Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 29 luglio 2015

Possiamo sperimentare ciò che siamo realmente seguendo il sentiero della devozione (bhakti mārga)?

Michael James

18 Luglio 2015
Can we experience what we actually are by following the path of devotion (bhakti mārga)?

In un commento a uno dei miei articoli recenti, Per comprendere l’essenza degli insegnamenti di Sri Ramana, abbiamo bisogno di studiare attentamente i suoi scritti originali, un amico di nome Sanjay ha scritto, ‘Ho anche notato che molti degli attuali devoti di Bhagavan in qualche modo non sono in grado di riconciliare il punto di vista advaita di Bhagavan, Shankara e altri, ma sono più propensi ad accettare e credere in tutte le loro idee dualistiche’, e questo ha innescato una lunga discussione, con alcuni altri amici che difendevano il sentiero della devozione dualistica contro ciò che era percepito come una critica di esso da coloro che sono più attratti dal sentiero non-dualistico di Bhagavan dell’auto-investigazione (ātma-vicāra). Questo articolo è scritto parzialmente in risposta a quella discussione.

Tuttavia, effettivamente ho iniziato a scrivere questo articolo prima che iniziasse quella discussione, e l’ho fatto in risposta a un commento ad uno dei miei articoli precedenti, L’unicità degli insegnamenti di Sri Ramana, in cui in amico di nome Viswanathan ha scritto:
[…] Sento che se si continua con totale fede in qualsiasi sentiero si percorre, sia esso Bhakti Margam o Jnana Margam, la destinazione sarà la stessa – realizzazione di sé. […] mi sembra che può essere solo uno spartiacque illusorio nella propria mente che i due sentieri siano differenti o che un sentiero sia tortuoso e l’altro più breve.
Benché ci sia qualche verità in ciò che egli ha scritto, non possiamo semplicemente dire che il sentiero della devozione (bhakti mārga) e il sentiero della conoscenza (jñāna mārga) non sono differenti senza analizzare ciò che si intende con il termine bhakti mārga o ‘il sentiero della devozione’, perché bhakti mārga comprende un’ampia gamma di pratiche, delle quali solo la finale è identica all’auto-investigazione (ātma-vicāra), che è la pratica del jñāna mārga.
  1. La diversità all’interno del bhakti mārga, il sentiero della devozione
  2. La distinzione tra kāmya bhakti e niṣkāmya bhakti
  3. Upadēśa Undiyār verso 2: nessuna azione o karma può dare la liberazione
  4. Upadēśa Undiyār verso 3: niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio mostrerà la via per la liberazione
  5. Perché la purificazione della mente è necessaria?
    1. Śrī Aruṇācala Pañcaratnam verso 3: solo con una mente pura possiamo conoscere ciò che siamo realmente
    2. Upadēśa Undiyār verso 18: il nostro ego è la radice di tutte le impurità mentali
  6. Possiamo liberarci dal nostro ego solo con l’auto-investigazione
    1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo sostenendo il nostro ego
    2. Nāṉ Yār? paragrafo 13: essendo auto-attentivi arrendiamo noi stessi a Dio
    3. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 15: auto-investigazione è suprema devozione a Dio
    4. Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham verso 14: l’auto-investigazione è karma, bhakti, yōga e jñāna
  7. L’efficacia relativa di niṣkāmya karma compiuti con il corpo, con la parola e con la mente
    1. Upadēśa Undiyār verso 4: dhyāna è più efficace di japa, che è più efficace di pūjā
    2. Upadēśa Undiyār verso 5: ogni cosa può essere adorata come Dio
    3. Upadēśa Undiyār verso 6: l’efficacia relativa di diverse modalità di japa
    4. Upadēśa Undiyār verso 7: una meditazione continua è superiore a una meditazione discontinua
  8. Upadēśa Undiyār verso 8: la meditazione su nient’altro che noi stessi e ‘la migliore fra tutte’
  9. Upadēśa Undiyār verso 9: meditando su noi stessi sprofonderemo nel nostro reale stato di essere
  10. Upadēśa Undiyār verso 10: sprofondare ed essere nella nostra sorgente è karma, bhakti, yōga e jñāna
  11. Analisi dei vari tipi di bhakti
    1. L’analisi della bhakti di Sadhu Om
    2. Anya bhakti e ananya bhakti possono essere reciprocamente pratiche di supporto
    3. Cos’è una preghiera?
    4. Nāṉ Yār? paragrafo 12: dobbiamo seguire infallibilmente il sentiero insegnato dal nostro guru
  12. L’auto-abbandono è un’alternativa all’auto-investigazione?
    1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: non possiamo arrendere il nostro ego finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi
    2. Un abbandono parziale condurrà gradualmente all’abbandono completo
    3. Nāṉ Yār? paragrafo 13: il significato delle ultime tre frasi
  13. Conclusione
1. La diversità all’interno del bhakti mārga, il sentiero della devozione

Nel contesto degli insegnamenti di Sri Ramana, il termine jñāna mārga o ‘il sentiero della conoscenza’ significa solo la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), che comporta il cercare di sperimentare soltanto noi stessi, in completo isolamento da ogni altra cosa, per sperimentare noi stessi come siamo realmente, quindi non c’è ambiguità nel significato di quest’ultimo termine. Tuttavia, il significato del termine bhakti mārga non è così netto e non ambiguo, perché mentre c’è solo una pratica corretta di jñāna mārga, nel bhakti mārga c’è una gamma di pratiche e di stadi differenti, di conseguenza abbiamo bisogno di analizzare queste pratiche e stadi per stabilire se sono o meno la stessa pratica del jñāna mārga o condurranno direttamente allo stesso fine.

Jñāna significa conoscenza e bhakti significa devozione o amore. Benché jñāna può significare conoscenza di ogni tipo o conoscenza di ogni cosa, nel contesto del jñāna mārga significa specificatamente ātma-jñāna, conoscenza o esperienza di se stesso, così ciò che stiamo cercando di conoscere o di sperimentare correttamente quando seguiamo il jñāna mārga è solo noi stessi. Tuttavia, nel caso del bhakti mārga il fine non è così chiaro o ovvio, perché bhakti può significare devozione a una varietà di cose. Generalmente si intende nel significato di devozione a Dio, ma i devoti non condividono tutti lo stesso concetto di Dio o di fede su di lui, lei o esso, così il termine bhakti mārga copre una gamma di credi, pratiche e aspirazioni molto più ampia del termine jñāna mārga. Quindi quando analizziamo cosa si intende con il termine bhakti mārga, la prima cosa che abbiamo bisogno di considerare è a cosa ciascun devoto è devoto e cosa lui o lei ambisce di raggiungere.

2. La distinzione tra kāmya bhakti e niṣkāmya bhakti

La prima chiara distinzione che dobbiamo fare analizzando il significato di bhakti è tra kāmya bhakti, che è devozione praticata per il conseguimento di qualche obiettivo desiderato, e niṣkāmya bhakti, che è devozione praticata per nessun motivo ulteriore ma solo per amore di Dio. Kāmya bhakti non è reale bhakti o devozione a Dio, ma è solo devozione a qualunque cosa cerchiamo di ottenere da lui. Cioè, se adoriamo Dio o lo preghiamo per la salute, la ricchezza o qualsiasi altro beneficio che possiamo desiderare, lo stiamo usando proprio come un mezzo al nostro fine, così siamo a lui devoti solo per quanto egli ci da qualunque cosa desideriamo. Se egli non risponde alle nostre preghiere o ci da quello che vogliamo, ci deludiamo e ci arrabbiamo con lui, perché non sta facendo quello che ci aspettiamo che faccia per noi. Quindi kāmya bhakti non è un sentiero spirituale (benché può essere uno stadio preparatorio che porta a niṣkāmya bhakti), e quindi non è ciò che si intende con il termine bhakti mārga. Solo quando la nostra devozione evolve dalla kāmya bhakti alla niṣkāmya bhakti inizia il vero bhakti mārga.

3. Upadēśa Undiyār verso 2: nessuna azione o karma può dare la liberazione

Come abbiamo visto nella sezione precedente, la bhakti reale inizia solo quando adoriamo o pratichiamo la devozione a Dio con nessun’altro scopo che l’amore per lui. Durante i primi stadi di questa bhakti ancora consideriamo Dio come qualcosa diversa da noi stessi, e quindi sentiamo di poter esprimere la nostra devozione a lui solo con determinate azioni compiute dal nostro corpo, dalla parola o dalla mente, e tali azioni o karma sono ciò che Bhagavan descrive brevemente dal verso 4 al verso 7 di Upadēśa Undiyār. Tuttavia, nessuna azione può permetterci di raggiungere Dio o di fonderci in lui, così tali pratiche sono solo un mezzo per purificare la nostra mente e non un mezzo adeguato per sperimentare Dio come realmente è, come Bhagavan rende chiaro nei versi 2 e 3 di Upadēśa Undiyār. Nel verso 2 dice:
வினையின் விளைவு விளிவுற்று வித்தாய்
வினைக்கடல் வீழ்த்திடு முந்தீபற
      வீடு தரலிலை யுந்தீபற.

viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivuṯṟu vittāy
viṉaikkaḍal vīṙttiḍu mundīpaṟa
      vīḍu taralilai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வினையின் விளைவு விளிவு உற்று வித்து ஆய் வினை கடல் வீழ்த்திடும். வீடு தரல் இலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivu uṯṟu vittu āy viṉai-kaḍal vīṙttiḍum. vīḍu taral ilai.

Traduzione: Il frutto dell’azione, essendosi consumato, come seme, fa cadere nell’oceano dell’azione. Non è dare la liberazione.

Traduzione parafrasata: Il frutto dell’azione, essendosi consumato [rimane] come seme [e quindi] causa il cadere nell’oceano dell’azione. [Quindi l’azione] non dà la liberazione.
I risultati delle nostre azioni sono paragonati qui al frutto e ai semi di un albero. Se mangiamo una mela, per esempio, essa cessa di esistere come tale appena la mangiamo, ma i suoi semi rimangono, e in circostanze favorevoli essi germoglieranno e cresceranno in nuovi alberi di mele, che produrranno ancora più mele e semi. Ugualmente, il frutto o conseguenza morale di ciascuna azione che facciamo viene consumato appena lo sperimentiamo, ma il seme (la propensione o vāsanā) generata da quell’azione rimane, e in circostanze favorevoli germoglierà, spingendoci a fare nuovamente lo stesso genere di azione. Di conseguenza, anche dopo che abbiamo sperimentato la conseguenza morale di ciascuna delle nostre azioni passate, ancora avremo un’inclinazione, una propensione o vāsanā a fare nuovamente quelle azioni, così le azioni (karma) sono auto-perpetuanti, e perciò Bhagavan dice che compiere ogni azione ‘causa la [nostra] caduta nell’oceano dell'azione’ (வினை கடல் வீழ்த்திடும்: viṉai-kaḍal vīṙttiḍum). Quindi egli conclude questo verso dicendo che l’azione o karma ‘non è dare la liberazione’ o ‘non dà la liberazione’ (வீடு தரல் இலை: vīḍu taral ilai).

Quando egli ha tradotto questo verso in Sanscrito, il metro poetico in cui lo scrisse era troppo breve perché potesse includere le parole cruciali வித்து ஆய் (vittu āy), che significano ‘come seme’, ma ha espresso l’idea nella frase finale anche più fortemente che in Tamil dicendo non solo che l’azione non dà la liberazione ma che essa ostacola realmente la liberazione (गति निरोधकम्: gati nirōdhakam):
कृतिम होदधौ पतन कारणम् ।
फलम शाश्वतं गतिनि रोधकम् ॥

kṛtima hōdadhau patana kāraṇam
phalama śāśvataṁ gatini rōdhakam
.

पदच्छेद: कृति महा उदध्औ पतन कारणम्. फलम् अशाश्वतं. गति निरोधकम्.

Padacchēda (separazione delle parole): kṛti mahā udadhau patana kāraṇam. phalam aśāśvataṁ. gati nirōdhakam.

Traduzione: [L’azione è] la causa della caduta nel grande oceano dell’azione. [Il suo] frutto è impermanente. [Essa] ostacola la liberazione.
Ciò che egli dice in questo verso si applica ad azioni moralmente buone come ad azioni moralmente cattive o a quelle neutre, perché qualsiasi azione possiamo fare creerà o rafforzerà la nostra tendenza a fare nuovamente lo stesso genere di azioni. Buone azioni producono buoni frutti, nel senso che qualsiasi conseguenza morale esse ci faranno sperimentare sarà piacevole, mentre cattive azioni producono frutti cattivi o spiacevoli; può accadere che le azioni siano buone, cattive o neutre, ma esse creeranno sempre karma-vāsanās (inclinazioni o tendenze a fare tali azioni), che sono i semi che ci immergono nel vasto oceano dell’azione. Quindi compiendo azioni non possiamo mai essere liberati dalla schiavitù dell’azione o dell’illusione che stiamo compiendo un’azione.

4. Upadēśa Undiyār verso 3: niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio mostrerà la via per la liberazione

Tuttavia nel verso successivo Bhagavan fa una concessione sottolineando il solo modo in cui l’azione può condurre alla liberazione, sebbene solo indirettamente. Cioè, se compiamo azioni senza desiderio per ogni genere di guadagno personale ma solo per amore di Dio, tali azioni purificheranno la nostra mente, nel senso che esse indeboliranno i nostri desideri e attaccamenti e accresceranno il nostro amore per Dio. Naturalmente non possiamo compiere azioni senza qualche desiderio finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, ma almeno in misura limitata, possiamo compiere azioni motivate dall’amore per Dio piuttosto che desiderare qualche beneficio personale. Tali azioni sono chiamate niṣkāmya karma, e purificando la nostra mente esse ci permettono di riconoscere che il solo modo per liberarci dal nostro ego e da tutte le sue azioni è investigare noi stessi e quindi sperimentare ciò che siamo realmente. Questo è ciò che Bhagavan indica nel verso 3 di Upadēśa Undiyār:
கருத்தனுக் காக்குநிட் காமிய கன்மங்
கருத்தைத் திருத்தியஃ துந்தீபற

      கதிவழி காண்பிக்கு முந்தீபற.

karuttaṉuk kākkuniṭ kāmiya kaṉmaṅ
karuttait tiruttiyaḵ dundīpaṟa
      gativaṙi kāṇbikku mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: கருத்தனுக்கு ஆக்கும் நிட்காமிய கன்மம் கருத்தை திருத்தி, அஃது கதி வழி காண்பிக்கும்.

Padacchēdam (separazione delle parole): karuttaṉukku ākkum niṭkāmiya kaṉmam karuttai tirutti, aḵdu gati vaṙi kāṇbikkum.

Traduzione: Niṣkāmya karma compiuto [con amore] per Dio purifica la mente e [perciò] mostrerà il sentiero per la liberazione.
La prima riga di questo verso, ‘கருத்தனுக்கு ஆக்கும் நிட்காமிய கன்மம்’ (karuttaṉukku ākkum niṭkāmiya kaṉmam) significa letteralmente ‘niṣkāmya karma [azione senza desiderio e senza motivo] compiuta a [o per] Dio’. In questo contesto கருத்தனுக்கு ஆக்கும் (karuttaṉukku ākkum), ‘compiuta a [o per] Dio’, potrebbe essere interpretata nel significato di ‘compiuto per [il bene di] Dio’, ‘compiuta per [l’amore di] Dio, ‘compiuta [con amore] per Dio’ o ‘compiuta [offrendo il frutto] a Dio’. Generalmente è interpretata nell’ultimo senso, perché nella versione Sanscrita di questo verso Bhagavan ha tradotto questa prima riga come ‘ईश्वर अर्पितम् न इच्छया कृतम्’ (īśvara arpitam na icchayā kṛtam), che significa letteralmente ‘ciò che è compiuto non con desiderio [ma] offerto [affidato o trasferito] a Dio’.

Tuttavia nella versione Malayalam (che egli ha scritto in un metro poetico più lungo, permettendogli di elaborare quello che aveva scritto in Tamil e in altri linguaggi) l’ha tradotto come ‘ഈശ്വര പ്രീതിയിനായ് ഫലം ഏല്പിച്ച് ഒരു ഇച്ഛ എന്നി ചെയ് നിഷ്കാമ്യ കര്മം’ (īśvara prītiyināy phalaṃ ēlpiccŭ oru icchā enni cey niṣkāmya karmaṁ), che significa ‘niṣkāmya karma compiuto senza alcun desiderio [ma] per amore di Dio, offrendo i [suoi] frutti [a lui]. Qui le parole ‘ഈശ്വര പ്രീതിയിനായ്’ (īśvara prītiyināy), che significano ‘per amore di Dio’, sono significative perché indicano la motivazione con cui il niṣkāmya karma deve essere compiuto e da esse possiamo dedurre che ciò che Bhagavan intendeva in Tamil con le parole ‘கருத்தனுக்கு ஆக்கும்’ (karuttaṉukku ākkum) non è solo ‘compiuto [offrendo il frutto] a Dio’ ma anche ‘compiuto [con amore] per Dio’.

Così da questo terzo verso di Upadēśa Undiyār Bhagavan inizia a discutere non solo il sentiero di niṣkāmya karma ma anche il sentiero della bhakti, e così facendo indica che il sentiero di niṣkāmya karma non è separato ma una parte integrante dei primi stadi del sentiero della bhakti. Come dice nei versi successivi, in modo particolare i versi 8 e 9, negli stadi più avanzati il sentiero della bhakti va oltre tutto il karma, ma quegli stati più avanzati sono raggiunti generalmente attraverso le pratiche devozionali di niṣkāmya karma come puja, japa e dhyāna, come vedremo discutendo i versi dal 4 al 7.

Le parole ‘கருத்தை திருத்தி’ (karuttai tirutti) sono abitualmente interpretate come ‘purificare la mente’, perché questo è ciò che esse significano in questo contesto, e perché questo è il significato delle equivalenti parole usate da Bhagavan nelle sue traduzioni in Sanscrito, Telugu e Malayalam. Per esempio, in Sanscrito ha tradotto கருத்தை திருத்தி (karuttai tirutti) come चित्त शोधकम् (citta śōdhakam), che significa purificare, pulire o correggere la mente o la volontà. Tuttavia in Tamil கருத்தை திருத்தி (karuttai tirutti) ha varie sfumature di significato oltre a ‘purificare la mente’, come rettificare, correggere o elevare il desiderio o l’intenzione, perché கருத்தை (karuttai) è la forma accusativa di கருத்து (karuttu), che significa non solo mente ma anche intenzione, desiderio o volontà, e திருத்தி (tirutti) è un participio verbale che significa non solo pulire o raffinare ma anche correggere, rettificare, riformare, riparare, aggiustare, migliorare o elevare.

Una domanda che abbiamo bisogno di considerare in questo contesto è come il niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio purifica la mente. E’ lo stesso karma che purifica la mente, o è solo l’amore con cui il karma è compiuto che purifica? Poiché la natura del karma è quella di spargere semi nella forma di karma-vāsanā (inclinazioni a compiere azioni simili ancora e ancora), compiere ogni karma tenderà a legare la mente all’abitudine di compiere karma, così ciò che purifica la nostra mente non è il niṣkāmya karma ma solo l’amore con cui lo compiamo. Poiché l’amore è l’esatta natura del nostro sé reale, e poiché Dio è una manifestazione esteriore dell’amore che noi come il nostro sé reale abbiamo per noi stessi, avere un sincero amore per Dio tenderà a purificare la nostra mente, pulendola almeno delle forme più grossolane dei suoi desideri e attaccamenti.

La frase finale di questo verso, ‘அஃது கதி வழி காண்பிக்கும்’ (aḵdu gati vaṙi kāṇbikkum), contiene il suo solo verbo finito, così è la sua frase principale, a cui tutte le altre frasi sono sussidiarie. Cioè, mentre ஆக்கும் (ākkum) è un participio relativo (che significa ‘compiuto’ o ‘ciò che è compiuto’) e திருத்தி (tirutti) è un participio verbale (che significa ‘pulire’, ‘purificare’ o ‘rettificare’), காண்பிக்கும் (kāṇbikkum) è un verbo finito che significa ‘mostrerà’ o ‘causerà di vedere’. Così la struttura grammaticale di questo verso indica che il beneficio principale che deve essere ottenuto compiendo niṣkāmya karma con amore per Dio è vedere, discernere o riconoscere il sentiero con cui possiamo infine ottenere la liberazione, e che siamo messi in grado di vederlo come risultato della purificazione della nostra mente. In altre parole, la purificazione della nostra mente è il beneficio intermedio di compiere niṣkāmya karma con amore per Dio, ma il suo beneficio finale è che saremo in grado di discernere qual’è il solo mezzo per ottenere la liberazione.

In questa frase finale, அஃது (aḵdu) è una forma poetica di அது (adu), che è un pronome che significa ‘esso’ o ‘quello’, e che in questo contesto si riferisce a niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio; கதி (gati) è una parola di origine Sanscrita che ha vari significati, ma in questo contesto significa mukti o liberazione nel senso della destinazione finale o rifugio massimo; வழி (vaṙi, che è spesso trascritto in Inglese come vazhi) significa via, sentiero o mezzo; e காண்பிக்கும் (kāṇbikkum) è la forma futura (o piuttosto profetica) di காண்பி (kāṇbi), la forma causale di காண் (kāṇ), che significa vedere, percepire, discernere, scoprire, sperimentare o conoscere, così காண்பிக்கும் (kāṇbikkum) significa ‘esso causerà il vedere’ o ‘esso mostrerà’, nel senso che esso metterà in grado di vedere o riconoscere. Così questa frase finale significa ‘esso mostrerà il sentiero per la liberazione’ e comporta che compiere niṣkāmya karma con amore per Dio metterà in grado di vedere, discernere o riconoscere qual’è il sentiero corretto per la liberazione.

5. Perché la purificazione della mente è necessaria?

Il modo in cui niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio ci permette di riconoscere il sentiero per la liberazione è purificando la nostra mente. Finché la nostra mente è oscurata con impurità nella forma di forti desideri e attaccamenti, non avrà sufficiente chiarezza o vivēka per discernere qual è il corretto sentiero per la liberazione, così purificare la nostra mente almeno a un certo grado è un prerequisito necessario per iniziare ad essere in grado di renderci conto che la liberazione è solo l’annientamento del nostro ego, che il nostro ego è solamente un’esperienza illusoria di noi stessi, e che quindi il solo mezzo con cui possiamo ottenere la liberazione è investigare noi stessi e quindi sperimentarci come siamo realmente.

Se siamo convinti dall’insegnamento di Bhagavan che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è il solo modo per annientare il nostro ego e quindi ottenere la liberazione, questo indica che la nostra mente è già sufficientemente purificata per questo scopo, così non abbiamo bisogno di praticare alcuna delle forme di niṣkāmya karma descritte a grandi linee da lui dal verso 4 al verso 7 di Upadēśa Undiyār, ma possiamo invece concentrare tutto il nostro interesse, lo sforzo e l’attenzione nel praticare solo auto-investigazione. Tuttavia, se non siamo ancora convinti dal suo insegnamento che l’auto-investigazione è il solo modo per ottenere la liberazione, allora dovremmo continuare le nostre pratiche di niṣkāmya bhakti fintanto che la nostra mente sia sufficientemente pura perché possiamo comprendere chiaramente che in definitiva possiamo ottenere la liberazione solo investigando noi stessi, questo ego che sta cercando di ottenerla.

Comunque, una parola di consiglio: solo perché siamo convinti dagli insegnamenti di Bhagavan e cerchiamo quindi di fare del nostro meglio per praticare l’auto-investigazione il più possibile, non dovremmo concludere che la nostra mente è di conseguenza più pura delle mente di altri ai quali non è ancora stato dato di comprendere che l’auto-investigazione è il solo modo per ottenere la liberazione e ancora stanno praticando varie forme di devozione dualistica. Bhagavan non intendeva che dovremmo usare il verso 3 di Upadēśa Undiyār come un criterio per affermare la purezza della nostra mente o delle menti di altri. Nel nostro caso siamo stati fortunati che egli è apparso nella nostra vita come il nostro guru e ci ha permesso di comprendere i suoi insegnamenti almeno in una certa misura, ma questo non significa che la nostra mente sia in qualche modo più pura di quella di chiunque altro. Se siamo fermamente convinti da lui che l’auto-investigazione è il solo modo per ottenere la liberazione, dovremmo considerare ciò come interamente dovuto alla sua grazia illimitata e senza causa.

In alcuni casi la grazia permette a una persona di progredire molto velocemente lungo il sentiero della devozione dualistica prima di rivolgere infine la propria mente all’interno per sperimentare Dio come il proprio sé, così non possiamo giudicare con affidabilità quanto sia realmente pura la mente di qualcuno dalle sue azioni esteriori. La letteratura in India abbonda di storie di persone che esteriormente apparivano come semplici devoti ma effettivamente avevano nel loro cuore una devozione straordinariamente intensa, di conseguenza le menti di questi devoti sono probabilmente molto più pure della nostra.

Se la grazia permette a una persona di sviluppare una devozione estremamente intensa a Dio, come se fosse qualcosa di diverso da se stesso, diventerà relativamente facile per quella persona rivolgere la propria mente interiormente e arrendere se stesso a lui nel proprio cuore, mentre se la grazia ci è apparsa nella forma di Bhagavan Ramana e quindi ci ha mostrato relativamente presto nel nostro sviluppo spirituale che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, può per noi essere necessario perseverare con molta difficoltà e per un lungo tempo cercando di praticare auto-investigazione prima di essere infine in grado di arrendere completamente noi stessi.

Tutto ciò che possiamo dire con certezza è che qualsiasi altro sentiero spirituale si possa seguire, dobbiamo infine rivolgere la nostra mente interiormente per investigare noi stessi, perché è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente, e che se siamo fortunati ad aver avuto mostrato questo sentiero di auto-investigazione prima nel nostro sviluppo spirituale, esso serve come una scorciatoia con cui possiamo ottenere la liberazione molto più velocemente e più facilmente di quanto potremmo se seguissimo qualsiasi altro sentiero. Se la nostra mente è abbastanza pura per comprendere e accettare gli insegnamenti di Bhagavan Ramana ma non ancora abbastanza pura per praticare auto-investigazione senza molta difficoltà, il più veloce, più efficace e più affidabile modo per purificare ulteriormente la nostra mente è perseverare nel cercare di praticare auto-investigazione al meglio delle nostre abilità.

Qualunque sforzo siamo in grado di fare in questo sentiero sarà di gran lunga più efficace e benefico dello stesso sforzo fatto in qualsiasi altro sentiero, così Bhagavan spesso diceva che se possiamo fare anche un piccolo sforzo per fare ogni altra forma di pratica spirituale, come puja, japa, dhyāna o prāṇāyāma, possiamo fare la stessa quantità di sforzo per praticare auto-investigazione, e facendo questo trarremo un beneficio molto più grande e molto più veloce di quanto potremmo usando il nostro sforzo nel fare qualsiasi altra forma di pratica spirituale. Come vedremo più avanti, questo è ciò che egli intende chiaramente quando dice nel verso 8 di Upadēśa Undiyār che ananya bhāva (meditazione su ciò che non è altro), che è un modo alternativo di descrivere la pratica di auto-investigazione, è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), ‘la migliore fra tutte’, in cui அனைத்தினும் (aṉaittiṉum), ‘fra tutte’, significa sia fra tutte le pratiche di bhakti e fra tutte le forme di meditazione, e உத்தமம் (uttamam), ‘la migliore’, ‘la più alta’ o ‘la più eccellente’, significa la più efficace nel purificare la nostra mente.

Benché niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio può purificare la nostra mente, ciò che abbiamo bisogno di considerare è quanto velocemente, effettivamente e affidabilmente e in quale misura esso può farlo. Questo dipende ovviamente in grande misura dall’intensità e la profondità del nostro amore per Dio, ma secondo Bhagavan dipende anche dalla natura del niṣkāmya karma che compiamo, come spiega dal verso 4 al verso 7 di Upadēśa Undiyār. Poiché il nostro corpo, la parola e la mente sono i tre strumenti attraverso i quali compiamo karma, e poiché essi sono in quest’ordine strumenti progressivamente più sottili e quindi più potenti, niṣkāmya karma compiuto con la parola è più efficace di quello compiuto con il corpo, e quello compiuto con la mente è più efficace di quello compiuto con la parola. Tuttavia anche il niṣkāmya karma compiuto con la mente non può purificare la nostra mente tanto velocemente, efficacemente o affidabilmente o nella stessa misura di quanto lo faccia l’auto-investigazione. Quindi prima iniziamo ad investigare ciò che siamo realmente e più velocemente e più affidabilmente faremo progressi verso il fine ultimo della liberazione o della vera auto-conoscenza.

In uno dei suoi commenti a Per comprendere l’essenza degli insegnamenti di Sri Ramana, abbiamo bisogno di studiare attentamente i suoi scritti originali, un amico di nome Sivanarul ha scritto in risposta al commento di qualcun altro, ‘[…] Mi rattrista leggere che le forme dualistiche di adorazione ‘solo’ purificano la nostra mente e che questo sia attribuito a Bhagavan. […] Se qualcuno conoscesse la vita di Kannappa Nayanar e la sua devozione, non potrebbe mai, anche nel sogno, dire che la forma dualistica purifica la mente solo in una certa misura’. Sebbene apprezzo il sentimento con cui Sivanarul ha scritto questo, il suo uso della parola ‘solo’ per qualificare ‘purifica la nostra mente’ suggerisce che egli crede che altri guardano dall’alto in basso la purificazione della mente come un beneficio banale, cosa che forse alcune persone fanno, così in questo contesto ci è necessario considerare attentamente e comprendere l’importanza e il valore della purificazione della nostra mente.

5a. Śrī Aruṇācala Pañcaratnam verso 3: solo con una mente pura possiamo conoscere ciò che siamo realmente

Un certo grado di purezza della mente è richiesto non solo per riconoscere che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui possiamo liberare noi stessi da questo ego, ma anche per praticare l’auto-investigazione, e per essere in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente abbiamo bisogno di una mente estremamente pura, come Bhagavan indica nel verso 3 di Śrī Aruṇācala Pañcaratnam:
அகமுகமா ரந்த வமலமதி தன்னா
லகமிதுதா னெங்கெழுமென் றாய்ந்தே — யகவுருவை
நன்கறிந்து முந்நீர் நதிபோலு மோயுமே
யுன்கணரு ணாசலனே யோர்.

ahamukhamā randa vamalamati taṉṉā
lakamidudā ṉeṅkeṙumeṉ ḏṟāyndē — yahavuruvai
naṉgaṟindu munnīr nadipōlu mōyumē
yuṉgaṇaru ṇācalaṉē yōr
.

பதச்சேதம்: அகமுகம் ஆர் அந்த அமல மதி தன்னால் அகம் இது தான் எங்கு எழும் என்று ஆய்ந்தே, அக உருவை நன்கு அறிந்து, முந்நீர் நதி போலும் ஓயுமே உன்கண் அருணாசலனே. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ahamukham ār anda amala mati-taṉṉāl aham idu-tāṉ eṅgu eṙum eṉḏṟu āyndē, aha-v-uruvai naṉgu aṟindu, munnīr nadi pōlum ōyumē uṉkaṇ aruṇācalaṉē. ōr.

Traduzione : Con quella mente immacolata che è completamente ahamukham [rivolta verso l’interno, rivolta verso se stessa o auto-attentiva] investigando dove sorge questo ‘io’ e [quindi] conoscendo chiaramente la forma [reale] di ‘io’, certamente si cesserà in te, Arunachala, come un fiume nell’oceano. Sappi.
மதி தன்னால் (mati-taṉṉāl) è una forma strumentale di மதி (mati), che significa mente, così la prima riga di questo verso descrive lo strumento con cui l’auto-investigazione può essere fatta con successo, e specifica due condizioni in cui deve essere la mente, delle quali una è una condizione a breve termine e l’altra è a lungo termine. La condizione a lungo termine è descritta dall’aggettivo அமல (amala), che è una parola di origine Sanscrita che significa libera da mala (sporcizia o impurità), pulita, senza macchia, senza difetto, immacolata o pura. Nell’originale Sanscrito di questo verso Bhagavan intensificò il significato di amala mettendo come prefisso l’avverbio ati, che significa estremamente o straordinariamente. Avere una mente estremamente pura è una condizione necessaria perché una mente impura sarà attaccata troppo fortemente alle cose e alle esperienze esterne per essere pronta a lasciar andare ogni cosa e arrendere interamente se stessa all’esperienza di pura e infinita auto-consapevolezza.

Tuttavia, avere una mente estremamente pura non è una condizione sufficiente, perché una tale mente ha bisogno di essere rivolta interiormente per sperimentare ciò che è realmente o la sorgente dalla quale essa sorge. Questo è ciò che è descritto dall’altra condizione specificata nella prima riga, vale a dire அகமுகம் ஆர் (ahamukham ār). அகமுகம் (ahamukham) è un composto di due parole: அகம் (aham), che è sia una parola Tamil che significa ‘dentro’ o ‘all’interno’ sia una parola di origine Sanscrita che significa ‘io’, e முகம் (mukham), che è una parola di origine Sanscrita che significa ‘guardare verso’ o ‘guardando verso’, ‘rivolgendosi verso’ o ‘rivolta verso’, così அகமுகம் (ahamukham) significa ‘guarda verso l’interno’, ‘rivolta verso io’, ‘guardare verso se stessa’ o ‘auto-attentiva’. ஆர் (ār) è un verbo che ha diversi significati come divenire pieno o completo, spandere, essere soddisfatto, dimorare o sperimentare, ma è qui usato nel senso del suo participio relativo, ஆரும் (ārum), così அகமுகம் ஆர் (ahamukham ār) significa ‘che è completamente rivolta interiormente [rivolta verso se stessa o auto-attentiva].

Ho descritto essere amala o immacolata come una condizione a lungo termine perché il grado di purezza della nostra mente non fluttua ma cambia solo gradualmente durante un lungo periodo di tempo, e ho descritto essere ahamukham o auto-attentiva come una condizione a breve termine perché possiamo velocemente cambiare tra essere ahamukham (rivolti interiormente o auto-attentivi) ed essere bahirmukham (rivolti esteriormente o rivolti verso cose diverse da noi stessi). Quando stiamo cercando di praticare l’auto-investigazione, la nostra mente fluttua tra essere almeno parzialmente ahamukham e cadere di nuovo nell’essere bahirmukham. Tuttavia, se riusciamo una volta ad essere completamente ahamukham, essa diventerà la nostra condizione permanente, perché essendo così anche per un momento sperimenteremo noi stessi come siamo realmente, e così il nostro ego e la nostra mente saranno distrutti per sempre.

Entrambe queste condizioni, essere immacolatamente pura ed essere completamente auto-attentiva, sono necessarie, così nessuna delle due è sufficiente senza l’altra. Fino a che gran parte della nostra mente non sia purificata, non saremo in grado di essere completamente auto-attentivi, e per quanto pura possa essere la nostra mente, non saremo in grado di sperimentare ciò che siamo realmente se non rivolgiamo la nostra mente all’interno e sperimentiamo noi stessi soltanto. Tuttavia, sebbene non riusciamo ad essere completamente auto-attentivi se la nostra mente non è in gran parte purificata, il modo più efficace ed affidabile per purificarla è cercare di essere auto-attentivi ripetutamente e con persistenza, così non abbiamo bisogno di attendere che la nostra mente sia estremamente pura prima di cercare di essere completamente auto-attentivi. Per quanto la nostra mente possa essere impura, se abbiamo anche uno iota d’amore per sperimentare noi stessi come siamo realmente, dovremmo cercare di fare del nostro meglio per essere più possibile auto-attentivi.

Perseverando nei nostri tentativi di essere auto-attentivi, raggiungeremo infine un punto in cui la nostra mente sarà stata purificata sufficientemente per essere completamente auto-attentivi, e ciò che allora accadrà è descritto da Bhagavan nelle ultime tre righe di questo verso. Nella seconda riga la proposizione ‘அகம் இது தான் எங்கு எழும் என்று ஆய்ந்தே’ (aham idu-tāṉ eṅgu eṙum eṉḏṟu āyndē), che significa, ‘investigare dove sorge questo io’, è un modo alternativo di descrivere la pratica di cercare di essere ahamukham o auto-attentivi, perché la sorgente dalla quale questo ‘io’ (il nostro ego) sorge è solo noi stessi, e investigare noi stessi comporta solo essere auto-attentivi.

Nella proposizione successiva egli dice, ‘அகவுருவை நன்கு அறிந்து’ (aha-v-uruvai naṉgu aṟindu), che letteralmente significa ‘conoscere bene [interamente o chiaramente] la forma-io’. அகவுருவை (aha-v-uruvai) significa letteralmente la ‘forma interna’ o ‘forma di io’, così nel significato è più o meno equivalente al termine Sanscrito ātma-svarūpa, che significa ‘la propria forma di se stessi’ e che Bhagavan spesso ha usato per indicare ciò che realmente siamo – il nostro sé reale o essenziale. Nell’originale Sanscrito di questo verso il termine equivalente che egli ha usato è स्वंरूपम् (svaṁrūpam), che è una variante poetica di svarūpa, che significa ‘propria forma’, così come அகவுருவை (aha-v-uruvai) significa noi stessi come siamo realmente.

Quando conosciamo o sperimentiamo chiaramente noi stessi come siamo realmente, cesseremo di sperimentarci come l’ego o mente che ora sembriamo essere, e ci fonderemo nella nostra sorgente, che è ciò che siamo realmente. Questo è descritto poeticamente da Bhagavan nella proposizione finale, ‘முந்நீர் நதி போலும் ஓயுமே உன்கண் அருணாசலனே’ (munnīr nadi pōlum ōyumē uṉkaṇ aruṇācalaṉē), che significa, ‘certamente si cesserà in te, Arunachala, come un fiume nell’oceano’. Qui il verbo ஓயுமே (ōyumē) è una forma intensificata di ஓயும் (ōyum), che significa ‘cesserà’, ‘giungerà a una fine’, ‘perirà’ o ‘si fermerà’, e in questo contesto significa che noi certamente ci fonderemo e ci fermeremo in Arunachala (il nostro sé reale) come un fiume che si fonde nell’oceano.

Solo quando ci fondiamo in questo modo nell’unica realtà infinita, che è ciò che Bhagavan chiama Arunachala, diventeremo assolutamente puri. Fino ad allora, continueremo a sperimentare noi stessi come questo ego limitato, così per quanto pura la nostra mente possa essere, è ancora solo uno stato di purezza relativa, non di purezza assoluta, perché l’esatta natura della nostra mente è di essere più o meno pura. Una mente perfettamente pura non è affatto una mente, ma solo la stessa unica realtà infinita, che è ciò che sempre siamo realmente.

5b. Upadēśa Undiyār verso 18: il nostro ego è la radice di tutte le impurità mentali

Cosa sono le impurità nella nostra mente, e come ci impediscono di vedere o riconoscere il sentiero per la liberazione? Per rispondere a questo, prima di tutto abbiamo bisogno di considerare cosa si intende esattamente con il termine ‘mente’. Come Bhagavan dice nel verso 18 di Upadēśa Undiyār:
எண்ணங்க ளேமனம் யாவினு நானெனு
மெண்ணமே மூலமா முந்தீபற
       யானா மனமென லுந்தீபற.

eṇṇaṅga ḷēmaṉam yāviṉu nāṉeṉu
meṇṇamē mūlamā mundīpaṟa
      yāṉā maṉameṉa lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். யான் ஆம் மனம் எனல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. yāṉ ām maṉam eṉal.

அன்வயம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். மனம் எனல் யான் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. maṉam eṉal yāṉ ām.

Traduzione: Solo i pensieri sono la mente. Di tutti, solo il pensiero chiamato ‘io’ è la radice. Ciò che è chiamata mente è ‘io’.

Traduzione elaborata: Solo i pensieri sono la mente [o la mente è solo pensieri]. Di tutti [i pensieri], solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla [la radice, la base, il fondamento, l’origine, la sorgente o la causa]. [Quindi] ciò che è chiamata mente è [essenzialmente solo] ‘io’ [l’ego o pensiero radice chiamato ‘io’].
Come egli spiega qui, ci sono due sensi in cui il termine ‘mente’ può essere usato. Generalmente è usato come un nome collettivo per tutti i pensieri o fenomeni mentali, ma poiché la radice di tutti i pensieri è solo l’ego, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, ciò che la mente è essenzialmente è solo questo ego. In altre parole, il termine ‘mente’ può riferirsi solo al nostro ego o al nostro ego e a tutti i suoi altri pensieri. Poiché il nostro ego è un’esperienza erronea di noi stessi, è la prima e più dannosa impurità nella nostra mente, ed è la radice di tutte le altre impurità mentali. Quindi se potessimo rimuovere questa impurità primaria, il nostro ego, ciò che rimarrebbe sarebbe solo un’esperienza perfettamente chiara di noi stessi come siamo realmente, così in questo senso una mente assolutamente pura non è nient’altro che noi stessi come siamo realmente, e quindi il fine ultimo di tutte le forme di pratica spirituale dovrebbe essere solo rimuovere questa impurità-radice, il nostro ego.

In che misura può purificare la nostra mente il nostro compiere niṣkāmya karma con amore per Dio? Può rimuovere la sua impurità fondamentale, l’ego? L’implicazione nel verso 3 di Upadēśa Undiyār è che non può, perché se potesse, Bhagavan non avrebbe avuto bisogno di dire, ‘அஃது கதி வழி காண்பிக்கும்’ (aḵdu gati vaṙi kāṇbikkum), ‘esso mostrerà la via per la liberazione’. Queste parole conclusive significano che compiere niṣkāmya karma con amore per Dio purificherà la nostra mente solo in un certa misura, e che oltre una certa misura abbiamo bisogno di qualche altro வழி (vaṙi), mezzo, sentiero o modo, per raggiungere la nostra கதி (gati), destinazione o meta finale, che è la liberazione o lo stato di assoluta assenza di ego.

Se niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio non può rimuovere il nostro ego, che è l’impurità fondamentale nella nostra mente, quali altre impurità può rimuovere? Quali sono le impurità che aiutano l’ego a sostenersi e lo tengono fermamente legato al compiere karma o azione? La risposta è ovviamente le nostre karma-vāsanā (i desideri o inclinazioni che ci spingono a compiere azioni), e anche il potere che le causa, che sono le nostre viṣaya-vāsanā (i nostri desideri o inclinazioni a sperimentare cose diverse da noi stessi). In altre parole, le impurità che prima di tutto abbiamo bisogno di ridurre sono i nostri desideri e gli attaccamenti per qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Finché il nostro ego sopravvive, i suoi desideri e attaccamenti rimarranno, almeno in qualche forma e in qualche misura, dunque compiere niṣkāmya karma con amore per Dio può solo rimuovere i nostri desideri e attaccamenti in una certa misura. Rimuovere i nostri desideri e attaccamenti con qualsiasi mezzo diverso dall’auto-investigazione è come tagliare le fronde e i rami di cespuglio fitto. Abbiamo bisogno di tagliare fronde e rami in una certa misura per essere in grado di tagliare la radice che essi circondano e proteggono, ma se continuiamo a cercare di tagliare le fronte e i rami senza cercare di tagliare la loro radice, essi continueranno a germogliare ancora ed ancora. Quindi appena li abbiamo tagliati in modo sufficiente da essere in grado di vedere la loro radice, dovremmo concentrarci nel cercare di tagliare quella radice, perché solo quando essa è stata tagliata le fronde e i rami smetteranno definitivamente di germogliare.

Nello stesso modo, abbiamo bisogno di rimuovere i nostri desideri e attaccamenti in una certa misura per vedere che la loro radice è solo il nostro ego e che quindi non possiamo sbarazzarci completamente di essi se non sradichiamo questo ego, cosa che possiamo fare solo investigandolo. Cioè, finché i nostri desideri e attaccamenti rimangono, essi circondano e proteggono la loro radice, il nostro ego, così abbiamo bisogno di distruggerli in un certa misura per essere in grado di distruggere questo ego. Tuttavia, se continuiamo a cercare di distruggere i nostri desideri e attaccamenti senza anche cercare di distruggere la loro radice, essi continueranno a germogliare ancora e ancora. Quindi appena li abbiamo distrutti in modo sufficiente per essere in grado di vedere che la loro radice è solo il nostro ego, dovremmo concentrarci nel cercare di distruggere questa radice, perché solo quando essa è stata distrutta i suoi desideri e attaccamenti smetteranno definitivamente di germogliare.

6. Possiamo liberarci dal nostro ego solo con l’auto-investigazione

Come ogni altro karma (azione), il niṣkāmya karma (azione disinteressata) è compiuto solo da noi stessi come questo ego, così compiendo ogni niṣkāmya karma stiamo sostenendo l’illusione di essere questo ego, e quindi non possiamo liberarci da esso compiendo niṣkāmya karma. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto nel verso 2 di Upadēśa Undiyār che il karma ‘non dà la liberazione’ (வீடு தரல் இலை: vīḍu taral ilai).

Dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da se stessi è un’azione o karma, perché comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi verso quella cosa, quindi non possiamo ottenere la liberazione dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Dunque, poiché ogni forma di pratica spirituale diversa dall’auto-investigazione comporta il dare attenzione a qualcosa diversa da se stessi, è un karma, e quindi non distruggerà il nostro ego, e neppure permetterà che sia distrutto. Quindi il nostro ego può essere distrutto solo quando abbandoniamo tutte le altre forme di pratica spirituale e cerchiamo di investigare soltanto noi stessi.

Poiché l’auto-investigazione non comporta alcun movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, non è un’azione o un karma ma solo uno stato di puro essere. Cioè, il nostro ego o mente diviene attiva solo dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da se stesso, così quando cerca di dare attenzione soltanto a se stesso, anch’esso sprofonderà insieme con tutte le sue attività. Quindi cercando di essere auto-attentivi stiamo ritornando al nostro stato naturale di puro essere come sempre siamo realmente, e quindi l’auto-attentività è il solo mezzo con cui possiamo liberare noi stessi dal nostro ego.

6a. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo sostenendo il nostro ego

Sembriamo essere questo ego solo quando sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo sostenendo l’illusione fondamentale di essere questo ego. Questo è il motivo per cui Bhagavan insisteva sempre che possiamo distruggere il nostro ego solo investigandolo, come intende chiaramente nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si estende, si espande, aumenta, si eleva o fiorisce] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], prenderà il volo. Investiga [o conosci in questo modo].
Poiché il nostro ego non ha forma propria, egli lo descrive qui come un ‘fantasma senza forma’ (உருவற்ற பேய்: uru-v-aṯṟa pēy), e in questo modo intende che qualunque forma esso afferra è una cosa diversa da se stesso. Quindi quando dice, ‘உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்’ (uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum), che significa ‘afferrando la forma ha origine; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce abbondantemente’, ciò che intende è che è solo dando attenzione e quindi sperimentando qualsiasi cosa diversa da se stesso che questo ego-fantasma senza forma ha origine, resiste ed è nutrito.

Quindi compiendo ogni pratica spirituale che comporta dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, e perciò queste pratiche non possono essere un mezzo per distruggerlo. Il solo mezzo con cui possiamo distruggere il nostro ego è dunque l’auto-investigazione – la pratica di cercare di dare attenzione soltanto a noi stessi. Questo è ciò che Bhagavan indica nella frase finale di questo verso: ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], prenderà il volo’.

Dunque in questo verso Bhagavan esprime uno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti: dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, così possiamo distruggerlo solo dando attenzione soltanto ad esso.

Quindi per quanto possiamo purificare la nostra mente con ogni altro mezzo, non possiamo rimuovere la sua impurità-radice, il nostro ego. Perciò anche i più grandi fra i devoti possono infine arrendere il loro ego a Dio solo rivolgendo la loro attenzione all’interno per constatare cos’è realmente questo ego. Poiché è solo un fantasma senza forma, non esiste realmente, così quando è investigato ‘esso prenderà il volo’ – cioè, si dissolverà e scomparirà.

6b. Nāṉ Yār? paragrafo 13: essendo auto-attentivi arrendiamo noi stessi a Dio

Quindi, l’auto-investigazione è il culmine e la vetta del sentiero della devozione, perché come Bhagavan ha indicato chiaramente nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? esso è il solo mezzo con cui possiamo arrendere interamente noi stessi a Dio:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso da ātma-cintanā [il pensiero di se stessi o auto-attentività], è dare se stessi a Dio.
Così finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente, ma solo come un’entità separata, questo ego, così non possiamo abbandonare questo ego finché continuiamo a pensare a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Poiché sorgiamo come questo ego solo afferrando cose diverse da noi stessi, possiamo sprofondare e fonderci in Dio, che è la sorgente da cui siamo sorti, solo cercando di afferrare (o essere consapevoli di) noi stessi soltanto. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice che dimorare fermamente come ciò che siamo realmente pensando a nient’altro che noi stessi è solo dare o arrendere noi stessi a Dio.

6c. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 15: auto-investigazione è suprema devozione a Dio

Questo è il motivo per cui Bhagavan spesso diceva che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è suprema devozione (parabhakti) ed è la pratica definitiva a cui tutte le altre pratiche devozionali devono infine condurre. Per esempio, nel verso 15 di Upadēśa Taṉippākkaḷ egli dice:
ஆன்மாநு சந்தான மஃதுபர மீசபத்தி
ஆன்மாவா யீசனுள னால்.

āṉmānu sandhāṉa maḵdupara mīśabhatti
āṉmāvā yīśaṉuḷa ṉāl
.

பதச்சேதம்: ஆன்ம அநுசந்தானம் அஃது பரம் ஈச பத்தி, ஆன்மாவாய் ஈசன் உளனால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): āṉma-anusandhāṉam aḵdu param īśa-bhatti, āṉmā-v-āy īśaṉ uḷaṉāl.

அன்வயம்: ஈசன் ஆன்மாவாய் உளனால், ஆன்ம அநுசந்தானம் அஃது பரம் ஈச பத்தி.

Anvayam (parole ridisposte secondo ordine naturale di prosa): īśaṉ āṉmā-v-āy uḷaṉāl, āṉma-anusandhāṉam aḵdu param īśa-bhatti.

Traduzione: Auto-investigazione (ātma-anusaṁdhāna) è suprema devozione a Dio (para īśa-bhakti), poiché Dio esiste come se stessi (ātman).
அநுசந்தானம் (anusandhāṉam) è una forma Tamil della parola Sanscrita अनुसंधान (anusaṁdhāna), che significa investigazione, esame, scrutinio o ispezione attenta, così ஆன்மாநுசந்தானம் (āṉmānusandhāṉam o āṉma-anusandhāṉam) significa investigare o ispezionare attentamente se stessi. Poiché Dio non è nient’altro che noi stessi, Bhagavan dice che investigare noi stessi è suprema devozione a lui.

6d. Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham verso 14: l’auto-investigazione è karma, bhakti, yōga e jñāna

Mentre altre pratiche devozionali possono aiutare a rimuovere altri difetti nella nostra mente, solo l’auto-investigazione può rimuovere il nostro ego, che è la radice di tutti quei difetti, perché solo quando investighiamo questo ego guardandolo molto attentamente scopriremo che esso non esiste realmente, e che ciò che sembrava essere questo ego è solo noi stessi come siamo realmente. Quindi nessun’altra pratica spirituale può essere completa in se stessa senza l’auto-investigazione, e perciò nel verso 14 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham Bhagavan dice:
வினையும் விபத்தி வியோகமஞ் ஞான
மினையவையார்க் கென்றாய்ந் திடலே — வினைபத்தி
யோகமுணர் வாய்ந்திடநா னின்றியவை யென்றுமிறா
னாகமன லேயுண்மை யாம்.

viṉaiyum vibhatti viyōgamañ ñāṉa
miṉaiyavaiyārk keṉḏṟāyn diḍalē — viṉaibhatti
yōgamuṇar vāyndiḍanā ṉiṉḏṟiyavai yeṉḏṟumiṟā
ṉāhamaṉa lēyuṇmai yām
.

பதச்சேதம்: வினையும், விபத்தி, வியோகம், அஞ்ஞானம் இணையவை யார்க்கு என்று ஆய்ந்திடலே வினை, பத்தி, யோகம், உணர்வு. ஆய்ந்திட, ‘நான்’ இன்றி அவை என்றும் இல். தானாக மனலே உண்மை ஆம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉai-y-um, vibhatti, viyōgam, aññāṉam iṉaiyavai yārkku eṉḏṟu āyndiḍal-ē viṉai, bhatti, yōgam, uṇarvu. āyndiḍa, ‘nāṉ’ iṉḏṟi avai eṉḏṟum il. tāṉ-āha maṉal-ē uṇmai ām.

Traduzione: Investigare di chi sono questi, karma, vibhakti, viyōga e ajñāna, è esso stesso karma, bhakti, yōga e jñāna. Quando [si ] investiga, senza ‘io’ [l’ego] essi [karma, vibhakti, viyōga e ajñāna] mai esistono. Solo essere permanentemente come se stessi è vero.
Nella prima riga di questo verso வினை (viṉai) significa azione o karma; விபத்தி (vibhatti) significa vibhakti, ma nel senso speciale di ‘mancanza di devozione’ piuttosto che nel suo senso usuale di ‘separazione’; வியோகம் (viyōgam) significa ‘separazione’; e அஞ்ஞானம் (aññāṉam) significa ajñāna o ‘ignoranza’ nel senso di ‘auto-ignoranza’. Poiché queste sono questioni solo per il nostro ego, e poiché investigare questo ego rivelerà che esso non esiste realmente, Bhagavan dice che investigare a chi o per chi questi difetti sembrano esistere è esso stesso karma, bhakti, yōga e jñāna, ed intende che se investighiamo il nostro ego nessuna delle altre pratiche di niṣkāmya karma, bhakti, yōga o jñāna è necessaria, perché dice nella frase successiva che questi difetti non possono esistere senza questo ego. Quindi se investighiamo diligentemente e sufficientemente questo ego, esso non sembrerà più esistere, e così scopriremo che ciò che è vero o reale è solo che siamo sempre noi stessi e nient’altro che noi stessi.

7. L’efficacia relativa di niṣkāmya karma compiuti con il corpo, con la parola e con la mente

Ogni pratica devozionale diversa dall’auto-investigazione è un azione compiuta dal nostro ego, così queste pratiche sembrano necessarie solo quando non investighiamo questo ego. Benché queste pratiche possono aiutare a purificare la nostra mente e quindi a permetterci di vedere che il sentiero dell’auto-investigazione è il solo mezzo con cui possiamo essere liberati da questo ego, la loro efficacia nel fare questo dipende se siano compiute con il corpo, con la parola o con la mente, come Bhagavan descrive brevemente dal verso 4 al verso 7 di Upadēśa Undiyār.

7a. Upadēśa Undiyār verso 4: dhyāna è più efficace di japa, che è più efficace di pūjā

Nel verso 4 egli discute i tre tipi di niṣkāmya karma che possiamo compiere rispettivamente con il corpo, con la parola e con la mente, vale a dire pūjā (adorazione), japa (ripetizione verbale) e dhyāna (meditazione):
திடமிது பூசை செபமுந் தியான
முடல்வாக் குளத்தொழி லுந்தீபற
      வுயர்வாகு மொன்றிலொன் றுந்தீபற.

diḍamidu pūjai jepamun dhiyāṉa
muḍalvāk kuḷattoṙi lundīpaṟa
      vuyarvāhu moṉḏṟiloṉ ḏṟundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: திடம் இது: பூசை செபமும் தியானம் உடல் வாக்கு உள தொழில். உயர்வு ஆகும் ஒன்றில் ஒன்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): diḍam idu: pūjai jepam-um dhiyāṉam uḍal vākku uḷa toṙil. uyarvu āhum oṉḏṟil oṉḏṟu.

அன்வயம்: பூசை செபமும் தியானம் உடல் வாக்கு உள தொழில். ஒன்றில் ஒன்று உயர்வு ஆகும். இது திடம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): pūjai jepam-um dhiyāṉam uḍal vākku uḷa toṙil. oṉḏṟil oṉḏṟu uyarvu āhum. idu diḍam.

Traduzione: Questo è certo: pūjā, japa and dhyāna sono azioni di corpo, parola e mente. Uno è superiore in confronto a uno.
உயர்வு (uyarvu) significa alto, elevato, sollevato, esaltato o superiore, essendo un sostantivo derivato dal verbo உயர் (uyar), che significa sorgere, ascendere, crescere, aumentare o espandersi, o essere alto, elevato, sollevato, esaltato o superiore. ‘உயர்வு ஆகும் ஒன்றில் ஒன்று’ (uyarvu āhum oṉḏṟil oṉḏṟu) significa etteralmente ‘uno è superiore in confronto a uno’, che in questo contesto comporta che ciascun successivo è superiore al precedente, così il significato di questo verso può essere parafrasato come segue:
Questo è certo: pūjā, japa e dhyāna sono [rispettivamente] azioni di corpo, parola e mente, [e quindi in quest’ordine ciascun successivo] è superiore al [precedente].
Poiché questo verso viene immediatamente dopo il verso 3, in cui Bhagavan ha detto, ‘Niṣkāmya karma compiuto [con amore] per Dio purifica la mente e [quindi] mostrerà il sentiero per la liberazione’, in questo contesto i termini pūjā, japa e dhyāna significano solo niṣkāmya pūjā, japa e dhyāna (cioè, pūjā, japa o dhyāna compiuti per la soddisfazione di qualsiasi desiderio personale).

Quando egli dice che ciascuno di questi è superiore al precedente, ciò che intende con il termine உயர்வு (uyarvu) o ‘superiore’ è più efficacie e affidabile nel purificare la mente e quindi nel mostrare il sentiero per la liberazione. La ragione per cui ogni successivo è superiore in questo modo è inteso dalle parole ‘உடல் வாக்கு உள தொழில்’ (uḍal vākku uḷa toṙil), che significano ‘azioni di corpo, parole e mente’. Cioè, corpo, parola e mente sono i tre strumenti con cui, come questo ego, compiamo azioni o karma, ma poiché in quest’ordine ciascuno di questi tre strumenti consecutivi è più sottile del precedente, qualunque azione che facciamo con la parola è potenzialmente più potente ed efficace di ogni azione che possiamo fare con il corpo, e qualunque azione facciamo con la mente è potenzialmente più potente ed efficace di ogni azione che possiamo fare con la parola.

Poiché pūjā (ogni singolo atto di adorazione) è un’azione compiuta con il nostro corpo, qualunque azione o materiale sia coinvolto nel compierla rischia di distrarre la nostra mente lontano da Dio, almeno parzialmente, così è un modo meno efficace ed affidabile di focalizzare il nostro amore su di lui. Rispetto a questo japa (ripetizione di un nome di Dio), che è un’azione compiuta con la nostra parola, è superiore a pūjā, perché è un’azione più semplice e più sottile, e quindi tenderà meno a distrarre la nostra attenzione lontano da Dio. Quindi parlando generalmente japa è un modo più efficace di focalizzare il nostro amore su Dio che pūjā, e quindi è un mezzo più efficace e affidabile di purificare la nostra mente.

Tuttavia, anche facendo japa possiamo facilmente non riuscire a notare quando la nostra attenzione è distratta da altri pensieri, perché japa può continuare meccanicamente mentre stiamo pensando ad altre questioni, creando quindi un’illusione che stiamo facendo japa quando la nostra mente sta di fatto soffermandosi su altri pensieri. Rispetto a questo dhyāna (meditazione, che in questo contesto significa meditazione su un nome o una forma di Dio) è superiore a japa, perché è un’azione compiuta dalla nostra mente e perciò possiamo notare più facilmente quando la nostra attenzione è distratta da qualche altro pensiero, poiché non possiamo continuare a meditare su Dio quando stiamo pensando a qualsiasi altra cosa. Quindi parlando generalmente dhyāna è un modo più efficace di focalizzare il nostro amore su Dio che fare japa vocalmente, e perciò è un mezzo più efficace ed affidabile per purificare la nostra mente.

Quindi Bhagavan dice in questo verso che è certo che dhyāna è superiore a japa, e japa è superiore a pūjā. Poi nei tre versi successivi discute con più dettaglio ciascuno di questi tre generi di niṣkāmya karma.

7b. Upadēśa Undiyār verso 5: ogni cosa può essere adorata come Dio

Nel verso 5 egli spiega ciò che intende con pūjā o ‘adorazione’ in questo contesto:
எண்ணுரு யாவு மிறையுரு வாமென
வெண்ணி வழிபட லுந்தீபற
      வீசனற் பூசனை யுந்தீபற.

eṇṇuru yāvu miṟaiyuru vāmeṉa
veṇṇi vaṙipaḍa lundīpaṟa
      vīśaṉaṯ pūjaṉai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: எண் உரு யாவும் இறை உரு ஆம் என எண்ணி வழிபடல் ஈசன் நல் பூசனை.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṇ uru yāvum iṟai uru ām eṉa eṇṇi vaṙipaḍal īśaṉ nal pūjaṉai.

Traduzione: Adorando pensando che tutte le otto forme sono forme di Dio è buon pūjā di Dio.

Traduzione parafrasata: Adorando [ogni cosa] pensando che tutte le cose [in questo intero universo], [che è composto di] otto forme, sono forme di Dio, è buona adorazione di Dio.
La parola எண் (eṇ) è una forma aggettivale di otto e un sostantivo che ha diversi significati come pensiero, immaginazione o mente, così எண்ணுரு (eṇ-ṇ-uru) può significare ‘otto forme’ o ‘forme-pensiero’, e quindi in questo contesto எண்ணுரு யாவும் (eṇ-ṇ-uru yāvum) può essere interpretato nel significato di ‘tutte le otto forme’ o ‘tutte le forme-pensiero’. Secondo Bhagavan tutti i fenomeni, mentali apparentemente fisici, sono solamente pensieri, idee o immaginazioni, e perciò nei paragrafi quarto e quattordicesimo di Nāṉ Yār? egli dice:
[...] நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. [...]

[...] niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyam-āy illai. [...]

[...] Escludendo i pensieri [o le idee], non c’è separatamente una cosa come ‘il mondo’. [...]

[...] ஜக மென்பது நினைவே. [...]

[...] jagam eṉbadu niṉaivē. [...]

[...] Ciò che è chiamato il mondo è solo pensiero. [...]

Di conseguenza se interpretiamo எண்ணுரு யாவும் (eṇ-ṇ-uru yāvum) nel significato di ‘tutte le forme-pensiero’, esso indica tutti i fenomeni, inclusi tutti i fenomeni che comprendono questo o qualsiasi altro mondo. Tuttavia எண்ணுரு யாவும் (eṇ-ṇ-uru yāvum) è interpretato generalmente nel significato di ‘tutte le otto forme’, perché अष्टमूर्ति (aṣṭa-mūrti) o il ‘composto di otto’ è un nome di Siva e perché nelle versioni Sanscrita, Telugu e Malayalam di questo verso Bhagavan ha tradotto எண்ணுரு (eṇ-ṇ-uru) come aṣṭa-mūrti, ma anche se lo interpretiamo in questo senso, ancora indica tutti i fenomeni che comprendono questo o qualsiasi altro mondo, perché le ‘otto forme’ di Siva si crede siano i costituenti che costituiscono questo intero universo. Vari testi descrivono queste ‘otto forme’ in modi differenti, ma invariabilmente includono i cinque elementi, vale a dire la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria e lo spazio, oltre a tre cose come la mente, l’ego e prakṛti (la forma primordiale di tutti i fenomeni), il sole, la luna e il sacerdote che compie il sacrificio, o il sole, la luna e i jīva (le anime o esseri senzienti), ma in questo contesto è più appropriato intenderle come i cinque elementi, il sole, la luna e i jīva, perché queste sono tutte le forme che possono essere adorate.

Quindi se prendiamo questa frase எண்ணுரு யாவும் (eṇ-ṇ-uru yāvum) nel significato di ‘tutte le forme-pensiero’ o ‘tutte le otto forme’, essa indica qualsiasi cosa e ogni cosa, così ciò che Bhagavan intende in questo verso è che se consideriamo ogni cosa come una forma di Dio, adorare ogni cosa è ‘ஈசன் நல் பூசனை’ (īśaṉ nal pūjaṉai), ‘buona adorazione di Dio’. Qui நல் பூசனை (nal pūjaṉai) o ‘buona adorazione’ possono significare adorazione appropriata o adorazione che è efficace nel purificare la nostra mente. La base logica dietro quest’idea che adorare ogni cosa considerandola come una forma di Dio è adorazione appropriata a lui e quindi purificherà la nostra mente è che Dio è l’unica realtà infinita, all’infuori del quale niente esiste, così ogni cosa che sembra esistere è solo Dio stesso che appare in quella forma, e perciò è appropriato il nostro rispettare ogni cosa come Dio.

வழிபடல் (vaṙipaḍal) significa seguire, aderire, adorare, venerare o trattare con riverenza, e in questo contesto può significare adorare ritualmente o rendere servizio appropriato. Tuttavia rendere servizio appropriato può essere applicato solo ai jīvas (esseri senzienti) e non a ognuna delle altre sette forme, così se vogliamo adorare Dio in qualche altra forma come il sole, la luna o uno qualsiasi dei cinque elementi o qualsiasi altra cosa composta di tali elementi, possiamo farlo solo ritualmente. Nel caso dei jīva possiamo adorarli ritualmente o rendendo ad essi servizio appropriato, come alleviare qualunque sofferenza possiamo o aderendo strettamente al principio di ahiṁsa (evitare di causare danno a qualsiasi essere senziente). Così in questo verso Bhagavan ci dà una definizione molto ampia ed inclusiva di ‘buona adorazione di Dio’.

7c. Upadēśa Undiyār verso 6: l’efficacia relativa di diverse modalità di japa

Nel verso 6 egli spiega i differenti modi in cui japa può essere fatto e l’efficacia relativa nel farlo in ciascun modo:
வழுத்தலில் வாக்குச்ச வாய்க்குட் செபத்தில்
விழுப்பமா மானத முந்தீபற
      விளம்புந் தியானமி துந்தீபற.

vaṙuttalil vākkucca vāykkuṭ jepattil
viṙuppamā māṉata mundīpaṟa
      viḷambun dhiyāṉami dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வழுத்தலில், வாக்கு உச்ச, வாய்க்குள் செபத்தில் விழுப்பம் ஆம் மானதம். விளம்பும் தியானம் இது.

Padacchēdam (separazione delle parole): vaṙuttalil, vākku ucca, vāykkuḷ jepattil viṙuppam ām māṉatam. viḷambum dhiyāṉam idu.

அன்வயம்: வழுத்தலில், உச்ச வாக்கு, வாய்க்குள் செபத்தில் மானதம் விழுப்பம் ஆம். இது தியானம் விளம்பும். Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vaṙuttalil, ucca vākku, vāykkuḷ jepattil māṉatam viṙuppam ām. idu dhiyāṉam viḷambum.

Traduzione: Piuttosto che lodare, [japa] a voce alta, piuttosto che japa all’interno della bocca, [japa] mentale è benefico. Questo è chiamato dhyāna.
In questo verso Bhagavan confronta quattro modi di adorazione vocale o japa e intende che ogni successivo è più benefico ed efficace del precedente, ma lo fa in un modo estremamente conciso, reminiscente dello stile in cui gli antichi saggi esprimevano le loro idee in sutra aforistici, e simile al modo in cui le persone usavano trasmettere informazioni in telegrammi o al modo in cui oggi ci scambiamo messaggi di testo.

Egli esprime il primo modo con la parola வழுத்தலில் (vaṙuttalil), che è una forma locativa del sostantivo verbale வழுத்தல் (vaṙuttal), che significa ‘lodare’ o ‘cantare’. In questo caso il locativo è usato in un senso comparativo, così esso trasmette lo stesso significato di ‘che’, ‘piuttosto che’ o ‘in confronto a’, di conseguenza ho tradotto வழுத்தலில் (vaṙuttalil) come ‘piuttosto che lodare’, ma esso implica ‘in confronto a lodare Dio cantando inni’. Quello con cui il lodare o cantare è confrontato non è dichiarato esplicitamente, ma nel contesto dell’intero verso l’implicazione è che esso è confrontato con il japa in generale (cioè, con tutte le tre modalità di japa che Bhagavan cita qui), intendendo che in confronto a lodare Dio cantando inni japa in generale è விழுப்பம் (viṙuppam), che significa buono, benefico, eccellente, eminente o superiore.

Mentre வழுத்தல் (vaṙuttal) significa ‘lodare’ o ‘cantare’ ed è quindi una forma di adorazione vocale ma non è japa, le altre tre modalità che Bhagavan discute qui sono ciascuna una forma di japa. Egli esprime il secondo modo con le parole வாக்கு உச்ச (vākku ucca), in cui வாக்கு (vākku) significa ‘voce’ e உச்ச (ucca) significa ‘alto’ o ‘forte’. Benché il suffisso di caso locativo non è apposto a வாக்கு உச்ச (vākku ucca), nel contesto di questo verso è implicito, così l’implicazione di queste due parole, வாக்கு உச்ச (vākku ucca) o ‘voce alta’ è che in confronto a japa fatto a voce alta, i due modi successivi di japa che Bhagavan menziona qui sono விழுப்பம் (viṙuppam), ‘benefici’ o ‘superiori’.

La terza modalità che Bhagavan menziona è espressa dalle parole வாய்க்குள் செபத்தில் (vāykkuḷ jepattil), in cui வாய்க்குள் (vāykkuḷ) o வாய்க்கு உள் (vāykku-uḷ) significa ‘all’interno della bocca’ o ‘dentro la bocca’ e செபத்தில் (jepattil) è una forma locativa di செபம் (jepam), che è una forma Tamil della parola Sanscrita जप (japa), che significa ‘ripetizione’. Quindi ho tradotto வாய்க்குள் செபத்தில் (vāykkuḷ jepattil) come ‘piuttosto che japa all’interno della bocca’, ma ciò che esso significa è ‘piuttosto che [o in confronto a] japa [appena sussurrato] all’interno della bocca’. Ciò con cui questo tipo di japa è qui confrontato è la quarta e finale modalità, che Bhagavan esprime con la parola மானதம் (māṉatam), che è una forma Tamil della parola Sanscrita मानसिक (mānasika), che significa ‘mentale’ o ‘ciò che è fatto con la mente’. Così la proposizione principale di questa prima frase è ‘வாய்க்குள் செபத்தில் மானதம் விழுப்பம் ஆம்’ (vāykkuḷ jepattil māṉatam viṙuppam ām), che significa ‘in confronto a japa [appena sussurrato] all’interno della bocca, quello che è fatto con la mente è benefico’.

La seconda e finale frase di questo verso è ‘விளம்பும் தியானம் இது’ (viḷambum dhiyāṉam idu), che è un modo poetico di dire ‘இது தியானம் விளம்பும்’ (idu dhiyāṉam viḷambum), che significa ‘questo è chiamato dhyāna’, in cui இது (idu) o ‘questo’ si riferisce alla ripetizione mentale o mānasika japa e தியானம் (dhiyāṉam) è una forma Tamil della parola Sanscrita ध्यान (dhyāna), che significa ‘meditazione. Così il significato di questo intero verso può essere parafrasato come segue:
Piuttosto che lodare [Dio, cantando inni], [japa o ripetizione del suo nome è benefico]; [piuttosto che japa fatto] a voce alta, [japa appena sussurrato all’interno della bocca è benefico]; [e] piuttosto che japa all’interno della bocca, quello che è fatto con la mente è benefico. Questa [ripetizione mentale o mānasika japa] è chiamata dhyāna [meditazione].
In questo contesto japa, ‘ripetere’ o ‘ripetizione’, significa specificatamente niṣkāmya nāma-japa o ripetere un nome di Dio con amore e senza desiderio per qualsiasi profitto personale. Quindi, poiché in questo contesto மானதம் (māṉatam) o ‘mentale’ significa मानसिक जप (mānasika japa) o ‘ripetere mentalmente’, il significato implicito della frase finale è che ripetere mentalmente un nome di Dio con amore per lui è una forma di dhyāna o meditazione su Dio. Tuttavia questa frase finale non è intesa nel significato che fare mānasika japa di un nome di Dio è il solo modo di meditare su di lui, perché finché consideriamo Dio come diverso da noi stessi possiamo meditare su di lui ripetendo mentalmente il suo nome o facendo mūrti-dhyāna, che significa meditazione su una delle numerose forme che gli possono essere attribuite. Dunque ciò che Bhagavan dice nel verso successivo riguardo la meditazione si applica sia al mānasika japa di un nome di Dio sia alla meditazione su una qualsiasi delle sue forme.

7d. Upadēśa Undiyār verso 7: una meditazione ininterrotta è superiore a una meditazione interrotta

Nel verso 7 egli intende che una meditazione continua è più efficace nel purificare la nostra mente che una meditazione interrotta frequentemente da altri pensieri:
விட்டுக் கருதலி னாறுநெய் வீழ்ச்சிபோல்
விட்டிடா துன்னலே யுந்தீபற
      விசேடமா முன்னவே யுந்தீபற.

viṭṭuk karudali ṉāṟuney vīṙccipōl
viṭṭiḍā duṉṉalē yundīpaṟa
      viśēḍamā muṉṉavē yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: விட்டு கருதலின் ஆறு நெய் வீழ்ச்சி போல் விட்டிடாது உன்னலே விசேடம் ஆம் உன்னவே.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṭṭu karudaliṉ āṟu ney vīṙcci pōl viṭṭiḍādu uṉṉal-ē viśēḍam ām uṉṉa-v-ē.

அன்வயம்: விட்டு கருதலின் ஆறு நெய் வீழ்ச்சி போல் விட்டிடாது உன்னலே உன்னவே விசேடம் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): viṭṭu karudaliṉ āṟu ney vīṙcci pōl viṭṭiḍādu uṉṉal-ē uṉṉa-v-ē viśēḍam ām.

Traduzione: Piuttosto che lasciare e meditare, meditare senza lasciare, come un fiume o la caduta del ghee, è davvero superiore da meditare.

Traduzione alternativa: Piuttosto che meditare discontinuamente, meditare senza discontinuità, come un fiume o la caduta del ghee, è davvero superiore da meditare [o è davvero superiore, quando considerato].
Poiché questo verso continua il tema dei quattro versi precedenti, riguardo i vari tipi di niṣkāmya karma che possiamo fare con amore per Dio, ‘meditare’ qui significa meditare su Dio con amore e senza alcun desiderio di raggiungere qualunque altra cosa. Come ho citato nel paragrafo finale della sottosezione precedente, finché consideriamo Dio come diverso da noi stessi possiamo meditare su di lui ripetendo mentalmente il suo nome (che è chiamato mānasika japa) o meditando su una qualunque delle numerose forme che possono essergli attribuite (che è chiamato mūrti-dhyāna), così ciò che Bhagavan dice in questo verso si applica a entrambe queste due forme di meditazione.

In questo verso Bhagavan pone a confronto due modi di meditazione, che descrive come விட்டு கருதல் (viṭṭu karudal) e விட்டிடாது உன்னல் (viṭṭiḍādu uṉṉal). விட்டு (viṭṭu) è un participio verbale che significa lasciare, andarsene, abbandonare, rinunciare, mollare o cessare, e விட்டிடாது (viṭṭiḍādu) è una forma negativa dello stesso participio verbale, così significa senza lasciare, abbandonare o cessare. கருதல் (karudal) e உன்னல் (uṉṉal) sono entrambi sostantivi verbali che significano pensare, considerare, immaginare, ponderare, meditare o meditazione. Quindi விட்டு கருதல் (viṭṭu karudal) significa letteralmente ‘lasciare [e] meditare’, ma significa ‘meditare discontinuamente’, ‘meditare [ma poi] abbandonare [la propria meditazione]’ o ‘meditare interrottamente’, mentre விட்டிடாது உன்னல் (viṭṭiḍādu uṉṉal) significa letteralmente ‘non lasciare [e] meditare’, ma significa ‘meditare senza lasciare’, ‘meditare senza discontinuità’, ‘meditare senza abbandonare’ o ‘meditare ininterrottamente’.

Per mostrare che sta confrontando questi due tipi di meditazione, a விட்டு கருதல் (viṭṭu karudal) Bhagavan ha suffisso il participio இன் (iṉ), che in questo caso significa ‘che’, ‘piuttosto che’ o ‘in confronto a’, e a விட்டிடாது உன்னல் (viṭṭiḍādu uṉṉal) ha suffisso il participio di rinforzo ஏ (ē), che in questo caso significa ‘davvero’ o ‘certamente’.

Bhagavan dà due analogie per enfatizzare la natura continua di விட்டிடாது உன்னல் (viṭṭiḍādu uṉṉal) o ‘meditare ininterrottamente’, vale a dire ஆறு (āṟu), che significa ‘fiume’ e che in questo contesto significa il flusso stabile e ininterrotto di un fiume, e நெய் வீழ்ச்சி (ney vīṙcci), che significa ‘caduta del ghee’ e che suggerisce il flusso continuo del ghee (burro chiarificato) o qualsiasi altro olio viscoso quando è versato. Egli dice che in confronto a meditare in modo discontinuo, meditare ininterrottamente in questo modo stabile è விசேடம் (viśēḍam), che è una forma Tamil della parola Sanscrita विशेष (viśēṣa), che in questo contesto significa speciale, eminente, eccellente o superiore.

Come உயர்வு (uyarvu) o ‘superiore’ nel verso 4, நல் (nal) o ‘buono’ nel verso 5, விழுப்பம் (viṙuppam), ‘benefico’ o ‘superiore, nel verso 6, e உத்தமம் (uttamam), ‘il migliore’, ‘il più alto’ o ‘il più eccellente’, nel verso 8, in questo verso விசேடம் (viśēḍam) o ‘superiore’ significa più efficace nel purificare la nostra mente e quindi nel darci la chiarezza per comprendere che il solo modo per ottenere la liberazione è rivolgere la nostra mente interiormente per sperimentare soltanto noi stessi.

La parola finale in questo verso, உன்னவே (uṉṉavē), è una forma intensificata di உன்ன (uṉṉa), l’infinito del verbo உன்னு (uṉṉu), che significa pensare, considerare, ponderare o meditare, e che è il verbo dal quale è derivato il sostantivo verbale உன்னல் (uṉṉal). Poiché in Tamil l’infinito può essere usato nello stesso senso dell’infinito in Inglese o in un senso condizionale simile a quello espresso da ‘quando’ in Inglese, in questo contesto உன்னவே (uṉṉavē) può significare ‘da meditare’ o ‘quando considerato’. Così la proposizione principale di questo verso, ‘விட்டிடாது உன்னலே விசேடம் ஆம் உன்னவே’ (viṭṭiḍādu uṉṉal-ē viśēḍam ām uṉṉa-v-ē), può essere interpretata nel significato di ‘meditare senza discontinuità è certamente superiore da meditare’ (che implica che è un modo superiore in cui meditare, o semplicemente che è una modalità superiore di meditazione) o ‘meditare senza discontinuità è certamente superiore, quando considerato’.

Dunque il significato di questo verso può essere parafrasato come segue:
Piuttosto che meditare [su Dio] [ma poi] abbandonare [il proprio pensiero di lui permettendo alla propria attenzione di essere distratta da altri pensieri], meditare [su di lui] senza lasciare [il proprio pensiero di lui], come [il flusso ininterrotto di] un fiume o la caduta del ghee, è davvero [un] [modo] superiore [in cui] meditare [o è davvero superiore, quando considerato].
Perché Bhagavan dice che una meditazione ininterrotta è superiore a una meditazione interrotta frequentemente da altri pensieri, implicando quindi nel contesto di queste serie di versi che è più efficace nel purificare la nostra mente e quindi nel mostrarci la via per la liberazione? Per rispondere a questo abbiamo bisogno di considerare perché la nostra attenzione tende ad essere distratta da altri pensieri. Ogni volta che lasciamo il pensiero di Dio per pensare a qualche altra cosa, lo facciamo perché siamo più interessati o coinvolti con quell’altra cosa che con Dio. Se il nostro amore per lui fosse più grande del nostro desiderio o coinvolgimento per qualsiasi altra cosa non saremmo distratti ma continueremmo a pensare soltanto a lui. Quindi la misura in cui la nostra meditazione su Dio è ininterrotta da ogni altro pensiero di qualsiasi altra cosa è un’indicazione dell’intensità del nostro amore per lui.

Dunque il significato implicito di questo è che la meditazione su Dio è efficace nella misura in cui abbiamo un saldo amore per lui. Più lo amiamo, meno la nostra meditazione su di lui sarà interrotta da altri pensieri, e quindi la nostra meditazione sarà più efficace nel purificare la nostra mente e nel darci la chiarezza interiore per comprendere che Dio è effettivamente il nostro vero sé, così possiamo sperimentare come egli è realmente solo rivolgendo la nostra mente all’interno per sperimentare soltanto noi stessi, in completo isolamento da tutti i pensieri di qualsiasi altra cosa.

Meditare soltanto su noi stessi in questo modo, senza pensare a qualsiasi altra cosa, è ciò che Bhagavan descrive nel verso successivo di Upadēśa Undiyār come அனனிய பாவம் (ananya-bhāvam) o ‘meditazione senza altro’ che egli dice è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), che significa ‘la migliore fra tutte’, intendendo quindi che è la migliore fra tutte le forme di meditazione e la migliore fra tutte le pratiche di bhakti o devozione. Come dice nel verso 15 di Upadēśa Taṉippākkaḷ (che abbiamo considerato sopra nella sezione 6c), investigare o meditare soltanto su noi stessi è parabhakti o suprema devozione a Dio, e come dice nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (che abbiamo considerato nella sezione 6b), solo pensare a nient’altro che noi stessi è arrendere noi stessi interamente a Dio.

All’inizio di questa sottosezione ho detto che ciò che Bhagavan dice riguardo la meditazione in questo presente verso di Upadēśa Undiyār (verso 7) si applica sia ai due modi in cui possiamo meditare su Dio come se fosse diverso da noi stessi, vale a dire mānasika japa (ripetizione mentale di qualsiasi nome possiamo scegliere di dargli) o mūrti-dhyāna (meditare su di lui come nient’altro che se stessi), perché più intenso è il nostro amore per lui come noi stessi, più ininterrotta sarà la nostra auto-attentività, e quindi più rapidamente ed efficacemente tutte le nostre impurità mentali nella forma di viṣaya-vāsanā (desideri o inclinazioni a sperimentare cose diverse da se stessi) saranno sradicate.

8. Upadēśa Undiyār verso 8: la meditazione su nient’altro che noi stessi e ‘la migliore fra tutte’

Tutte le forme di niṣkāmya karma che possiamo praticare con amore per Dio, come discusse da Bhagavan dal verso 4 al verso 7 di Upadēśa Undiyār, sono basate sul presupposto che Dio sia qualcosa diversa da noi stessi. Ogni volta che lo adoriamo fisicamente compiendo qualsiasi forma di pūjā come descritto nel verso 5, o lo adoriamo vocalmente cantando inni o lodi o facendo japa come descritto nel verso 6, o lo adoriamo mentalmente meditando su qualsiasi suo nome o forma più possibilmente senza interruzioni, come descritto nel verso 7, lo stiamo facendo come se egli fosse qualcosa diversa da noi stessi. Tuttavia secondo Bhagavan, Dio non è nient’altro che noi stessi, così il modo migliore per meditare su di lui è meditare soltanto su noi stessi. In questo modo il nostro amore non è diviso tra noi stessi e Dio, ma è focalizzato pienamente su di lui come noi stessi.

Se Dio fosse qualcosa diversa da noi stessi, sarebbe di conseguenza limitato, e quindi non sarebbe l’unica realtà infinita che egli è realmente. Come Bhagavan una volta ha detto in risposta a un missionario Cristiano che gli chiese se non fosse blasfemia dire che noi siamo Dio, la più grande blasfemia sarebbe dire che noi siamo qualcosa di separato da Dio, perché di conseguenza intenderemmo che egli non è infinito ma solo qualcosa di limitato, come noi sembriamo essere finché sperimentiamo noi stessi come qualcosa diversa da lui. Dicendo questo intendeva che la peggior apacāra (offesa o mancanza di rispetto) a Dio che possiamo commettere è sorgere come un ego, come se fossimo qualcosa diversa da lui. Quindi se abbiamo vero amore per Dio, non dovremmo considerare noi stessi come qualcosa diversa da lui, e perciò dovremmo cercare di sprofondare in lui, cosa che possiamo fare solo meditando su nient’altro che noi stessi.

Quindi nel verso 8 di Upadēśa Undiyār Bhagavan dice:
அனியபா வத்தி னவனக மாகு
மனனிய பாவமே யுந்தீபற
      வனைத்தினு முத்தம முந்தீபற.

aṉiyabhā vatti ṉavaṉaha māhu
maṉaṉiya bhāvamē yundīpaṟa
      vaṉaittiṉu muttama mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: அனிய பாவத்தின் அவன் அகம் ஆகும் அனனிய பாவமே அனைத்தினும் உத்தமம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṉiya-bhāvattiṉ avaṉ aham āhum aṉaṉiya-bhāvam-ē aṉaittiṉ-um uttamam.

Traduzione: Piuttosto che anya-bhāva, ananya-bhāva, in cui egli è io, certamente è la migliore tra tutte.
அனிய (aṉiya) è una forma Tamil della parola Sanscrita अन्य (anya), che significa ciò che è altro, differente o separato. பாவம் (bhāvam) è similmente una parola di origine Sanscrita, ma ha una gamma di significati molto ampia, come essere, divenire, stato, condizione, stato di essere, vera condizione, verità, realtà, natura, temperamento, sensazione, emozione, devozione, amore, pensiero, idea, meditazione, contemplazione, attitudine, disposizione mentale, stato di mente e così via, così il suo significato in ciascun caso è determinato dal contesto in cui è usata. In questo contesto essa significa meditazione o bhāvana, così அனியபாவம் (aṉiya-bhāvam) significa ‘meditazione su ciò che altro’ e implica meditazione su Dio considerandolo diverso da se stesso, mentre அனனியபாவம் (aṉaṉiya-bhāvam) significa ‘meditazione su ciò che non è altro’ e implica meditazione su Dio come nient’altro che se stessi, che significa meditazione soltanto su se stessi. Così அனனியபாவம் (aṉaṉiya-bhāvam) è semplicemente una descrizione alternativa di svarūpa-dhyāna o ātma-cintanā, auto-contemplazione o auto-attentività, ed è quindi un sinonimo di ātma-vicāra o auto-investigazione.

Cioè, ogni forma di meditazione diversa dalla semplice auto-attentività deve essere meditazione su qualcosa diversa da noi stessi, così è una varietà di anya-bhāva, mentre l’auto-attentività è meditazione su nient’altro che noi stessi, così essa soltanto è ananya-bhāva. Dunque in questo verso Bhagavan sta evidenziando la differenza fondamentale tra l’auto-attentività e ogni altro genere di meditazione. In ogni altro genere di meditazione c’è una distinzione tra il meditatore e ciò su cui si medita, mentre nell’auto-attentività tale distinzione non c’è. Quindi ogni altro genere di meditazione comporta una dualità nella forma della distinzione fondamentale tra soggetto e oggetto, mentre l’auto-attentività non comporta assolutamente dualità di qualsiasi genere, perché ciò su cui stiamo meditando quando stiamo cercando di essere esclusivamente auto-attentivi non è un qualche oggetto ma solo noi stessi, il soggetto che sta meditando o dando attenzione.

பாவத்தின் (bhāvattiṉ) è una forma locativa di (bhāvam) ed è usata qui in un senso comparativo, così அனிய பாவத்தின் (aṉiya-bhāvattiṉ) significa ‘piuttosto che anya-bhāva’ o 'in confronto a anya-bhāva’. பாவமே (bhāvamē) è una forma intensificata di பாவம் (bhāvam), così in questo contesto அனனிய பாவமே (aṉaṉiya-bhāvamē) significa ‘ananya-bhāva certamente’ o ‘ananya-bhāva soltanto’. Così la struttura grammaticale di queste due frasi, அனிய பாவத்தின் (aṉiya-bhāvattiṉ) e அனனிய பாவமே (aṉaṉiya-bhāvamē), enfatizza fortemente il confronto tra esse, indicando che ciò che è detto riguardo alla seconda, vale a dire che è ‘la migliore tra tutte’, è certamente vero per essa ed essa soltanto.

‘அவன் அகம் ஆகும்’ (avaṉ aham āhum) è una proposizione relativa che in questo contesto significa ‘in cui egli è io’ e che quindi conferma o chiarifica il significato di அனனிய பாவம் (aṉaṉiya-bhāvam). Cioè, ‘அவன் அகம் ஆகும் அனனிய பாவம்’ (avaṉ aham āhum aṉaṉiya-bhāvam) significa ‘meditazione senza altro, in cui egli è io’, così indica che ciò che Bhagavan intende con ananya-bhāva (‘meditazione senza altro’ o ‘meditazione che non è altro’) è solo meditazione su nient’altro che ‘io’, noi stessi, poiché ciò che è chiamato ‘Dio’ o ‘egli’ è realmente solo ‘io’.

Tuttavia alcune persone fraintendono il significato di ‘அவன் அகம் ஆகும் அனனிய பாவம்’ (avaṉ aham āhum aṉaṉiya-bhāvam) dichiarando che queste parole si riferiscono a sōham bhāvana, la pratica di meditazione sull’idea ‘egli è io’. Benché nella sua traduzione Sanscrita di questo verso Bhagavan ha tradotto ‘அவன் அகம் ஆகும்’ (avaṉ aham āhum) come ‘सोहम् इति’ (sōham iti), che significa ‘nel modo in cui egli è io’ o ‘così egli è io’, non intendeva che dovremmo meditare sull’idea ‘egli è io’ o sōham (che è un composto di saḥ, che significa ‘egli’, e aham, che significa ‘io’), perché come ogni altra idea anche questa è anya – qualcosa che è aliena, altra, differente o separata da noi stessi.

Ogni cosa che sperimentiamo solo temporaneamente non può essere noi stessi, così è anya o diverso da noi stessi, e quindi poiché non sperimentiamo in modo permanente alcun pensiero o idea, meditare su qualsiasi pensiero o idea non è ananya-bhāva ma solo anya-bhāva. Anche la meditazione sul pensiero di Dio o brahman è solo anya-bhāva, perché sebbene le parole ‘Dio’ e ‘brahman’ si riferiscono entrambe a ciò che siamo realmente, come parole o idee sono fenomeni temporanei, così sono anya o alieni a noi stessi. Poiché la sola cosa che non è diversa da noi stessi è noi stessi, ananya-bhāva o ‘meditazione su ciò che non è altro’ può solo significare meditazione soltanto su noi stessi e non su qualsiasi altra cosa.

Quindi dovremmo comprendere che in questo contesto le parole ‘அவன் அகம் ஆகும்’ (avaṉ aham āhum) in Tamil e ‘सोहम् इति’ (sōham iti) in Sanscrito non sono intese implicare che ananya-bhāva significhi meditazione su qualche idea come ‘egli è io’, ma sono solo intese indicare la convinzione con cui dovremmo meditare su nient’altro che noi stessi, vale a dire la convinzione che Dio (che è ciò che è indicato dalla parola ‘egli’) è solo noi stessi (che siamo ciò che è indicato dalla parola ‘io’).

Poiché ogni cosa diversa da noi stessi può essere sperimentata da noi solo nella veglia e nel sogno, in cui sperimentiamo noi stessi come questo ego o mente, è solo un fenomeno creato dalla nostra mente, e perciò non può essere ciò che è effettivamente indicato da parole come ‘Dio’ o ‘brahman’, che si riferiscono all’unica realtà infinita ed eterna dalla quale il nostro ego e tutte le sue creazioni sono sorte e nella quale devono tutte infine sprofondare, così meditare su qualsiasi cosa diversa da noi stessi non può essere meditazione su Dio come egli è realmente. Poiché Dio è la sola sorgente e sostanza del nostro ego e di ogni altra cosa, egli deve essere ciò che noi siamo realmente, così meditare soltanto su noi stessi è il solo modo in cui possiamo meditare su Dio come realmente è. Questo è il motivo per cui Bhagavan asserisce in questo verso che ananya-bhāva (meditazione su nient’altro che noi sessi) è certamente ‘la migliore fra tutte’.

Le parole finali in questo verso, ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), significano ‘la migliore di tutte’ o ‘la migliore fra tutte’, perché அனைத்தினும் (aṉaittiṉum) significa ‘di tutte’ o ‘fra tutte’, in modo particolare nel senso di ‘fra tutte le cose del suo genere’, e உத்தமம் (uttamam) è una forma Tamil della parola Sanscrita उत्तम (uttama), che significa migliore, più importante, più alto, più grande o più eccellente. In questo contesto ‘la migliore fra tutte’ implica sia la migliore fra tutte le pratiche di bhakti sia la migliore fra tutte le forme o varietà di meditazione. Così il significato di questo verso può essere espresso in modo più elaborato come segue:
Piuttosto che anya-bhāva [meditazione in cui Dio è considerate diverso da io], ananya-bhāva, in cui egli è [considerato non altri che] io, è certamente la migliore fra tutte [le pratiche di bhakti e le forme o varietà di meditazione].
Perché o rispetto a cosa ananya-bhāva è certamente la migliore fra tutte? E’ la migliore non solo perché è il solo modo in cui possiamo meditare su Dio come realmente è, poiché egli è realmente nient’altro che noi stessi, ma anche perché è più efficace nel purificare la nostra mente di ogni altra forma di meditazione o pratica spirituale (che comportano tutte il dare attenzione a qualcosa diversa da soltanto noi stessi). Quest’ultima implicazione è confermata da Bhagavan nella sua versione Sanscrita di questo verso, in cui ha tradotto அனைத்தினும் உத்தமம் (aṉaittiṉum uttamam) come ‘पावनी मता’ (pāvanī matā), che significa ‘considerato pulente’, ‘considerato purificante’ o ‘considerato purificatorio’.

Tuttavia, un altro particolare importante in cui ananya-bhāva è certamente la migliore fra tutte le pratiche di bhakti e di tutte le altre forme di pratica spirituale è che mentre tutte le altre pratiche sono azioni o karma, ananya-bhāva non è un’azione ma una cessazione o sprofondamento di tutte le azioni insieme con il loro agente, il nostro ego. Tutte le altre pratiche sono azioni perché comportano un movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi verso qualcos’altro, e facendo questo esse aiutano a sostenere l’illusione di essere questo ego, che è l’agente di tutte le azioni. Poiché ananya-bhāva è la sola pratica che non comporta alcun movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi, è la sola pratica che non è un’azione o karma, così essa solo è il mezzo per liberare noi stessi da tutte le azioni, e perciò è il கதி வழி (gati vaṙi) – la via, il sentiero o il mezzo per la liberazione a cui Bhagavan si è riferito nel verso 3 di Upadēśa Undiyār.

Ogni genere di azione o karma comporta attenzione-anya (attenzione a qualcosa diversa da noi stessi), perché se non avessimo sperimentato qualcosa diversa da noi stessi non potremmo né compiere né sperimentare alcuna azione. In attenzione-ananya (attenzione a nient’altro che noi stessi) c’è solo noi stessi e nessun’altra cosa, così non c’è assolutamente spazio perché accadano azioni di qualunque genere, perché l’azione richiede spazio in cui accadere, e non c’è spazio tra noi e noi stessi. Lo spazio in cui le azioni possono accadere o essere compiute è creato solo quando la nostra attenzione si muove lontano da noi stessi verso qualsiasi altra cosa, così l’attenzione-anya non è solo un’azione ma anche ciò che fa sorgere tutte le altre azioni. Quindi se vogliamo determinare una cessazione di tutta l’attività o karma, dobbiamo abbandonare tutta l’attenzione-anya e aggrapparci saldamente solo all’attenzione-ananya.

Nella filosofia advaita l’attività è chiamata pravṛtti che è un termine che significa anche sorgere, uscire, andare avanti, avanzare, continuare, esercitare, apparenza o manifestazione, mentre l’inattività è chiamata nivṛtti, che significa anche ritornare, tornare indietro, ritirarsi, trattenersi, sospendere, terminare, cessare, cessazione o scomparsa. Per compiere ogni azione dobbiamo sorgere e uscire, lontano da noi stessi, e perciò tutta l’azione è diretta verso qualcosa diversa da noi stessi. Nessuna azione può essere diretta verso noi stessi come siamo realmente, perché appena rivolgiamo la direzione o flusso della nostra attenzione indietro verso noi stessi, lontano da tutte le altre cose, iniziamo a sprofondare in noi stessi e così tutte le attività cessano. Quindi ogni forma di attenzione-anya è una pravṛtti perché ci conduce lontano da noi stessi nell’oceano dell’attività incessante, mentre l’attenzione-ananya è nivṛtti perché ci conduce a noi stessi, lontano da tutta l’attività.

Quindi ananya-bhāva (meditazione su nient’altro che noi stessi) è il culmine o l’apice di tutte le pratiche di bhakti e di tutte le altre forme di pratica spirituale (come Bhagavan intende chiaramente nel verso 10), così altre pratiche son utili e benefiche solo nella misura in cui aiutano a condurci a questa pratica finale di semplice auto-attentività o meditazione soltanto su noi stessi. Non importa quanto può essere intensa la nostra devozione a Dio, e non importa quanto diligentemente possiamo compiere ogni altro tipo di pratica spirituale, non saremo in grado di ottenere il fine ultimo della liberazione o di fondersi nella sorgente dalla quale siamo sorti come questo ego se non rivolgiamo la nostra intera attenzione all’interno per meditare soltanto su noi stessi, perché qualsiasi altra cosa possiamo fare è da noi compiuta come questo ego o mente, così sosterrà la nostra illusione che questo ego o mente sia noi stessi.

Benché ananya-bhāva o rivolgere la nostra intera attenzione all’interno per meditare soltanto su noi stessi sia iniziata da noi come questo ego, appena diamo attenzione a noi stessi, noi come questo ego iniziamo a sprofondare e a dissolverci in noi stessi come siamo realmente, così come Bhagavan ha scritto nelle prime frasi del sesto e ottavo paragrafo di Nāṉ Yār?:
நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்.

nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum.

Solo con l’investigazione chi sono io la mente sprofonderà [o cesserà di esistere].

மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை. மற்ற உபாயங்களினால் அடக்கினால் மனம் அடங்கினாற்போ லிருந்து, மறுபடியும் கிளம்பிவிடும்.

maṉam aḍaṅguvadaṟku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai. maṯṟa upāyaṅgaḷiṉāl aḍakkiṉāl maṉam aḍaṅgiṉāl-pōl irundu, maṟupaḍiyum kiḷambi-viḍum.

Per far cessare la mente [permanentemente], non ci sono altri mezzi adeguati tranne vicāraṇā [auto-investigazione]. Se fatta cessare con altri mezzi, la mente rimarrà come se fosse cessata, [ma] si manifesterà nuovamente.
Quindi conoscendo questo per esperienza propria Bhagavan fu in grado di affermare con fiducia che ananya-bhāva è certamente la migliore fra tutte le pratiche bhakti e tutte le altre forme di pratica spirituale. Qualsiasi altra cosa possiamo fare al di fuori del nostro amore per Dio è un karma, così abbiamo bisogno di farlo senza kāmyatā o qualsiasi senso di desiderio per il suo frutto, e perciò abbiamo bisogno di avere l’atteggiamento che il suo frutto è un’offerta a Dio, ma poiché ananya-bhāva o ātma-vicāra non è un karma e quindi non ha frutto, non abbiamo bisogno di avere una tale attitudine mentre la pratichiamo. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è semplicemente dare attenzione soltanto a noi stessi, perché facendo questo stiamo affidando completamente noi stessi a Dio, l’unica realtà dalla quale siamo emersi come questo ego e nella quale stiamo ora sprofondando.

Il fatto che ananya-bhāva non è un’azione o karma ma solo una completa cessazione non solo di tutto il nostro karma ma anche di noi stessi come questo ego, che è sorto per compiere karma, è chiaramente indicato da Bhagavan nei successivi due versi di Upadēśa Undiyār.

9. Upadēśa Undiyār verso 9: meditando su noi stessi sprofonderemo nel nostro reale stato di essere

Nel verso 9 di Upadēśa Undiyār Bhagavan intende chiaramente che meditando su nient’altro che noi stessi sprofonderemo nel nostro stato naturale di essere, che trascende tutti i pensieri o attività mentali, e dichiara che solo essere in questo stato è suprema devozione o parabhakti:
பாவ பலத்தினாற் பாவனா தீதசற்
பாவத் திருத்தலே யுந்தீபற
      பரபத்தி தத்துவ முந்தீபற.

bhāva balattiṉāṯ bhāvaṉā tītasaṯ
bhāvat tiruttalē yundīpaṟa
      parabhatti tattuva mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: பாவ பலத்தினால் பாவனாதீத சத் பாவத்து இருத்தலே பரபத்தி தத்துவம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): bhāva balattiṉāl bhāvaṉātīta sat-bhāvattu iruttal-ē para-bhatti tattuvam.

Traduzione: Con la forza della meditazione, essere in sat-bhāva, che trascende bhāvana, è certamente parabhakti tattva.
பலத்தினால் (balattiṉāl) è una forma strumentale di பலம் (balam), che è una parola di origine Sanscrita che significa potere, forza, vigore, intensità fermezza e stabilità, così பலத்தினால் (balattiṉāl) significa con il potere, la forza, l’intensità, la fermezza o la stabilità. In questo contesto பாவ பலத்தினால் (bhāva balattiṉāl) significa ‘con la forza della meditazione’ e significa con la forza, l’intensità o la fermezza della meditazione esaltata nel verso precedente, vale a dire ananya-bhāva o auto-attentività.

பாவனாதீத (bhāvaṉātīta) significa ‘bhāvana-trascendente’ o ‘che trascende bhāvana’, e in questo contesto bhāvana’ significa pensare, pensiero, immaginazione o meditazione. Poiché சத் (sat) significa essere, esistenza, verità o realtà e பாவம் (bhāvam) significa essere o stato, சற்பாவம் (saṯbhāvam) o சத் பாவம் (sat-bhāvam) può significare ‘stato di essere’ o ‘essere reale’, ma sebbene entrambi i significati sarebbero appropriati in questo contesto, esso generalmente significa ‘stato di essere’. பாவத்து (bhāvattu) è una base flessiva di பாவம் (bhāvam), ma è usata qui per rappresentare il suo caso locativo, così பாவனாதீத சத் பாவத்து (bhāvaṉātīta sat-bhāvattu) significa ‘nello stato di essere, che trascende bhāvana [pensare, immaginazione o meditazione]’.

இருத்தலே (iruttalē) è una forma intensificata di இருத்தல் (iruttal), che è un sostantivo verbale che significa essere, esistere, rimanere, dimorare, collocare, riposarsi o sprofondare, così இருத்தலே (iruttalē) significa ‘essere certamente’ o ‘essere solo’. பரபத்தி (parabhatti) è una forma Tamil di परभक्ति (parabhakti), che significa ‘devozione suprema’, e தத்துவம் (tattuvam) è una forma Tamil di तत्त्व (tattva), che significa letteralmente ‘essoità’ o ‘quelloità’ ma che è usato in un’ampia varietà di sensi come verità, realtà, vero stato, natura essenziale, essenza reale o qualsiasi principio vero o fondamentale, così பரபத்தி தத்துவம் (parabhatti tattuvam) significa la reale essenza o vero stato di devozione suprema. Dunque il significato di questo verso può essere espresso in modo più elaborato come segue:
Con la forza [l’intensità, la fermezza o la stabilità] di [tale] meditazione [ananya-bhāva o auto-attentività], essere in sat-bhāva [il nostro ‘stato di essere’ o ‘essere reale’], che trascende [tutto] il bhāvana [pensiero, immaginazione o meditazione], è certamente [o è solo] parabhakti tattva [la reale essenza o vero stato di devozione suprema].
Come Bhagavan spiega nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu (che abbiamo considerato sopra nella sezione 6a), sorgiamo, ci reggiamo, ci alimentiamo e prosperiamo come questo ego solo ‘afferrando la forma’, che implica con attenzione-anya – cioè, dando attenzione o essendo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, Quindi il nostro stato naturale di solo essere sembra essere disturbato e tutta l’azione o karma inizia solo come un risultato del nostro dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, Quando dimoriamo nel nostro sat-bhāva o stato reale di essere senza sorgere come un ego, niente altro che noi stessi sembra esistere, ma appena sorgiamo come questo ego proiettiamo e diveniamo consapevoli di altre cose, e così la nostra attenzione inizia a muoversi lontano da noi stessi verso quelle altre cose.

La prima azione è quindi il sorgere di noi stessi come questo ego, e questa azione primaria è sempre accompagnata da un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, che è ugualmente un’azione, e che conduce incessantemente ai suoi ulteriori movimenti da una cosa a un’altra. Quindi finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi siamo intrappolati nell’attività mentale, che a sua volta fa sorgere azioni della nostra voce e del nostro corpo. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 24 di Uḷḷadu Nāṟpadu che il nostro ego o mente è ciò che è chiamato saṁsāra, che significa muoversi, scorrere, vagare o girare (essendo un sostantivo derivato dal verbo saṃsṛ, una forma intensificata di sṛ, che significa andare, muoversi, scorrere, vagare o girarsi interamente), e che quindi implica un movimento perpetuo o un’attività inquieta.

Quindi non possiamo rimanere fermi finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così ogni forma di anya-bhāva (meditazione su nient’altro che noi stessi) comporta lo sprofondamento della nostra mente e di tutta la sua attività. Più la nostra anya-bhāva diviene intensa, ferma e stabile, più sprofondiamo all’interno di noi stessi, come Bhagavan intende in questo verso dicendo ‘பாவ பலத்தினால் பாவனாதீத சத் பாவத்து இருத்தலே’ (bhāva balattiṉāl bhāvaṉātīta sat-bhāvattu iruttalē), che significa ‘solo essere nello stato di essere che trascende il pensiero con la forza di [ananya] bhāva’.

Qui பாவ பலத்தினால் (bhāva balattiṉāl), ‘con la forza della meditazione’, implica con l’intensità o la fermezza della nostra auto-attentività; சத் பாவத்து இருத்தலே (sat-bhāvattu iruttalē), ‘solo essere nello stato di essere’, implica sprofondare e dimorare fermamente nel nostro vero stato di essere, che è la sorgente dalla quale sorgiamo come questo ego; e பாவனாதீத (bhāvaṉātīta), ‘che trascende il pensiero’, implica che il nostro vero stato d essere è completamente privo di ogni pensare o immaginare. In questo contesto bhāvana significa pensare, immaginare o meditazione nel senso di pensare o dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così essa indirettamente si riferisce a ogni forma di anya-bhāva.

Quando all’inizio cerchiamo di essere auto-attentivi, può sembrare che stiamo cercando di rendere noi stessi l’oggetto della nostra attenzione, ma presto scopriamo che non possiamo dare attenzione a noi stessi nello stesso modo in cui diamo attenzione ad altre cose, perché noi siamo il soggetto e non possiamo mai essere un oggetto della nostra esperienza. Tuttavia, benché non siamo un oggetto, in un certo senso possiamo dare attenzione a noi stessi, sebbene non oggettivamente, perché siamo sempre consapevoli di noi stessi, così possiamo scegliere o di essere attentivamente auto-consapevoli o negligentemente auto-consapevoli. Come questo ego siamo in genere negligentemente auto-consapevoli, perché siamo più interessati a sperimentare altre cose che a sperimentare soltanto noi stessi, così permettiamo alla nostra attenzione di essere distratta lontano da noi stessi verso altre cose.

Quando investighiamo noi stessi cercando di osservare o dare attenzione soltanto a noi stessi, ciò che stiamo realmente cercando di fare è di essere più possibile attentivamente auto-consapevoli. Quindi ciò che è chiamata auto-investigazione (ātma-vicāra), meditazione di noi stessi (svarūpa-dhyāna), meditazione su ciò che non è altro (ananya-bhāva), pensare a noi stessi (ātma-cintanā), auto-ricordo (svarūpa-smaraṇa), guardare verso noi stessi (ahamukham), auto-osservazione, auto-attenzione, auto-attentività e così via è solo essere attentivamente auto-consapevoli.

Essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un’azione, perché comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi verso qualunque cosa di cui siamo consapevoli, mentre essere auto-consapevoli non è un’azione, sia perché non comporta nessun movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, sia perché essere auto-consapevoli è la nostra vera natura. Quindi tutto ciò che essere attentivamente auto-consapevoli comporta è ritirare la nostra attenzione lontano da ogni altra cosa e riportarla a riposare in noi stessi e come noi stessi. Una volta che abbiamo ritirato la nostra attenzione da altre cose e le abbiamo permesso di riposare in noi stessi come pura auto-consapevolezza, siamo nel nostro sat-bhāva o vero stato di essere, come Bhagavan lo descrive in questo verso.

Quindi ciò che Bhagavan chiama ‘சத் பாவத்து இருத்தலே’ (sat-bhāvattu iruttalē) o ‘solo essere nello stato di essere’ non comporta altro che essere attentivamente auto-consapevoli – cioè, consapevoli di nient’altro che soltanto noi stessi. Quindi più ferma e intensa diviene la nostra ananya-bhāva o auto-attentività, più siamo solo nel nostro sat-bhāva, che è il nostro stato naturale di essere consapevoli di nient’altro che noi stessi.

Praticando qualsiasi forma di anya-bhāva stiamo perpetuando il karma, mentre praticando ananya-bhāva ci stiamo trattenendo dal compiere ogni karma e di conseguenza stiamo, per così dire, arrestando tutto il karma nel suo percorso. Poiché la nostra vera natura è solo essere senza azione, non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente compiendo qualsiasi karma (come Bhagavan asserisce inequivocabilmente nel verso 2 di Upadēśa Undiyār), così possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo essendo come siamo realmente, e possiamo precisamente essere come siamo realmente solo con la forza, la fermezza o la stabilità della nostra ananya-bhāva o auto-attentività.

Praticando ogni forma di anya-bhāva stiamo perpetuando non solo il karma ma anche il nostro ego, che è la radice di tutto il karma, perché possiamo essere consapevoli di qualsiasi cosa che è anya o diversa da noi stessi, solo quando ci sperimentiamo come questo ego. Cioè, quando sperimenteremo noi stessi come siamo realmente conosceremo chiaramente che solo noi esistiamo, così non possiamo essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi – neppure l’esistenza apparente di ogni altra cosa. Quindi anya-bhāva (essere consapevoli di nient’altro che solo noi stessi) è il solo mezzo con cui possiamo essere liberati sia dal karma sia dalla sua radice, la nostra illusione di essere questo ego.

Perciò ananya-bhāva è il solo mezzo con cui possiamo arrendere interamente il nostro ego, come Bhagavan intende chiaramente nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso da ātma-cintanā [auto-contemplazione o ‘pensiero di se stessi’], è dare se stessi a Dio.
Quando diamo attenzione a nient’altro che noi stessi, il nostro ego sprofonda nel nostro stato naturale di essere o sat-bhāva, così ciò che Bhagavan descrive in questo verso come ‘பாவனாதீத சத் பாவத்து இருத்தலே’ (bhāvaṉātīta sat-bhāvattu iruttalē) o ‘solo essere nello stato di essere che trascende il pensiero’ è lo stato di completo auto-abbandono, e perciò egli dice che essa è பரபத்தி தத்துவம் (parabhatti tattuvam), l’essenza reale o vero stato di devozione suprema.

10. Upadēśa Undiyār verso 10: sprofondare ed essere nella nostra sorgente è karma, bhakti, yōga e jñāna

Sprofondare ed essere nel nostro sat-bhāva che trascende il pensiero o vero stato di essere, che è la sorgente dalla quale sorgiamo come questo ego, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, che è la radice di tutti gli altri pensieri, non è solo parabhakti (devozione suprema) ma anche il culmine e il fine ultimo di tutti gli altri tre mārga o sentieri spirituali, vale a dire karma mārga (il sentiero di niṣkāmya karma discusso dal verso 3 al verso 7), yōga mārga (il sentiero dello yōga discusso dal verso 11 al verso 14) e jñāna mārga (il sentiero della conoscenza discusso dal verso 15 al verso 30), come Bhagavan dice nel verso 10 di Upadēśa Undiyār:
உதித்த விடத்தி லொடுங்கி யிருத்த
லதுகன்மம் பத்தியு முந்தீபற
      வதுயோக ஞானமு முந்தீபற.

uditta viḍatti loḍuṅgi irutta
ladukaṉmam bhattiyu mundīpaṟa
       vaduyōga jñāṉamu mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உதித்த இடத்தில் ஒடுங்கி இருத்தல்: அது கன்மம் பத்தியும்; அது யோகம் ஞானமும்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uditta iḍattil oḍuṅgi iruttal: adu kaṉmam bhatti-y-um; adu yōgam jñāṉam-um.

Traduzione: Sprofondare ed essere nel luogo dal quale [uno] è sorto: quello è karma e bhakti; quello è yōga e jñāna.
உதித்த (uditta) è un participio relativo di உதி (udi), che è un verbo di origine Sanscrita che significa sorgere, avere origine, apparire, spuntare, originare, iniziare o ascendere, così உதித்த (uditta) significa ‘che è sorto’ o in questo caso ‘dal quale [uno] è sorto’. இடத்தில் (iḍattil) è una forma locativa di இடம் (iḍam), che significa ‘luogo’ ma che in questo caso è usata in un senso metaforico per intendere sorgente o origine, così உதித்த இடத்தில் (uditta iḍattil) significa ‘nel luogo dal quale [uno] è sorto’ e implica ‘in noi stessi, che siamo la sorgente dalla quale siamo sorti come questo ego’.

ஒடுங்கி (oḍuṅgi) è un participio relativo che significa sprofondare, affondare, acquietare o cessare, e இருத்தல் (iruttal) è un sostantivo verbale che significa essere, esistere, rimanere o dimorare, così ஒடுங்கி இருத்தல் (oḍuṅgi iruttal) significa ‘sprofondare ed essere’ (nel senso di prima sprofondare e poi essere) o ‘essere essendo sprofondati’. Poiché non possiamo essere sorti o aver avuto origine come questo ego da qualche luogo diverso da noi stessi, questa frase உதித்த இடம் (uditta iḍam) si riferisce solo a noi stessi, come anche la frase சத் பாவம் (sat-bhāvam) usata nel verso precedente, così ‘உதித்த இடத்தில் ஒடுங்கி இருத்தல்’ (uditta iḍattil oḍuṅgi iruttal), ‘sprofondare ed essere nel luogo dal quale [uno] è sorto’, ha lo stesso significato di ‘சத் பாவத்து இருத்தலே’ (sat-bhāvattu iruttalē), ‘solo essere nello stato di essere’, vale a dire essere in e come ciò che sempre siamo realmente.

Come Bhagavan ha indicato nel verso precedente, il solo mezzo con cui possiamo essere come siamo realmente è un intenso, fermo e stabile ananya-bhāva – essere attentivamente consapevoli di nient’altro che noi stessi. Così l’implicazione generale dei versi 8, 9 e 10 è che ananya-bhāva o auto-attentività è la migliore fra tutte le forme di pratica spirituale perché è il solo mezzo con cui possiamo sprofondare in noi stessi ed essere fermamente stabiliti come noi stessi, la sorgente dalla quale abbiamo apparentemente avuto origine come questo ego. Sprofondare per l’intensità della nostra auto-attentività ed essere quindi fermamente stabiliti nel nostro vero stato di essere è il culmine e il fine ultimo di tutti i quattro sentieri o varietà di pratica spirituale, vale a dire karma mārga, bhakti mārga, yōga mārga e jñāna mārga, ed è anche lo stato di assoluto auto-abbandono, che è chiamato parabhakti o devozione suprema.

11. Analisi dei vari tipi di bhakti

Avendo studiato attentamente il panorama delle varie pratiche di bhakti mārga e la relativa efficacia di ciascuna, forniti da Bhagavan dal verso 3 al verso 10 di Upadēśa Undiyār, consideriamo ora come questo può essere applicato al commento di Viswanathan in risposta al quale ho iniziato a scrivere questo articolo, vale a dire ‘Sento che se uno continua con fede totale in qualsiasi sentiero stia percorrendo, sia esso Bhakti Margam o Jnana Margam, la destinazione sarà la stessa – realizzazione di sé. […] mi sembra che può essere solo una divisione illusoria nella propria mente che i due sentieri siano differenti o che un sentiero sia tortuoso e l’altro sentiero più breve’.

Come abbiamo visto nella seconda sezione sopra, tutte le pratiche compiute nel nome della bhakti possono essere divise in due ampie categorie, vale a dire kāmya bhakti (devozione praticata per ottenere qualche obiettivo desiderato) e niṣkāmya bhakti (devozione pratica per nessun motivo ulteriore ma solo per amore di Dio), e solo pratiche del secondo genere appartengono propriamente al bhakti mārga, perché esse sono motivate da vero amore di Dio, mentre pratiche del primo genere sono motivate non dall’amore di Dio ma solo dall’amore di qualsiasi cosa si desidera ottenere da lui. Poi come indicato da Bhagavan nel verso 8 di Upadēśa Undiyār, le pratiche di niṣkāmya bhakti possono essere ulteriormente suddivise in due tipi, anya bhakti (devozione a Dio come se fosse qualcosa diversa da noi stessi) e ananya bhakti (devozione a Dio come nessun’altro che noi stessi).

Le varie pratiche di anya bhakti comportano ciascuna il compiere qualche azione o karma con il nostro corpo, la parola o la mente, come sottolineato da Bhagavan dal verso 4 al verso 7 di Upadēśa Undiyār, e quindi nessuno di essi è un mezzo diretto per la liberazione, ma è un mezzo con cui la nostra mente può essere purificata in una certa misura e può quindi essere messa in grado di vedere qual'è realmente il mezzo diretto per la liberazione. Quindi benché queste pratiche ci conducano indirettamente verso lo stesso fine dell’auto-investigazione (ātma-vicāra), esse sono chiaramente distinte da essa, perché comportano il dare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi, mentre l’auto-investigazione comporta il dare attenzione a nient’altro che noi stessi.

Solo la pratica di ananya bhakti è realmente la stessa pratica di ātma-vicāra, perché entrambe non comportano assolutamente azione del corpo, della parola o della mente ma solo attenzione a nient’altro che noi stessi. Quindi l’idea di Viswanathan che ‘può essere solo una divisione illusoria nella propria mente che i due sentieri siano differenti o che un sentiero sia tortuoso e l’altro sentiero più breve’ è vero riguardo alla pratica di ananya bhakti ma non lo è riguardo ad ognuna delle pratiche di anya bhakti.

11a. L’analisi della bhakti di Sadhu Om

In accordo a ciò che Bhagavan ci ha insegnato dal verso 2 al verso 10 di Upadēśa Undiyār, finora in questo articolo ho distinto prima di tutto kāmya bhakti dalla vera niṣkāmya bhakti, e in secondo luogo le pratiche di anya bhakti dalle più efficaci pratiche di ananya bhakti. Questa semplice analisi della bhakti è sufficiente per lo scopo di questo articolo, ma un’analisi della bhakti, più dettagliata e molto utile, è stata data da Sri Sadhu Om nel secondo capitolo della parte supplementare di Il Sentiero di Sri Ramana, così darò qui una breve visione generale della sua analisi e spiegherò come essa si collega alla mia molto più semplice analisi.

Sadhu Om spiega la sua analisi in termini di un’analogia, vale a dire i differenti modelli, gradi o forme attraverso le quali un bambino progredisce a scuola, ed egli quindi si riferisce alla sua struttura analitica come la scuola della bhakti, che ha cinque modelli, il terzo dei quali è diviso in due stadi distinti. Ciascuno di questi modelli rappresenta un certo tipo di devozione religiosa o spirituale che caratterizza uno stadio particolare nello sviluppo spirituale di un individuo attraverso il corso di molte vite.

Il primo modello è caratterizzato dalla fede in azioni rituali – una fede che attribuisce così tanta importanza a tali azioni da tralasciare Dio, il reale potere che ordina i frutti dell’azione. Questo è il tipo di fede che fu personificato dai così detti ṛṣis (rishi) o ‘asceti’ che vivevano nella foresta Daruka, la cui storia ha formato il contesto in cui Bhagavan ha composto Upadēśa Undiyār, e il cui credo che non c’è Dio tranne il karma fu da lui ripudiato enfaticamente nel primo verso.

Il secondo modello è caratterizzato dalla fede in molte deità differenti (come i molti nomi e forme in cui Dio è adorato nella religione Hindu, o i molti santi a cui può pregare un devoto Cattolico o un Cristiano Ortodosso), ciascuna delle quali si presume abbia un potere particolare per soddisfare un particolare tipo di desiderio o di evitare un tipo particolare di male.

Il terzo modello è caratterizzato dalla fede e dalla devozione focalizzata solo a un nome e una forma particolare di Dio. Tuttavia, questo terzo modello è diviso in due stadi, modello 3(a) e 3(b), perché è in questo terzo modello che il cambiamento del cuore più significativo ha luogo all’interno di ogni persona.

Cioè, nei modelli 1, 2 e 3(a), la devozione di una persona non è reale devozione a Dio, ma solo devozione al beneficio materiale e personale che essa spera di ottenere dalle proprie azioni rituali, adorazioni o preghiere. In altre parole, è kāmya bhakti – devozione praticata solo per soddisfare desideri personali. Questo è lo spirito di devozione con cui la maggior parte delle persone religiose pratica le loro rispettive religioni.

Tuttavia, quando pratichiamo questa kāmya bhakti per molte vite, la nostra mente otterrà gradualmente maturità spirituale – la chiarezza mentale che ci permette di discriminare e comprendere che la vera felicità non si trova nella soddisfazione dei nostri desideri personali – fino a che negli stadi finali del modello 3(a) giungiamo a comprendere che la reale sorgente della nostra felicità non è nessuno dei benefici che cerchiamo di ottenere da Dio, ma solo Dio stesso, che ha così tanto amore per noi da esaudire le nostre preghiere e desideri. Così progrediamo dalla kāmya bhakti del modello 3(a) alla niṣkāmya bhakti del modello 3(b) – cioè, la vera devozione a Dio, non per il fine di qualsiasi cosa che possiamo ottenere da lui, ma solo per il suo proprio fine.

E’ in un momento appropriato in questo stadio del nostro sviluppo spirituale che Dio appare nella nostra vita nella forma del guru, per insegnarci la verità che la felicità non esiste all’esterno di noi – neppure nel Dio onniamorevole che immaginiamo come diverso da noi stessi – ma solo in noi stessi, come noi stessi. Così nella forma del guru Dio ci insegna che la sua vera forma è solo il nostro sé essenziale, e quindi ci dirige a rivolgere la nostra mente all’interno per sperimentare soltanto noi stessi. Se abbiamo già ottenuto una purezza mentale sufficiente, come risultato del nostro amore dualistico per Dio, appena udiamo questo insegnamento rivolgeremo la nostra attenzione interiormente e ci fonderemo in noi stessi come siamo realmente, ma la maggior parte di noi non ha ancora una purezza mentale sufficiente, così piuttosto che fonderci immediatamente in noi stessi, deviamo il nostro primo amore per una forma esteriore di Dio, verso la forma esteriore del nostro guru e dei suoi insegnamenti. Questo amore per il nostro guru e i suoi insegnamenti è guru-bhakti, che è il quarto modello in questa scuola di bhakti.

Tuttavia, nella misura in cui abbiamo reale amore per il nostro guru e i suoi insegnamenti, non saremo soddisfatti praticando solo qualche forma di devozione dualistica verso di lui ma cercheremo anche di mettere in pratica i suoi insegnamenti tentando più possibile di essere auto-attentivi. Dunque in questo quarto modello progrediremo gradualmente dall’amore dualistico (anya bhakti) all’amore non-dualistico (ananya bhakti), finché come risultato dell’intensità della nostra pratica persistente di auto-investigazione e auto-abbandono, il nostro amore per il nostro guru fiorirà infine in pura ananya bhakti o svātma-bhakti (amore per il nostro sé), che è l’apice dell’amore. Questo amore senza alterità per Dio e il guru come il proprio sé è il quinto e finale modello nella scuola della bhakti, ed è ciò che Bhagavan descrive come parabhakti tattva (l’essenza reale della devozione suprema), lo stato di solo essere in e come bhāvanātīta sat-bhāva (lo stato di essere, che trascende tutto il pensiero).

11b. Anya bhakti e ananya bhakti possono essere reciprocamente pratiche di supporto

Benché ci sia una distinzione chiara sia tra kāmya bhakti e niṣkāmya bhakti sia tra anya bhakti e ananya bhakti, il nostro progresso prima da kāmya bhakti a niṣkāmya bhakti (nel terzo modello) e poi da anya bhakti a ananya bhakti (nel quarto modello) generalmente non accade istantaneamente ma solo gradualmente. Per esempio, se siamo nel terzo modello della scuola della bhakti e la nostra devozione a Dio sta iniziando a svilupparsi dall’essere kāmya bhakti (modello 3(a)) ad essere niṣkāmya bhakti (modello 3(b)), la nostra devozione per un po’ oscillerà probabilmente tra i due. Benché sappiamo che dovremmo pregare Dio per nient’altro che un sempre crescente amore per lui e benché vogliamo farlo, quando nella nostra vita affrontiamo qualche dura difficoltà ancora tenderemo a deviare alla nostra vecchia abitudine di pregarlo per alleviare le nostre difficoltà o per fornire una soluzione ai nostri problemi.

Nello stesso modo per la maggior parte di noi, nel quarto modello, il nostro progresso da anya bhakti a ananya bhakti sarà un processo graduale. Ci piacerebbe essere in grado di essere auto-attentivi in modo vigilante e incessante, ma la forza delle nostre viṣaya-vāsanā profondamente radicate (i nostri desideri o inclinazioni a sperimentare cose diverse da se stessi) continua a tirare la nostra mente al di fuori verso altre cose, così lottiamo nel nostro sforzo di essere auto-attentivi almeno per un momento o due più frequentemente possibile. In una simile situazione, ogni volta che sentiamo che non stiamo riuscendo nel nostro sforzo, ci rivolgiamo naturalmente a Bhagavan nella sua forma esteriore come guru, pregandolo di darci amore sempre crescente per essere auto-attentivi e quindi per liberare noi stessi dalle nostre attive vāsanā. Quando riusciamo ad essere auto-attentivi, stiamo praticando ananya bhakti, e quando facciamo ricorso a Bhagavan per il suo aiuto stiamo praticando anya bhakti.

Se qualunque cosa per cui preghiamo Bhagavan è essenzialmente solo l’amore per rivolgerci interiormente e fonderci in lui come noi stessi, la nostra anya bhakti sta supportando il nostro tentativo di coltivare vera ananya bhakti. Nello stesso modo, poiché più intensamente cerchiamo di essere auto-attentivi, più aumenterà il nostro desiderio di esserlo, così più intensamente pregheremo Bhagavan per il suo aiuto ogni volta che ci troveremo a non riuscire nei nostri tentativi. Di conseguenza nel nostro stato attuale di guru-bhakti (il quarto modello), le nostre anya e ananya bhakti non sono necessariamente mutualmente esclusive ma possono invece essere mutualmente di supporto.

Questo è ben illustrato da tutte le preghiere che Bhagavan ha scritto in Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam, e leggendo i versi in questa serie dei suoi scritti, possiamo vedere con che bellezza, naturalezza e continuità egli ha mescolato insieme forme di bhakti dualistica e non dualistica. Una simile mescolanza può anche essere vista nelle migliaia di versi che devoti come Sri Muruganar e Sri Sadhu Om hanno scritto glorificandolo. Sebbene essi espressero le loro preghiere in parole così differenti, ciò per cui essi pregavano essenzialmente era solo l’amore di rivolgersi all’interno e annegare per sempre in lui, l’unica infinita auto-consapevolezza, al di fuori della quale niente esiste realmente. Per esempio, nel verso 138 di Śrī Ramaṇa Sahasram (un poema di un migliaio di versi in lode di jñāna) Sadhu Om ha pregato:
அந்தர்முக மன்றிவர மாயிரநான் கேட்டாலு
மெந்த பிறவரங்க ளென்னையுள்ளே — யுந்தியிழுத்
தோய்வுதரச் சற்று முதவா திடையூறா
யாவதோவஃ தீயா தருள்.

antarmukha maṉḏṟivara māyiranāṉ kēṭṭālu
menda piṟavaraṅga ḷeṉṉaiyuḷḷē — yundiyiṙut
tōyvudarac caṯṟu mudavā diḍaiyūṟā
yāvadōvaḵ dīyā daruḷ
.

பதச்சேதம்: அந்தர்முகம் அன்றி வரம் ஆயிரம் நான் கேட்டாலும், எந்த பிற வரங்கள் என்னை உள்ளே உந்தி இழுத்து ஓய்வு தர சற்றும் உதவாது இடையூறாய் ஆவதோ, அஃது ஈயாது அருள்.

Padacchēdam (separazione delle parole): antarmukham aṉḏṟi varam āyiram nāṉ kēṭṭālum, enda piṟa varaṅgaḷ eṉṉai uḷḷē undi iṙuttu ōyvu tara caṯṟum udavādu iḍaiyūṟāy āvadō, aḵdu īyādu aruḷ.

Traduzione: Anche se chiedo un migliaio di favori diversi da antarmukham [guardare verso l’interno], qualunque altro favore diventerebbe un ostacolo, non aiutando neppure un po’ a dare riposo [cessazione o termine] spingendomi e tirandomi interiormente, ti prego di non concedermi quello.
Naturalmente la nostra anya bhakti nella forma di preghiera a Bhagavan per il suo aiuto o di ripetere il suo nome o pensare alla sua forma con desiderio per la sua grazia non è un sostituto adeguato al cercare di essere auto-attentivi. Se vogliamo realmente il suo aiuto, dovremmo fare tutto quello che possiamo per aiutare noi stessi nel cercare di essere auto-attentivi, perché se non cerchiamo noi stessi sinceramente e seriamente di essere auto-attentivi, non c’è utilità nel chiedere il suo aiuto. Il modo più efficace di pregare per il suo aiuto è cercare per quanto ci è possibile di essere auto-attentivi. Solo allora la nostra attività dualistica di pregarlo esteriormente per il suo aiuto sarà genuina, intensa e accorata.

Qualunque altra cosa possiamo fare come espressione del nostro amore per il nostro guru, Bhagavan Ramana, la nostra pratica principale e centrale dovrebbe essere cercare di essere auto-attentivi, perché è solo con l’intensità della nostra auto-attentività (che è ciò che egli ha chiamato bhāva balam nel verso 9 di Upadēśa Undiyār) che possiamo sprofondare all’interno di noi stessi, la sorgente dalla quale siamo sorti, e quindi essere nel nostro bhāvanātīta sat-bhāva (stato di essere, che trascende tutto il pensiero). Tutte le nostre preghiere e altre attività devozionali sono utili solo nella misura in cui ci aiutano nel nostro sforzo di essere sempre più fermamente auto-attentivi.

La misura in cui ciascuno di noi include preghiere o qualsiasi altra attività devozionale nella propria pratica spirituale può variare nel tempo, e per alcuni di noi tali attività possono giocare un ruolo più importante che per altri. Ciò che è essenziale, comunque, è solo che cerchiamo più possibile di essere auto-attentivi, così preghiere o altre attività devozionali sono un’opzione supplementare, che può essere più attraente per alcuni che per altri. Rispetto a questo non ci sono regole rigide. Alcuni aspiranti possono trovare che la loro mente non è attirata da tali attività, nel qual caso è sufficiente se essi perseverino nel cercare di essere auto-attentivi, mentre altri aspiranti possono trovare che pregare o compiere altre attività devozionali è un supporto molto importante e necessario nei loro tentativi di essere auto-attentivi.

11c. Cos’è una preghiera?

Il termine ‘preghiera’ è generalmente compreso nel significato di chiedere a Dio in parole, vocalmente o mentalmente, perché faccia qualsiasi cosa vogliamo che faccia per noi stessi o per altri, ma ciò che la preghiera è essenzialmente è solo una brama, una richiesta o un desiderio intenso per qualcosa, di conseguenza non ha bisogno di essere necessariamente espresso in parole. Se abbiamo desiderio intenso di rivolgerci interiormente e sprofondare nella più interna profondità di noi stessi, quel desiderio è una preghiera, sia che lo esprimiamo o meno vocalmente o mentalmente in parole. Questo è il motivo per cui ho scritto nella sottosezione precedente, ‘Il modo più efficace di pregare per il suo aiuto è cercare quanto più possibile di essere auto-attentivi’, e perché in risposta a qualcuno che gli chiese, ‘Se abbandono me stesso, non è necessaria la preghiera a Dio?’ Bhagavan disse, ‘Abbandonare se stessi è una potente preghiera’ (come registrato in Maharshi’s Gospel, Libro 2, capitolo 2. Edizione 2002, pagina 56).

Poeti come Bhagavan, Muruganar e Sadhu Om hanno espresso le loro preghiere in versi bellissimi e toccanti, e perciò essi ci hanno insegnato ciò a cui dovremmo ambire, ma questo non significa che abbiamo bisogno di esprimere il nostro desiderio in parole. Qualche volta leggere o recitare i loro versi di preghiere può aiutarci a canalizzare la nostra brama nella giusta direzione o può aiutarci ad esprimere la nostra brama in parole, e in altri momenti possiamo spontaneamente rivolgerci a Bhagavan in preghiera, cosa che possiamo esprimere in parole o sentire senza parole nel nostro cuore, ma sia che usiamo o meno parole come veicolo per le nostre preghiere ciò che la preghiera è essenzialmente (se è preghiera per quello che egli ci insegna dovremmo pregare) è solo il desiderio che sentiamo di rivolgerci lontano da ogni altra cosa e di fonderci per sempre nel nostro cuore – cioè, in ciò che siamo realmente.

Poiché Bhagavan ha definito l’abbandono come il fondersi del nostro ego all’interno di noi stessi, e poiché egli ci ha insegnato che il nostro ego sprofonderà e si fonderà all’interno di noi stessi solo nella misura in cui diamo attenzione esclusivamente a noi stessi, quando egli ha detto che ‘arrendere se stessi è una potente preghiera’, ciò che intende è che cercare di essere auto-attentivi è il modo più efficace in cui possiamo pregare Dio o il guru di aiutarci ad essere per sempre attentivamente ed esclusivamente auto-consapevoli. Chiedergli il suo aiuto in parole può supportarci nei nostri tentativi di essere auto-attentivi, ma il modo migliore per chiedere il suo aiuto è solo di perseverare pazientemente e con persistenza nel cercare di essere consapevoli solo di noi stessi, in completa esclusione di ogni altra cosa.

11d. Nāṉ Yār? paragrafo 12: dobbiamo seguire infallibilmente il sentiero insegnato dal nostro guru

Come abbiamo visto nella quarta sezione sopra, nel verso 3 di Upadēśa Undiyār Bhagavan dice che niṣkāmya karma compiuto con amore per Dio purificherà la nostra mente e quindi mostrerà la via per la liberazione, così da questo possiamo dedurre che se siamo realmente convinti dai suoi insegnamenti e lo abbiamo di conseguenza accettato come nostro guru non abbiamo bisogno di praticare qualcuno dei niṣkāmya karma che descrive dal verso 4 al verso 7, poiché ci ha già mostrato che la via per la liberazione è solo l’auto-investigazione (ātma-vicāra). Quindi una volta che egli e i suoi insegnamenti sono entrati nella nostra vita dovremmo considerare attentamente tutto ciò che ci ha insegnato nei suoi scritti originali, in modo particolare nei suoi tre testi principali, Nāṉ Yār?, Upadēśa Undiyār and Uḷḷadu Nāṟpadu, e dovremmo quindi comprendere che tutto quello di cui abbiamo bisogno è di investigare chi o cosa siamo realmente, perché solo allora staremo seguendo il sentiero insegnato da lui, come indica che dobbiamo fare nel dodicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
கடவுளும் குருவும் உண்மையில் வேறல்லர். புலிவாயிற் பட்டது எவ்வாறு திரும்பாதோ, அவ்வாறே குருவினருட்பார்வையிற் பட்டவர்கள் அவரால் ரக்ஷிக்கப்படுவரே யன்றி யொருக்காலும் கைவிடப்படார்; எனினும், குரு காட்டிய வழிப்படி தவறாது நடக்க வேண்டும்.

kaḍavuḷ-um guru-v-um uṇmaiyil vēṟallar. puli-vāyil paṭṭadu evvāṟu tirumbādō, avvāṟē guruviṉ-aruḷ-pārvaiyil paṭṭavargaḷ avarāl rakṣikka-p-paḍuvarē y-aṉḏṟi y-oru-k-kāl-um kaiviḍa-p-paḍār; eṉiṉum, guru kāṭṭiya vaṙi-p-paḍi tavaṟādu naḍakka vēṇḍum.

Dio e guru sono in verità non differenti. Proprio come ciò che è stato preso in trappola nelle fauci di una tigre non ritornerà, così coloro che sono stati presi in trappola nello sguardo di grazia del guru saranno da lui sicuramente salvati e non saranno mai dimenticati; ciò nonostante, è necessario camminare infallibilmente lungo il sentiero che il guru ha mostrato.
Nella proposizione finale di questo paragrafo, ‘குரு காட்டிய வழிப்படி தவறாது நடக்க வேண்டும்’ (guru kāṭṭiya vaṙi-p-paḍi tavaṟādu naḍakka vēṇḍum), ‘è necessario camminare infallibilmente lungo [o secondo] il sentiero che il guru ha mostrato’, Bhagavan intende chiaramente che è essenziale per noi seguire senza fallo il sentiero di auto-investigazione che egli ci ha mostrato. Se non riusciamo a farlo (cioè, se non cerchiamo neppure di essere auto-attentivi), il nostro amore per lui non è genuina guru-bhakti (la bhakti del quarto modello) ma è al massimo solo dēva-bhakti (amore per lui come Dio, che è bhakti del terzo modello, se prendiamo lui come nostro unico Dio, o bhakti del secondo modello, se prendiamo lui come solo uno tra i molti Dei che adoriamo).

La misura della nostra guru-bhakti è il grado al quale cerchiamo di seguire il sentiero di auto-investigazione che egli ci ha insegnato. Anche se sembriamo non riuscire nei nostri tentativi non importa, finché cerchiamo con persistenza, perché il nostro sforzo di essere auto-attentivi indica l’amore che abbiamo di ‘camminare infallibilmente lungo il sentiero che il guru ha mostrato’. Se facciamo il nostro poco cercando di camminare in questo sentiero, egli ci darà tutto l’aiuto e il supporto che richiediamo, sia dall’interno che dall’esterno, e quindi saremo sicuramente salvati da lui. Come egli dice nel verso 965 di Guru Vācaka Kōvai:
தன்னைநினைத் தோரடிநீ சார்ந்தா லதற்கீடா
வன்னையினு மிக்கவவ் வாண்டானும் — உன்னை
நினைத்துத்தா னொன்பதடி நீளவந் தேற்பா
னனைத்துக்கா ணன்னோ னருள்.

taṉṉainiṉait tōraḍinī sārndā ladaṟkīḍā
vaṉṉaiyiṉu mikkavav vāṇḍāṉum — uṉṉai
niṉaittuttā ṉoṉbadaḍi nīḷavan dēṟpā
ṉaṉaittukkā ṇaṉṉō ṉaruḷ
.

பதச்சேதம்: தன்னை நினைத்து ஓர் அடி நீ சார்ந்தால், அதற்கு ஈடா அன்னையினும் மிக்க அவ் ஆண்டானும் உன்னை நினைத்து தான் ஒன்பது அடி நீள வந்து ஏற்பான். அனைத்து காண் அன்னோன் அருள்!

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai niṉaittu ōr aḍi nī sārndāl, adaṟku īḍā aṉṉaiyiṉum mikka a-vv-āṇḍāṉum uṉṉai niṉaittu tāṉ oṉbadu aḍi nīḷa vandu ēṟpāṉ. aṉaittu kāṇ aṉṉōṉ aruḷ!

அன்வயம்: தன்னை நினைத்து நீ ஓர் அடி சார்ந்தால், அதற்கு ஈடா அன்னையினும் மிக்க அவ் ஆண்டானும் உன்னை நினைத்து தான் ஒன்பது அடி நீள வந்து ஏற்பான். அன்னோன் அருள் அனைத்து காண்!

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): taṉṉai niṉaittu nī ōr aḍi sārndāl, adaṟku īḍā aṉṉaiyiṉum mikka a-vv-āṇḍāṉum uṉṉai niṉaittu tāṉ oṉbadu aḍi nīḷa vandu ēṟpāṉ. anon aruḷ aṉaittu kāṇ!

Traduzione: Pensando a lui, se ti avvicini di un passo, come risposta appropriata a questo, più [amorevolmente] di una madre quel Signore [Dio o il guru] pensando a te lui stesso si avvicinerà di nove passi e [ti] riceverà. Vedi, così grande è la sua grazia!
Tuttavia, benché egli ha enfatizzato ripetutamente la nostra necessità di seguire questo sentiero di auto-investigazione cercando di essere più possibile auto-attentivi, ha anche indicato in Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam e altrove che possiamo trarre aiuto e supporto da lui pregandolo e praticando la devozione al suo nome e forma esteriori (o al nome e alla forma esteriori di Arunachala, che ha indicato come se stesso). Quindi benché cercare di essere auto-attentivi sia l’unica pratica essenziale di guru-bhakti, pregarlo ed esprimere il nostro amore per lui in qualunque modo ci piace è anche efficace come una pratica supplementare di guru-bhakti.

Cercare di essere auto-attentivi è l’unica pratica essenziale di guru-bhakti perché è sia necessaria che sufficiente. E’ necessaria perché finché e a meno che non cerchiamo di sperimentare soltanto noi stessi non saremo mai in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente, ed è sufficiente perché se cerchiamo di sperimentare soltanto noi stessi nessun’altra pratica è necessaria. Come Bhagavan dice nei paragrafi sesto e undicesimo di Nāṉ Yār?:
நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்.

nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum.

Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io, la mente sprofonderà [o cesserà di esistere].

ஒருவன் தான் சொரூபத்தை யடையும் வரையில் நிரந்தர சொரூப ஸ்மரணையைக் கைப்பற்றுவானாயின் அதுவொன்றே போதும்.

oruvaṉ tāṉ sorūpattai y-aḍaiyum varaiyil nirantara sorūpa-smaraṇaiyai-k kai-p-paṯṟuvāṉ-āyiṉ adu-v-oṉḏṟē pōdum.

Se ci si aggrappa saldamente a un ininterrotto svarūpa-smaraṇa [auto-ricordo] finché si ottiene svarūpa [il proprio sé essenziale], quello solo sarà sufficiente.
D’altra parte, preghiere e altre pratiche devozionali sono pratiche supplementari della guru-bhakti perché a dire il vero esse non sono né necessarie né sufficienti. Non sono necessarie perché l’auto-investigazione è sufficiente in se stessa, e non sono sufficienti perché finché e a meno che non rivolgiamo la nostra attenzione verso soltanto noi stessi nessuna quantità di preghiere o di anya bhakti può permetterci di sperimentare ciò che siamo realmente.

12. L’auto-abbandono è un’alternativa all’auto-investigazione?

Bhagavan ha detto spesso che dovremmo investigare chi siamo o arrendere completamente noi stessi a Dio, così alcune persone interpretano questo nel significato che l’auto-investigazione e l’auto-abbandono sono due sentieri alternativi. Tuttavia egli ha anche detto spesso che possiamo arrendere completamente noi stessi a Dio solo investigando noi stessi, e ha inteso questo molto chiaramente nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando anche il minimo spazio al sorgere di ogni pensiero diverso da ātma-cintanā [il pensiero di se stessi], è dare se stessi a Dio.
Perché allora egli qualche volta ha parlato di auto-abbandono come se fosse un sentiero alternativo? Ha detto questo perché alcune persone trovano l’idea di arrendere se stessi a Dio più attraente dell’idea di investigare chi o cosa si è realmente. Benché possiamo effettivamente arrendere completamente noi stessi a Dio solo investigando noi stessi, e benché non possiamo investigare noi stessi senza arrendere l’ego o la mente che ora sembriamo essere, auto-investigazione e auto-abbandono sono due modi alternativi di concettualizzare e descrivere questa singola pratica.

Auto-abbandono significa arrendere noi stessi, quindi cos’è questo ‘sé’ che dobbiamo arrendere? Ovviamente non possiamo arrendere o abbandonare ciò che siamo realmente, perché non possiamo mai cessare di essere ciò che siamo realmente, neppure possiamo mai separare noi stessi in qualche modo da ciò che siamo realmente, così auto-abbandono deve significare arrendere solo ciò che sembriamo essere. In altre parole, auto-abbandono significa arrendere il nostro ego, il falso ‘sé’ che ora sembriamo essere.

12a. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: non possiamo arrendere il nostro ego finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi

Come possiamo arrendere questo ego? Poiché questo ego è solo un’esperienza erronea e illusoria di noi stessi – cioè, un’esperienza di noi stessi come se fossimo qualcosa che non è realmente noi stessi – possiamo arrenderlo o abbandonarlo solo sperimentando noi stessi come siamo realmente. Finché sperimentiamo noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, quella falsa esperienza di noi stessi è ciò che è chiamato ‘ego’, così possiamo liberarci di questa falsa esperienza solo sperimentando noi stessi come siamo realmente. Quindi per arrendere il nostro ego completamente, dobbiamo cercare di sperimentare ciò che siamo realmente, e per sperimentare ciò che siamo realmente dobbiamo investigare noi stessi cercando di sperimentarci in completo isolamento da ogni altra cosa. In altre parole, dobbiamo cercare di essere esclusivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Questo è il motivo per cui Bhagavan ha dichiarato enfaticamente nel tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? che l’auto-abbandono comporta ‘ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல்’ (āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal), ‘non dare anche il minimo spazio al sorgere di ogni pensiero diverso da ātma-cintanā [pensiero di se stessi o auto-attentività]. Poiché secondo il senso in cui egli ha usato il termine ‘pensiero’ ogni consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un pensiero, ‘non dare anche il minimo spazio al sorgere di ogni pensiero diverso dal pensiero di se stessi’ significa non essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così ciò che egli intende chiaramente in questa frase è che non possiamo dare noi stessi completamente a Dio se non evitiamo di essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Perché è così? Perché secondo ciò che Bhagavan ci insegna nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, noi sorgiamo, ci reggiamo e prosperiamo come questo ‘ego fantasma senza forma’ (உருவற்ற பேய் அகந்தை: uru-v-aṯṟa pēy ahandai) solo ‘afferrando la forma’ (உரு பற்றி: uru paṯṟi) – cioè, essendo consapevoli di qualsiasi cosa diversa dal nostro sé senza forma. Ciò che siamo realmente non è mai consapevole di qualsiasi cosa diversa da noi stessi come siamo realmente, così ogni volta siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente ma solo come questo ego. Quindi sembriamo essere questo ego solo quando siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così non possiamo sperimentarci come siamo realmente e quindi abbandonare il nostro ego finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto nei paragrafi terzo e quarto di Nāṉ Yār?:
[...] கற்பித ஸர்ப்ப ஞானம் போனா லொழிய அதிஷ்டான ரஜ்ஜு ஞானம் உண்டாகாதது போல, கற்பிதமான ஜகதிருஷ்டி நீங்கினா லொழிய அதிஷ்டான சொரூப தர்சன முண்டாகாது.

[...] kaṯpita sarppa-jñāṉam pōṉāl oṙiya adhiṣṭhāṉa rajju-jñāṉam uṇḍāhādadu pōla, kaṯpitamāṉa jaga-diruṣṭi nīṅgiṉāl oṙiya adhiṣṭhāṉa sorūpa darśaṉam uṇḍāhādu.

[...] Come a meno che non cessi la conoscenza del serpente immaginario, la conoscenza della corda, che è l’adhiṣṭhāna [la base che sottende e supporta l’apparenza illusoria del serpente], non sorgerà, così a meno che la percezione del mondo, che è una kalpita [una fabbricazione, una creazione mentale o un’invenzione della nostra immaginazione] non cessi, svarūpa-darśana [l’esperienza del nostro sé essenziale], che è l’adhiṣṭhāna [la base o fondamento che sottende e supporta l’apparenza immaginaria di questo mondo], non sorgerà.

[...] நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. [...] மனம் ஆத்ம சொரூபத்தினின்று வெளிப்படும்போது ஜகம் தோன்றும். ஆகையால், ஜகம் தோன்றும்போது சொரூபம் தோன்றாது; சொரூபம் தோன்றும் (பிரகாசிக்கும்) போது ஜகம் தோன்றாது. [...]

[...] niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyamāy illai. [...] maṉam ātma sorūpattiṉiṉḏṟu veḷippaḍum-pōdu jagam tōṉḏṟum. āhaiyāl, jagam tōṉḏṟum-pōdu sorūpam tōṉḏṟādu; sorūpam tōṉḏṟum (pirakāśikkum) pōdu jagam tōṉḏṟādu. [...]

[...] Escludendo pensieri [o idee], non c’è separatamente una cosa come ‘il mondo’. […] Quando la mente esce da ātma-svarūpa, il mondo appare. Quindi quando il mondo appare, svarūpa [la nostra ‘propria forma’ o sé essenziale] non appare [come è realmente]; quando svarūpa appare (risplende) [come è realmente], il mondo non appare. […]
Come egli dichiara inequivocabilmente in questi brani, la consapevolezza del mondo (che include la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi) è incompatibile con la consapevolezza di noi stessi come siamo realmente. Quindi dobbiamo scegliere tra essere consapevoli del mondo o di qualsiasi cosa diversa da noi stessi e l’essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, e quindi non possiamo cessare di sperimentarci come questo ego. Quindi per arrendere interamente il nostro ego, dobbiamo rinunciare ad essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Come Bhagavan dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
அகந்தையுண் டாயி னனைத்துமுண் டாகு
மகந்தையின் றேலின் றனைத்து — மகந்தையே
யாவுமா மாதலால் யாதிதென்று நாடலே
யோவுதல் யாவுமென வோர்.

ahandaiyuṇ ḍāyi ṉaṉaittumuṇ ḍāhu
mahandaiyiṉ ḏṟēliṉ ḏṟaṉaittu — mahandaiyē
yāvumā mādalāl yādideṉḏṟu nādalē
yōvudal yāvumeṉa vōr
.

பதச்சேதம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் என ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum eṉa ōr.

அன்வயம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், அனைத்தும் இன்று. யாவும் அகந்தையே ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே யாவும் ஓவுதல் என ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, aṉaittum iṉḏṟu. yāvum ahandai-y-ē ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē yāvum ōvudal eṉa ōr.

Traduzione: Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Dunque] l’ego è ogni cosa. Quindi, sappi che solo investigare cos’è questo [ego] è abbandonare ogni cosa.
Non possiamo abbandonare il nostro ego senza abbandonare ogni cosa insieme con esso, e come Bhagavan intende chiaramente in questo verso, il solo modo in cui possiamo abbandonare sia il nostro ego che ogni altra cosa è investigando cosa esso è realmente. Poiché questo ego non è altro che noi stessi che sembriamo essere qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, quando investighiamo cos’è, focalizzando la nostra intera attenzione su di esso (quindi ritirando la nostra attenzione da ogni altra cosa) scopriremo che ciò che sembrava essere questo ego è realmente solo noi stessi come siamo realmente. Quindi l’auto-investigazione è il solo mezzo efficace con cui possiamo abbandonare o arrendere completamente il nostro ego.

12b. Un abbandono parziale condurrà gradualmente all’abbandono completo

Tuttavia, benché il nostro auto-abbandono può essere completo solo quando investighiamo noi stessi cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi, il sentiero della devozione (bhakti mārga) è un mezzo con cui possiamo gradualmente giungere al punto in cui siamo pronti per abbandonare ogni altra cosa e a dare attenzione soltanto a noi stessi, con la ferma convinzione che ciò che risplende all’interno di noi come ‘io’ essenzialmente non è altri che Dio stesso. In altre parole, bhakti mārga fornisce un approccio gentile e graduale all’auto-abbandono – un approccio che culminerà infine nell’auto-investigazione, che è il solo mezzo con cui il nostro auto-abbandono può divenire completo.

Quindi ogni volta Bhagavan ha detto che dovremmo o investigare chi siamo o arrendere noi stessi completamente a Dio, la ragione per cui ha menzionato l’abbandono come se fosse un’alternativa all’auto-investigazione è che per alcune persone l’approccio del bhakti mārga più gentile e graduale è il modo più adatto per giungere al sentiero dell’auto-investigazione, e nel bhakti mārga l’abbandono si evolve da parziale per divenire infine completo. Questo è il motivo per cui ogni volta che qualcuno si è lamentato con lui che l’auto-abbandono non sembra essere possibile, egli ha detto che se non possiamo arrendere noi stessi dovremmo invece provare a investigare noi stessi, o che anche se l’auto-abbandono completo non è inizialmente possibile, almeno un abbandono parziale è possibile a chiunque, e un abbandono parziale condurrà infine all’abbandono completo (come egli è registrato che abbia detto in una occasione nella sezione 244 di Discorsi con Sri Ramana Maharshi: edizione 2006, pagina 203).

Cosa intendeva esattamente con abbandono parziale? Ovviamente non possiamo abbandonare parzialmente il nostro ego, perché sperimentiamo noi stessi o come siamo realmente o come questo ego, così non possiamo sperimentare noi stessi parzialmente come siamo realmente e parzialmente come questo ego. Quindi arrendere il nostro ego è uno stato tutto o niente, così abbandono parziale deve significare abbandono di qualcosa diversa dal nostro ego. Ciò che la maggior parte dei devoti intende quando parlano di abbandono non è abbandono di ‘io’ (l’ego) ma solo abbandono di ‘mio’ (ogni cosa che l’ego normalmente dichiara come proprio), così abbandono parziale significa un graduale rinunciare ad ogni cosa che sembra essere ‘mia’.

Anche nello stadio di kāmya bhakti i devoti rinunciano a certe cose che considerano essere ‘mio’, o facendo donazioni a un tempio, una Chiesa, una moschea, una sinagoga, un gurudware o qualche altra istituzione, o astenendosi da qualche particolare piacere terreno, ma fanno ciò solo perché sperano di ottenere qualcosa da Dio in cambio del loro sacrificio. Tuttavia, dopo che essi progrediscono oltre, da kāmya bhakti a niṣkāmya bhakti, continuano a fare simili sacrifici, ma li fanno solo per amore di Dio e senza alcuna aspettativa di ricevere qualcosa in cambio. Questo è lo stadio in cui inizia realmente l’abbandono parziale.

Adorare Dio in qualche modo con corpo, parola o mente senza aspettarsi qualcosa in cambio è una forma di abbandono parziale, perché stiamo offrendo a Dio i frutti delle nostre azioni invece di desiderarli per noi stessi. In questo modo la nostra mente è gradualmente purificata o pulita dalle sue forme più grossolane di desiderio e attaccamento, come Bhagavan dice nel verso 3 di Upadēśa Undiyār, e questa perdita graduale dei nostri desideri e attaccamenti è un ulteriore progresso sul sentiero dell’abbandono parziale.

Tuttavia, finché adoriamo Dio come qualcosa diversa da noi stessi, siamo ancora aggrappati alla nostra falsa esperienza di noi stessi come un ego o anima apparentemente separata, così non possiamo abbandonare qualcosa oltre a il ‘mio’. Per quanto ‘mio’ possiamo riuscire ad abbandonare a Dio, vestigia di ‘mio’ rimarranno in una forma o un’altra e nuove forme di ‘mio’ (come desideri e attaccamenti più sottili) continueranno a spuntare finché non abbandoniamo la loro radice, il nostro ‘io’ o ego separato. Quindi per abbandonare non solo il ‘mio’ ma questo stesso ‘io’ dobbiamo abbandonare la nostra idea di essere qualcosa di separato da Dio, e possiamo abbandonare questa idea solo meditando su di lui come niente altro che noi stessi, come Bhagavan indica che dovremmo fare nel verso 8 di Upadēśa Undiyār.

Cioè, è solo quando la nostra devozione evolve da anya bhakti (devozione a Dio come qualcosa diversa da noi stessi) in ananya bhakti (devozione a lui come niente altro che noi stessi) che andiamo oltre l’abbandonare solo il ‘mio’ (abbandono parziale di cose diverse da se stessi) e iniziamo ad affrontare il cambiamento di abbandonare realmente ‘io’ (completo abbandono di noi stessi e di ogni altra cosa). Progredendo in questo modo tra i vari stadi e pratiche della bhakti raggiungeremo infine il punto a cui tutti questi stadi e pratiche sono intesi condurre, vale a dire il completo abbandono di noi stessi, l’’io’ o ego, la falsa entità che afferma che qualcosa è ‘mia’.

Per abbandonare noi stessi, abbiamo ovviamente bisogno di abbandonare tutti i nostri attaccamenti a qualsiasi altra cosa, così l’addestramento graduale ad abbandonare i nostri attaccamenti ad altre cose che riceviamo seguendo il sentiero di anya bhakti è un prerequisito necessario per abbandonare completamente noi stessi. Tuttavia, una volta che abbiamo compreso che il solo modo per abbandonare il nostro ego e quindi abbandonare ogni altra cosa insieme con esso è di investigare o meditare soltanto su noi stessi, non abbiamo più bisogno di praticare qualche forma di anya bhakti, perché possiamo perdere tutti i nostri attaccamenti più velocemente, efficacemente e correttamente cercando di essere auto-attentivi più di quanto lo potremmo essere con qualsiasi altro mezzo.

12c. Nāṉ Yār? paragrafo 13: il significato delle ultime tre frasi

Abbiamo già considerato l’importanza della prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? diverse volte in questo articolo (come nella sezione 6b), così consideriamo ora il resto di quel paragrafo. Tuttavia prima di farlo, è degno di nota il fatto che è stato subito dopo aver detto nella frase finale del dodicesimo paragrafo che ‘è necessario camminare infallibilmente lungo il sentiero che il guru ha mostrato’ (குரு காட்டிய வழிப்படி தவறாது நடக்க வேண்டும்: guru kāṭṭiya vaṙi-p-paḍi tavaṟādu naḍakka vēṇḍum) e che Bhagavan ha iniziato questo paragrafo indicando che essere esclusivamente auto-attentivi (‘non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso dal pensiero di se stessi’) è quel solo mezzo con cui possiamo abbandonare noi stessi a Dio. Dicendo questo, egli enfatizza che sia che concepiamo il pensiero da lui mostrato in termini di auto-investigazione sia di auto-abbandono, ciò che esso comporta è cercare di essere consapevoli di nient’altro che noi stessi. Quindi sia che aspiriamo a seguire il sentiero dell’auto-investigazione sia quello dell’auto-abbandono, quello che abbiamo bisogno di fare è cercare di pensare a nient’altro che a noi stessi.

Ciò che egli dice nell’intero tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? è questo:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம். ஈசன்பேரில் எவ்வளவு பாரத்தைப் போட்டாலும், அவ்வளவையும் அவர் வகித்துக்கொள்ளுகிறார். சகல காரியங்களையும் ஒரு பரமேச்வர சக்தி நடத்திக்கொண்டிருகிறபடியால், நாமு மதற் கடங்கியிராமல், ‘இப்படிச் செய்யவேண்டும்; அப்படிச் செய்யவேண்டு’ மென்று ஸதா சிந்திப்பதேன்? புகை வண்டி சகல பாரங்களையும் தாங்கிக்கொண்டு போவது தெரிந்திருந்தும், அதி லேறிக்கொண்டு போகும் நாம் நம்முடைய சிறிய மூட்டையையு மதிற் போட்டுவிட்டு சுகமா யிராமல், அதை நமது தலையிற் றாங்கிக்கொண்டு ஏன் கஷ்டப்படவேண்டும்?

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām. īśaṉpēril e-vv-aḷavu bhārattai-p pōṭṭālum, a-vv-aḷavai-y-um avar vakittu-k-koḷḷugiṟār. sakala kāriyaṅgaḷai-y-um oru paramēśvara śakti naḍatti-k-koṇḍirugiṟapaḍiyāl, nāmum adaṟku aḍaṅgi-y-irāmal, ‘ippaḍi-c ceyya-vēṇḍum; appaḍi-c ceyya-vēṇḍum’ eṉḏṟu sadā cinti-p-padēṉ? puhai vaṇḍi sakala bhāraṅgaḷaiyum tāṅgi-k-koṇḍu pōvadu terindirundum, adil ēṟi-k-koṇḍu pōhum nām nammuḍaiya siṟiya mūṭṭaiyaiyum adil pōṭṭu-viṭṭu sukhamāy irāmal, adai namadu talaiyil tāṅgi-k-koṇḍu ēṉ kaṣṭa-p-paḍa-vēṇḍum?

Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso da ātma-cintanā [pensiero di se stessi], è dare se stessi a Dio. Anche se poniamo qualsiasi quantità di peso su Dio, quell'intera quantità sarà sopportata. Dato che una paramēśvara śakti [supremo potere dominante o potere di Dio] guida tutte le attività [ogni cosa che accade in questo mondo], invece di arrenderci ad esso perché dovremmo pensare incessantemente, 'è [per me] necessario agire in questo modo; è [per me] necessario agire in quel modo'? Sebbene sappiamo che il treno sta portando tutto il carico, perché viaggiando su di esso dovremmo patire portando il nostro modesto bagaglio sulla testa invece di restare felici lasciando il bagaglio posato sul [treno]?
Per molti devoti, in modo particolare coloro che sono fortemente attaccati ad anya bhakti, credendo fermamente che Dio è qualcosa di separato da o diverso da se stessi, la definizione di auto-abbandono che Bhagavan dà nella prima frase di questo paragrafo può sembrare strana o non familiare, e può anche apparire minacciosa per la loro idea di devozione e abbandono, mentre ciò che egli dice nelle tre frasi successive sembrerà familiare e confortante. Questo significa, allora, che egli sta descrivendo qui due tipi o concetti differenti di abbandono? No, perché se comprendiamo il motivo per cui egli definisce l’auto-abbandono come fa nella prima frase, sarà chiaro che ciò che dice nelle tre frasi successive è inteso aiutarci a mettere in pratica ciò che dice nella prima.

Cioè, poiché egli dice nella prima frase che possiamo abbandonare noi stessi completamente a Dio solo pensando a nient’altro che noi stessi, ciò che dice nelle altre tre frasi è inteso incoraggiarci a non essere distratti da qualsiasi altro pensiero. Finché pensiamo di essere responsabili per qualsiasi cosa che sta succedendo in questo mondo, o che dobbiamo portare il carico delle preoccupazioni e delle responsabilità terrene, non saremo in grado di liberare noi stessi da infiniti pensieri riguardo tali cose. Se dobbiamo pensare a nient’altro che noi stessi, sapere ed essere fiduciosi che un potere supremo (paramēśvara śakti) si sta prendendo cura di ogni altra cosa e che possiamo quindi cedere tutte le nostre attenzioni e preoccupazioni a esso senza pensarci minimamente, ci aiuterà grandemente ad evitare di essere distratti da pensieri di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Se abbiamo una forte fede in Dio, e se crediamo fermamente che lui sia onnisciente, onniamorevole e onnipotente, che bisogno abbiamo di pensare a qualsiasi cosa? Qualunque cosa noi e chiunque altro necessita è a lui conosciuta, e poiché egli è onnipotente e ama ciascuno di noi come se stesso, sicuramente stabilirà ciò che è meglio per ciascuno di noi, così non c’è bisogno di pregarlo o anche di pensare ad alcuna cosa. Tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è abbandonare noi stessi e tutti i nostri carichi apparenti a lui, sprofondando silenziosamente nella sorgente dalla quale siamo sorti (come ci spinge a fare nel verso 10 di Upadēśa Undiyār, e che possiamo fare solo con la forza e la fermezza della nostra ananya-bhāva o auto-attentività, come intende nei versi 8 e 9).

Possiamo non avere ancora un sufficiente amore per lui o fiducia in lui per essere in grado di cedere ogni cosa a lui e sprofondare in noi stessi, la sorgente dalla quale siamo sorti, ma il modo più veloce ed efficace per coltivare questo amore e fiducia è di perseverare pazientemente nel nostro sforzo di essere auto-attentivi per quanto ci è possibile. Come egli era solito dire, prima o poi ciascuno di noi dovrà iniziare a cercare di rivolgere la propria attenzione all’interno per sprofondare nella realtà infinita che siamo realmente, così piuttosto che attendere fino ad allora, dovremmo iniziare il più presto possibile, cercando in questo preciso momento, e dovremmo continuare a cercare per quanto possiamo finché infine riusciamo.

13. Conclusione

Dunque qual'è la risposta finale alla domanda che questo articolo ha considerato: possiamo sperimentare ciò che siamo realmente seguendo il sentiero della devozione (bhakti mārga)? La risposta più semplice è ovviamente sì, ma quanto direttamente possiamo sperimentare ciò che siamo realmente dipende da quanto vicino siamo giunti allo stadio finale di questo sentiero, vale a dire lo stadio in cui focalizziamo tutto il nostro amore e lo sforzo nel cercare di abbandonare il nostro ego interamente a Dio essendo vigilantemente auto-attentivi.

Come abbiamo visto, il bhakti mārga include un’ampia gamma di credi e di pratiche, alcune delle quali sono più avanzate e benefiche di altre, ma dove tutti questi credi e pratiche devono infine condurre è a ananya-bhāva o auto-attentività, che è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), ‘la migliore fra tutte’, e con la cui forza o fermezza soltanto sprofonderemo nella sorgente dalla quale siamo sorti. Quindi la conclusione che possiamo trarre dallo studio attento e approfondito di Upadēśa Undiyār, Uḷḷadu Nāṟpadu e Nāṉ Yār? è che la pratica migliore e definitiva del bhakti mārga è l’auto-investigazione (ātma-vicāra), perché è il solo mezzo con cui possiamo abbandonare noi stessi interamente a Dio, l’unica realtà infinita, che sola è ciò che siamo realmente.

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