esso, perché questo ego è consapevole non solo di se stesso ma anche di altre cose. Tuttavia, nonostante sia una consapevolezza in cui la consapevolezza di noi stessi e la consapevolezza di altre cose sono mescolate, questa consapevolezza che è l’ego o mente non è una caratteristica, o almeno non una caratteristica nel senso di qualcosa che si distingue nella consapevolezza, perché è la consapevolezza in cui tutte le caratteristiche si distinguono.

Quindi, proprio come la nostra consapevolezza di noi stessi come siamo realmente è senza caratteristiche, così anche lo è la nostra consapevolezza di noi stessi come questo ego. Questo ci riporta alla domanda originale a cui questo articolo si rivolge, vale a dire quella che è stata chiesta sia nel commento che nell’email che ho citato all’inizio di questo articolo, che può essere parafrasata come: dicendo che sia il nostro sé reale sia il nostro ego sono senza caratteristiche, non stiamo nascondendo la differenza tra essi?

15. Se il nostro sé reale e il nostro ego sono entrambi senza caratteristiche, come possono essere differenti?

Paradossalmente, benché il nostro sé reale (noi stessi come siamo realmente) e il nostro ego (noi stessi come questo ego) sono entrambi senza caratteristiche o non-distintivi, e benché il nostro sé reale soltanto è ciò che il nostro ego è essenzialmente, ciascuno è nondimeno distinto dall’altro. La distinzione tra essi e che il nostro sé reale è pura auto-consapevolezza, essere consapevole di nient’altro che se stesso, mentre il nostro ego è una mescolanza di quella stessa pura auto-consapevolezza insieme con la consapevolezza di altre cose.

Quando ho detto che ognuno è in se stesso senza caratteristiche o non-distintivo, ciò che intendevo con ‘in se stesso’ è il considerarlo in isolamento dall’altro. Se consideriamo solo il nostro sé reale, siamo senza caratteristiche e non distintivi perché siamo consapevoli soltanto di noi stessi, e quindi non c’è niente altro dal quale potremmo essere distinti. Quindi è perfettamente ragionevole dire che il nostro sé reale è nirviśēṣa, non-distintivo o privo di ogni caratteristica distintiva.

D’altra parte, se consideriamo solo il nostro ego, siamo senza caratteristiche e non-distintivi perché sebbene siamo consapevoli non solo di noi stessi ma anche di altre cose, non siamo alcuna di queste altre cose ma siamo solo la consapevolezza senza la quale nessuna di esse potrebbe sembrare esistere. Perciò siamo la consapevolezza che permette e supporta la comparsa o apparente esistenza di tutte le caratteristiche, e come tale siamo la pre-condizione essenziale richiesta a ogni caratteristica per apparire o distinguersi. Quindi come la consapevolezza che sperimenta tutte le caratteristiche, noi siamo distinti da ognuna di esse, e perciò non siamo alcuna delle caratteristiche che sperimentiamo.

Tuttavia, poiché siamo distinti da ogni caratteristica che sperimentiamo, non è la nostra distinzione da esse una caratteristica? Per rispondere a questo abbiamo bisogno di considerare con esattezza ciò che intendiamo quando diciamo che siamo distinti da esse. Come questo ego siamo distinti da ogni caratteristica che sperimentiamo, perché la nostra esistenza come questo ego non dipende dall’esistenza o dall’esperienza di qualche caratteristica particolare. Tuttavia la nostra esistenza come questo ego dipende dall’esistenza e dall’esperienza di caratteristiche in generale, così benché possiamo distinguere il nostro ego da ogni caratteristica particolare, non possiamo distinguerlo interamente da tutte le caratteristiche, perché in assenza di ogni caratteristica questo ego non esiste.

Nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice che l’ego è senza forma, sebbene esso ha origine, resiste e cresce solo afferrando la forma, e possiamo parafrasare questo dicendo che l’ego è senza caratteristiche, sebbene esso ha origine, resiste e cresce solo afferrando caratteristiche. Quindi, benché l’ego è distinto da ogni caratteristica particolare, non è distinto da tutte le caratteristiche. La sua distinzione dalle caratteristiche è quindi limitata e condizionata. E’ distinto da ogni altra caratteristica particolare, ma solo a condizione che stia afferrando temporaneamente qualche altra caratteristica, perché sebbene nessuna caratteristica è propria, esso non può esistere senza afferrare in ogni momento almeno una caratteristica come se fosse propria.

Il nostro ego è non-distintivo in quello che non può essere distinto come qualche forma o caratteristica particolare, benché se cerchiamo di distinguerlo da tutte le forme e caratteristiche collettivamente, non saremo in grado di trovare qualche cosa distinta che potremmo chiamare il nostro ego. Quindi è perfettamente ragionevole dire che in se stesso il nostro ego è nirviśēṣa, non-distintivo o privo di ogni caratteristica distintiva.

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