Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

giovedì 7 luglio 2016

Cos’è ‘la sensazione-io’, e abbiamo bisogno di essere ‘fuori dal movimento del pensiero’ per essere consapevoli di essa?

Michael James

19 Giugno 2016
What is ‘the I-feeling’, and do we need to be ‘off the movement of thought’ to be aware of it?


In un commento ad uno dei miei articoli recenti, Come attendere a noi stessi?, un amico di nome Viveka Vairagya ha scritto, ‘Penso di essere finalmente stato in grado di comprendere la sensazione-io o sensazione ‘io sono’. Sembra essere nient’altro che l’interiore senso di consapevolezza (o coscienza o essere)/auto-consapevolezza che uno ha quando è fuori dal movimento del pensiero, giusto?’ Ci sono diversi punti in questa affermazione che hanno bisogno di essere chiariti, così questo articolo è indirizzato a Viveka Vairagya e cercherà di fornire più chiarezza su questo soggetto.
  1. Il pronome ‘io’ si riferisce a noi stessi, e noi non siamo solo una ‘sensazione’ ma chiara e indubitabile consapevolezza
  2. Siamo sempre chiaramente consapevoli di noi stessi, sia che ci accada di pensare o no
  3. Quando siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente
  4. Upadēśa Undiyār verso 23: noi siamo consapevolezza, e solo la consapevolezza è ciò che esiste realmente
  5. Ciò che impedisce l’annientamento del nostro ego non sono esattamente i pensieri ma solo l’auto-disattenzione (pramāda)
  6. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam verso 6: lasciamo comparire o scomparire i pensieri, non dovrebbero essere un nostro interesse
  7. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam verso 7: ogni volta che può comparire un pensiero, dovremmo investigare noi stessi, a chi esso è comparso
  8. Nāṉ Yār? paragrafo 6: se investighiamo accuratamente noi stessi, la nostra mente sprofonderà insieme con tutti i suoi pensieri
  9. Poiché ogni cosa diversa dalla pura auto-consapevolezza è solo un pensiero, come dovremmo affrontare la comparsa di pensieri?
  10. Il primo movimento del pensiero è il sorgere del nostro ego, così siamo completamente ‘fuori dal movimento del pensiero’ solo in manōlaya o in manōnāśa

1. Il pronome ‘io’ si riferisce a noi stessi, e noi non siamo solo una ‘sensazione’ ma chiara e indubitabile consapevolezza

Innanzitutto il termine ‘sensazione’ non è il termine più appropriato da usare in questo contesto, perché generalmente significa una vaga impressione di qualche genere, mentre i termini ‘io’ e ‘io sono’ si riferiscono a noi stessi e indicano la nostra consapevolezza della nostra esistenza, che è troppo chiara e certa per essere descritta come una sensazione o una vaga impressione. Nei libri Inglesi riguardo gli insegnamenti di Bhagavan la nostra auto-consapevolezza è spesso riferita come una ‘sensazione’ e termini come ‘la sensazione-io’ o ‘la sensazione “io sono”’ sono usati frequentemente, ma (come ho spiegato in maggiore dettaglio nella prima sezione di un antico articolo, Auto-consapevolezza: pensiero-‘io’, sensazione-’io’ e ahaṁ-sphuraṇa) questo uso del termine ‘sensazione’ in questo contesto ha origine da una scadente traduzione del termine Tamil உணர்வு (uṇarvu), che Bhagavan ha spesso usato per riferirsi alla nostra fondamentale consapevolezza di noi stessi. Sebbene in certi contesti உணர்வு (uṇarvu) può essere usato per indicare una sensazione o impressione sensoriale, e in quel senso può quindi essere tradotto come ‘sensazione’, il suo significato primario è consapevolezza o coscienza, in modo particolare nel senso di chiara consapevolezza, ed è stato in questo senso primario che Bhagavan lo ha usato per riferirsi alla nostra consapevolezza fondamentale – la nostra auto-consapevolezza, che è il reale significato della parola ‘io’.

2. Siamo sempre chiaramente consapevoli di noi stessi, sia che ci accada di pensare o no

Quindi sei nel giusto quando dici che ‘la sensazione-io o “io sono” non è nient’altro che il senso interno di consapevolezza (o coscienza o essere)/auto-consapevolezza’, perché il termine Tamil usato da Bhagavan che è spesso tradotto impropriamente come ‘la sensazione-io’ è தன்னுணர்வு (taṉ-ṉ-uṇarvu), che significa letteralmente auto-consapevolezza. Tuttavia quando hai scritto ‘Sembra essere nient’altro che il senso interno di consapevolezza (o coscienza o essere)/auto-consapevolezza’ hai qualificato questo aggiungendo ‘[che] uno ha quando è fuori dal movimento del pensiero’, con cui sembri intendere che l’auto-consapevolezza è qualcosa che sperimentiamo solo quando siamo ‘fuori dal movimento del pensiero’, che è certamente non corretto, perché siamo sempre chiaramente auto-consapevoli, sia che ci accada di pensare o no.

Se la sensazione-io fosse qualcosa che uno ha solo quando è fuori dal movimento del pensiero, sarebbe solo un fenomeno temporaneo e quindi non reale, così non sarebbe degno di essere conosciuto o sperimentato. Ciò che stiamo cercando di sperimentare è quello che è permanente e quindi reale, vale a dire noi stessi come siamo realmente. Siamo permanenti non solo nel senso che esistiamo sempre ma anche nel senso che siamo sempre consapevoli di noi stessi, perché ciò che siamo realmente è pura consapevolezza, e la consapevolezza è sempre consapevole di sé stessa, così non stiamo cercando di essere consapevoli di qualcosa di cui non siamo già consapevoli.

Sebbene siamo sempre consapevoli di noi stessi, al momento confondiamo noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, così ciò che stiamo cercando è semplicemente di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Poiché qualunque cosa ora confondiamo come noi stessi è solo una sovrapposizione illusoria su noi stessi come siamo realmente, essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente non comporta l’ottenere qualche nuova conoscenza o consapevolezza di qualcosa di cui non siamo già consapevoli, ma comporta semplicemente la rimozione della nostra conoscenza errata o consapevolezza illusoria di noi stessi come qualcos’altro, a causa della quale dimentichiamo ciò di cui siamo sempre consapevoli, vale a dire l’auto-consapevolezza fondamentale che siamo realmente.

Ogni cosa diversa da noi stessi di cui siamo consapevoli è solo un pensiero, così quando non siamo consapevoli di alcun pensiero (qualsiasi cosa diversa da noi stessi), come siamo nel sonno, siamo consapevoli soltanto di noi stessi, ma anche quando siamo consapevoli di pensieri, come lo siamo nella veglia e nel sogno, siamo nondimeno consapevoli di noi stessi, perché l’auto-consapevolezza (che è consapevolezza intransitiva) è la nostra consapevolezza fondamentale, poiché è eterna e immutabile, mentre la consapevolezza di altre cose (che è consapevolezza transitiva o சுட்டறிவு (suṭṭuṇarvu), come Bhagavan l’ha spesso chiamata) è una modalità superficiale ed irreale di consapevolezza che compare nella veglia e nel sogno e scompare nel sonno. La sorgente da cui questa modalità irreale di consapevolezza sorge nella veglia e nel sogno e in cui sprofonda nel sonno è solo la nostra auto-consapevolezza fondamentale, che è ciò che siamo realmente e che sola è reale.

3. Quando siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente

Comunque, sebbene siamo sempre consapevoli di noi stessi, sia che ci accada di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa o meno, finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi non siamo consapevoli di noi stessi come la consapevolezza infinita (e quindi assolutamente intransitiva) che siamo realmente, ma siamo consapevoli di noi stessi come questa finita e transitiva consapevolezza chiamata ego. Quindi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente dobbiamo essere consapevoli soltanto di noi stessi, così abbiamo bisogno di focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi, la fondamentale auto-consapevolezza che siamo realmente.

Quindi ciò a cui ti riferisci come ‘la sensazione-io’ è solo la nostra fondamentale auto-consapevolezza, e poiché è la sola cosa di cui siamo sempre consapevoli, non abbiamo bisogno di ‘comprenderla’. Tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è cercare più possibile di focalizzare la nostra attenzione su di essa, perché facendo questo con persistenza raffineremo e affileremo il nostro potere di attenzione, rendendoci possibile focalizzarla sempre più acutamente soltanto su noi stessi, finché saremo in grado di focalizzarla completamente su noi stessi – la nostra auto-consapevolezza fondamentale – escludendo quindi ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza, e quando facciamo questo per un momento il nostro ego sarà dissolto istantaneamente e per sempre nella chiarezza infinita della pura auto-consapevolezza, che è il nostro sé reale (ātma-svarūpa).

4. Upadēśa Undiyār verso 23: noi siamo consapevolezza, e solo la consapevolezza è ciò che esiste realmente

Un altro problema nell’usare il termine ‘sensazione’ per riferirsi all’auto-consapevolezza è che le sensazioni sono fenomeni che vengono e vanno, comparendo e scomparendo nella nostra consapevolezza, così sono impermanenti e quindi diverse da noi stessi, poiché noi siamo permanenti, essendo la consapevolezza fondamentale in cui ogni altra cosa (incluso l’ego che ora sembriamo essere) compare e scompare. Quindi il termine ‘sensazione’ suggerisce qualche genere di fenomeno o oggetto – qualcosa diversa da noi stessi – mente l’auto-consapevolezza non può mai essere un oggetto, poiché è noi stessi – ciò che siamo realmente.

Quindi ciò che in modo piuttosto inappropriato è chiamata ‘la sensazione-io’ è realmente solo noi stessi, perché la ‘sensazione’ o consapevolezza di ‘io’ non può essere qualcosa diversa da ‘io’, e ‘io’ non è niente altro che noi stessi. Cioè, poiché noi stessi siamo la consapevolezza che è consapevole di noi stessi, la nostra consapevolezza di noi stessi non è niente altro che noi stessi. Inoltre, non siamo solo consapevolezza ma anche ciò che esiste realmente, perché mentre qualsiasi cosa diversa da noi stessi potrebbe essere un’illusione, noi non possiamo essere un’illusione, perche dobbiamo esistere per essere consapevoli di qualsiasi cosa, sia essa reale o illusoria. Quindi poiché siamo sia ciò che esiste realmente (uḷḷadu) sia ciò che è consapevole della nostra esistenza, la nostra consapevolezza della nostra esistenza non può essere qualcosa diversa dalla nostra stessa esistenza, così noi, la nostra esistenza e la nostra consapevolezza della nostra esistenza siamo la stessa cosa, come Bhagavan indica nel verso 23 di Upadēśa Undiyār:
உள்ள துணர வுணர்வுவே றின்மையி
னுள்ள துணர்வாகு முந்தீபற
      வுணர்வேநா மாயுள முந்தீபற.

uḷḷa duṇara vuṇarvuvē ṟiṉmaiyi
ṉuḷḷa duṇarvāhu mundīpaṟa
      vuṇarvēnā māyuḷa mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உள்ளது உணர உணர்வு வேறு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷḷadu uṇara uṇarvu vēṟu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarv[u]-ē nām-āy uḷam.

அன்வயம்: உள்ளது உணர வேறு உணர்வு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḷḷadu uṇara vēṟu uṇarvu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarvē nām-āy uḷam.

Traduzione: A causa della non-esistenza di [qualche] consapevolezza diversa [da ciò che esiste] che sia consapevole di ciò che esiste, ciò che esiste (uḷḷadu) è consapevolezza (uṇarvu). Solo la consapevolezza esiste in quanto noi.
Quindi solo noi siamo la consapevolezza che è consapevole di noi stessi, così l’auto-consapevolezza o consapevolezza di ‘io’ (la cosiddetta ‘sensazione-io’) non è nient’altro che noi stessi, quello che solo esiste ed è consapevole della nostra esistenza.

5. Ciò che impedisce l’annientamento del nostro ego non sono esattamente i pensieri ma solo l’auto-disattenzione (pramāda)

Riguardo al beneficio di essere ‘fuori dal movimento del pensiero’, come tu lo esprimi, essere in questo modo è senza dubbio pacifico, piacevole e riposante, ma non è necessariamente di qualche beneficio spirituale, perché siamo fuori dal movimento dei pensieri ogni volta che siamo nel sonno, ma con questo non ricaviamo alcun beneficio spirituale. Tuttavia, finché siamo consapevoli di pensieri anche in minima misura, la nostra attenzione è in quella misura distratta da noi stessi, così per attendere soltanto a noi stessi e quindi essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente è necessario essere inconsapevoli di qualsiasi pensiero (che presumo è ciò che intendi con l’essere ‘fuori dal movimento del pensiero’), ma essere inconsapevoli di qualsiasi pensiero non è in sé stesso sufficiente, perché possiamo essere inconsapevoli dei pensieri senza essere attentivamente consapevoli di noi stessi, come sappiamo dalla nostra esperienza nel sonno. Quindi essere ‘fuori dal movimento del pensiero’ è necessario ma non sufficiente.

Il fatto che il nostro ego non è annientato nel sonno, anche se in quel momento non siamo consapevoli di alcun pensiero, indica chiaramente che ciò che impedisce il suo annientamento o dissoluzione permanente è qualcosa di più profondo della consapevolezza dei pensieri. Quella cosa più profonda è pramāda: auto-negligenza o auto-disattenzione. Quindi non possiamo annientare il nostro ego senza annientare pramāda, e possiamo annientare pramāda solo sforzandoci per sadā apramāda (perenne non-negligenza o non-disattenzione), che possiamo realizzare solo cercando di essere acutamente e persistentemente auto-attentivi.

Chi è ora afflitto dall’auto-negligenza (pramāda)? In altre parole, che è auto-negligente? Solo il nostro ego, così pramāda non esiste indipendentemente da questo ego. Tuttavia, poiché pramāda è la sua vera natura, questo ego non esiste indipendentemente da pramāda, così nessuno dei due può esistere senza l’altro. Essi sono infatti sinonimi: l’ego è pramāda, e pramāda è l’ego.

Nella veglia e nel sogno pramāda si manifesta come attenzione a cose diverse da noi stessi, che sono ciò che è chiamato ‘pensiero’. Nel sonno, tuttavia, tutti i pensieri sprofondano insieme con il nostro ego, che è sia la radice che il fondamento, così pramāda in quel momento non è manifesta (cioè, non sembra esistere), ma la ragione per cui non si manifesta è che lo stesso ego nel sonno non esiste, e quindi nel sonno non c’è nessuno ad essere auto-negligente. Ciò che esiste nel sonno è solo pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, e la pura auto-consapevolezza non può mai essere auto-negligente perché la sua vera natura è di essere sempre consapevole si sé stessa come è.

Allora perché l’ego non è annientato nel sonno? Solo perché esso cade nel sonno senza essere acutamente auto-attentivo, e quindi senza distruggere la sua pramāda. Poiché questo ego e il suo pramāda sembrano esistere solo nella veglia e nel sogno, possono essere annientati solo in uno o l’altro di questi due stati (che non sono realmente due stati, perché ogni sogno mentre lo stiamo sperimentando sembra essere il nostro stato di veglia, e ogni stato che sembra essere il nostro stato di veglia è realmente solo un altro sogno). E poiché questo ego sembra esistere solo perché è auto-negligente, può annientare sé stesso solo essendo auto-attentivo. Nel sonno esso non sembra esistere, così non può essere auto-attentivo, ma nella veglia e nel sogno sembra esistere, così può e deve cercare di essere più possibile auto-attentivo.

Quindi quando pratichiamo l’auto-investigazione (ātma-vicāra) il nostro fine non è essere liberi dai pensieri ma è solo essere acutamente auto-attentivi. Nella misura in cui la nostra attenzione è focalizzata acutamente su noi stessi essa sarà ritirata da ogni altra cosa, così poiché nessun pensiero può sorgere o sembrare esistere se non diamo ad esso attenzione, se riusciamo ad attendere solo a noi stessi saremo liberi dai pensieri (o ‘fuori dal movimento del pensiero’ come tu lo esprimi). Quindi la libertà dai pensieri non è il nostro fine ma solo una conseguenza del nostro fine, che è essere attentivamente consapevoli solo di noi stessi.

6. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam verso 6: lasciamo comparire o scomparire i pensieri, non dovrebbero essere un nostro interesse

Se realmente focalizziamo la nostra intera attenzione su noi stessi, non noteremo neppure se qualunque pensiero esiste o no, così la presenza o assenza dei pensieri non dovrebbe essere un nostro interesse. Se siamo interessati ad essi, li staremo pensando, e quindi la nostra attenzione non sarà esclusivamente su noi stessi. Questo è il motivo per cui nella riga finale del verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam Bhagavan ha composto in versi riguardo i pensieri (che ha spiegato sono ciò che appare come la vasta immagine in movimento di questo mondo, un film proiettato su uno schermo cinematografico): ‘நின்றிட சென்றிட; நினைவிட வின்றே’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), che significa ‘lasciali cessare o lasciali continuare; essi non esistono affatto oltre a te’.

Ciò a cui egli si riferisce come ‘te’ è Arunachala, la luce della pura auto-consapevolezza, che è il nostro sé reale, perché esso solo è ciò che è reale, così indipendentemente da esso nessun pensiero può sembrare esistere, e quindi se la nostra mente è completamente assorbita in noi stessi, non ci importerà se qualche pensiero continua a presentarsi o no. Questo è reso chiaro nel resto di questo verso, in cui egli ha composto:
உண்டொரு பொருளறி வொளியுள மேநீ
      யுளதுனி லலதிலா வதிசய சத்தி
நின்றணு நிழனிரை நினைவறி வோடே
       நிகழ்வினைச் சுழலிலந் நினைவொளி யாடி
கண்டன நிழற்சக விசித்திர முள்ளுங்
      கண்முதற் பொறிவழி புறத்துமொர் சில்லா
னின்றிடு நிழல்பட நிகரருட் குன்றே
      நின்றிட சென்றிட நினைவிட வின்றே.

uṇḍoru poruḷaṟi voḷiyuḷa mēnī
       yuḷaduṉi laladilā vatiśaya śatti
niṉḏṟaṇu niṙaṉirai niṉaivaṟi vōḍē
      nikaṙviṉaic cuṙalilan niṉaivoḷi yāḍi
kaṇḍaṉa niṙaṯcaga vicittira muḷḷuṅ
       kaṇmudaṯ poṟivaṙi puṟattumor sillā
ṉiṉḏṟiḍu niṙalpaḍa nikararuṭ kuṉḏṟē
      niṉḏṟiḍa ceṉḏṟiḍa niṉaiviḍa iṉḏṟē
.

பதச்சேதம்: உண்டு ஒரு பொருள் அறிவு ஒளி உளமே நீ. உளது உனில் அலது இலா அதிசய சத்தி. நின்று அணு நிழல் நிரை நினைவு அறிவோடே நிகழ்வினை சுழலில் அந் நினைவு ஒளி ஆடி கண்டன நிழல் சக விசித்திரம் உள்ளும் கண் முதல் பொறி வழி புறத்தும் ஒர் சில்லால் நின்றிடும் நிழல்படம் நிகர். அருள் குன்றே, நின்றிட சென்றிட; நினை விட இன்றே.

Padacchēdam (separazione delle parole): uṇḍu oru poruḷ aṟivu oḷi uḷamē nī. uḷadu uṉil aladu ilā atiśaya śatti. niṉḏṟu aṇu niṙal nirai niṉaivu aṟivōḍē nikaṙviṉai suṙalil a-n-niṉaivu oḷi āḍi kaṇḍaṉa niṙal jaga-vicittiram uḷḷum kaṇ mudal poṟi vaṙi puṟattum or sillāl niṉḏṟiḍum niṙal-paḍam nikar. aruḷ-kuṉḏṟē, niṉḏṟiḍa ceṉḏṟiḍa; niṉai viḍa iṉḏṟē.

அன்வயம்: அறிவு ஒளி உளமே நீ ஒரு பொருள் உண்டு. உனில் அலது இலா அதிசய சத்தி உளது. நின்று அணு நிழல் நினைவு நிரை அறிவோடே நிகழ்வினை சுழலில், ஒர் சில்லால் நின்றிடும் நிழல்படம் நிகர், நிழல் சக விசித்திரம் உள்ளும் கண் முதல் பொறி வழி புறத்தும் அந் நினைவு ஒளி ஆடி கண்டன. அருள் குன்றே, நின்றிட சென்றிட; நினை விட இன்றே.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): aṟivu oḷi uḷamē nī oru poruḷ uṇḍu. uṉil aladu ilā atiśaya śatti uḷadu. niṉḏṟu aṇu niṙal niṉaivu nirai aṟivōḍē nikaṙviṉai suṙalil, or sillāl niṉḏṟiḍum niṙal-paḍam nikar, niṙal jaga-vicittaram uḷḷum kaṇ mudal poṟi vaṙi puṟattum a-n-niṉaivu oḷi āḍi kaṇḍaṉa. aruḷ-kuṉḏṟē, niṉḏṟiḍa ceṉḏṟiḍa; niṉai viḍa iṉḏṟē.

Traduzione: C’è una sostanza, [che è] solo tu, il cuore, la luce di consapevolezza. In te esiste uno straordinario potere, che non è altro [che te]. [Apparendo] da [quello] insieme con la consapevolezza, successioni di sottili pensieri indistinti [ruotando] nel vortice del destino sono visti [su] lo specchio [che è] la mente-luce come un’indistinta immagine-mondo, sia all’interno che all’esterno attraverso i sensi come l’occhio, come un’immagine-ombra che si profila [o è proiettata] da un obiettivo. Collina di grazia, permetti ad essi di cessare o lasciali andare; essi non esistono affatto oltre a te.
Come Bhagavan dice nella prima frase di questo verso, solo una sostanza (poruḷ o vastu) esiste realmente, e quella è Arunachala, che è la luce della consapevolezza, il nostro cuore o centro. Quindi qualunque altra cosa sembra esistere effettivamente non esiste affatto, e ciò che sembra esistere come tutte queste cose è solo questa unica sostanza, il nostro sé reale o Arunachala.

Allora come sembrano esistere tutte le altre cose? Bhagavan spiega che è dovuto a un atiśaya śakti, un meraviglioso potere che esiste in Arunachala e non è diverso da essa. Questa atiśaya śakti è ciò che appare come la nostra mente (o come il nostro ego, che è la radice e l’essenza della nostra mente), come spiegato da Bhagavan nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?:
மன மென்பது ஆத்ம சொரூபத்தி லுள்ள ஓர் அதிசய சக்தி. அது சகல நினைவுகளையும் தோற்றுவிக்கின்றது. நினைவுகளை யெல்லாம் நீக்கிப் பார்க்கின்றபோது, தனியாய் மனமென் றோர் பொருளில்லை; ஆகையால் நினைவே மனதின் சொரூபம். நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. தூக்கத்தில் நினைவுகளில்லை, ஜகமுமில்லை; ஜாக்ர சொப்பனங்களில் நினைவுகளுள, ஜகமும் உண்டு. சிலந்திப்பூச்சி எப்படித் தன்னிடமிருந்து வெளியில் நூலை நூற்று மறுபடியும் தன்னுள் இழுத்துக் கொள்ளுகிறதோ, அப்படியே மனமும் தன்னிடத்திலிருந்து ஜகத்தைத் தோற்றுவித்து மறுபடியும் தன்னிடமே ஒடுக்கிக்கொள்ளுகிறது. மனம் ஆத்ம சொரூபத்தினின்று வெளிப்படும்போது ஜகம் தோன்றும். ஆகையால், ஜகம் தோன்றும்போது சொரூபம் தோன்றாது; சொரூபம் தோன்றும் (பிரகாசிக்கும்) போது ஜகம் தோன்றாது. மனதின் சொரூபத்தை விசாரித்துக்கொண்டே போனால் தானே மனமாய் முடியும். ‘தான்’ என்பது ஆத்மசொரூபமே. மனம் எப்போதும் ஒரு ஸ்தூலத்தை யனுசரித்தே நிற்கும்; தனியாய் நில்லாது. மனமே சூக்ஷ்மசரீர மென்றும் ஜீவ னென்றும் சொல்லப்படுகிறது.

maṉam eṉbadu ātma sorūpattil uḷḷa ōr atiśaya śakti. adu sakala niṉaivugaḷai-y-um tōṯṟuvikkiṉḏṟadu. niṉaivugaḷai y-ellām nīkki-p pārkkiṉḏṟa-pōdu, taṉiyāy maṉam-eṉḏṟōr poruḷ illai; āhaiyāl niṉaivē maṉadiṉ sorūpam. niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyam-āy illai. tūkkattil niṉaivugaḷ illai, jagam-um illai; jāgra-soppaṉaṅgaḷil niṉaivugaḷ uḷa, jagam-um uṇḍu. silandi-p-pūcci eppaḍi-t taṉṉiḍamirundu veḷiyil nūlai nūṯṟu maṟupaḍiyum taṉṉuḷ iṙuttu-k-koḷḷugiṟadō, appaḍiyē maṉam-um taṉṉiḍattilirundu jagattai-t tōṯṟuvittu maṟupaḍiyum taṉṉiḍamē oḍukki-k-koḷḷugiṟadu. maṉam ātma sorūpattiṉiṉḏṟu veḷippaḍum-pōdu jagam tōṉḏṟum. āhaiyāl, jagam tōṉḏṟum-pōdu sorūpam tōṉḏṟādu; sorūpam tōṉḏṟum (pirakāśikkum) pōdu jagam tōṉḏṟādu. maṉadiṉ sorūpattai vicārittu-k-koṇḍē pōṉāl tāṉē maṉam-āy muḍiyum. ‘tāṉ’ eṉbadu ātma-sorūpam-ē. maṉam eppōdum oru sthūlattai y-aṉusarittē niṟkum; taṉiyāy nillādu. maṉam-ē sūkṣma-śarīram eṉḏṟum jīvaṉ eṉḏṟum sollappaḍugiṟadu.

Ciò che è chiamata 'mente' è un atiśaya śakti [un potere straordinario o meraviglioso] che esiste in ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale]. Esso proietta tutti i pensieri [o causa l'apparenza di tutti i pensieri]. Quando si mettono da parte tutti i pensieri e si osserva, da sola non c'è una cosa come 'la mente'; quindi solo il pensiero è la svarūpa [la 'forma propria' o natura fondamentale] della mente. Eccetto i pensieri [o idee] non c'è indipendentemente una cosa come il mondo. Nel sonno non ci sono pensieri, e [conseguentemente] anche non c'è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, e [conseguentemente] c'è anche un mondo. Esattamente come un ragno produce il filo della tela da sé stesso ed anche ritira il filo in sé stesso, così la mente proietta il mondo da sé stessa ed anche lo dissolve in sé stessa. Quando la mente esce da ātma-svarūpa, il mondo appare. Perciò quando il mondo appare, svarūpa [la nostra 'forma' o sé essenziale] non appare [come realmente è]; quando svarūpa appare (risplende) [come realmente è], il mondo non appare. Se si continua a investigare la natura della mente, solo il sé risulterà essere [ciò che ora appare come] la mente. Ciò che [qui] è chiamato 'sé' (tāṉ) è solo ātma-svarūpa. La mente si regge soltanto cercando sempre [conformandosi o attaccando sé stessa a] uno sthūlam [qualcosa di grossolano, vale a dire un corpo fisico]; da sola essa non si regge. La mente da sola è descritta come sūkṣma sarīra [il corpo sottile] e come jīva [l'anima].
Sebbene ciò che Bhagavan ha scritto in questo paragrafo è stato da lui stesso adattato da una delle sue risposte registrate da Sivaprakasam Pillai diversi anni prima di aver composto Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, esso serve come il proprio commentario a ciò che scrisse nella seconda e terza frase di questo verso, usando una differente analogia e spiegando in modo più elaborato come il mondo e ogni cosa diversa da noi stessi sia solo una serie di pensieri proiettati dalla nostra mente, che è un potere straordinario (atiśaya śakti) che esiste nel proprio sé reale (ātma-svarūpa) e non diverso da esso, come scopriremo se lo investighiamo abbastanza persistentemente e accuratamente. Tuttavia, sebbene questa mente non è realmente niente altro che il nostro sé reale, finché permettiamo ad essa di sorgere e proiettare pensieri, ci impedisce di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

Quindi questa mente e i suoi pensieri sono la sola causa di tutti i nostri problemi. Perché allora Bhagavan dice nell’ultima riga di questo verso, ‘நின்றிட சென்றிட’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa), che significa ‘lascia esso [o essi] cessare o lascia esso [o essi] andare’? Egli intende realmente che non importa se questa mente e i suoi pensieri appaiono o no? In un senso non importa affatto, perché essi sono solo un’apparenza illusoria che sembra esistere solo nella visione auto-ignorante di questa mente, e ciò che esiste realmente è solo il nostro sé reale, che è sempre consapevole solo di sé stesso come è realmente. Comunque questa non è la ragione principale per cui egli dice ‘lasciali cessare o lasciali andare’, perché finché essi sembrano esistere nella nostra visione, stiamo sperimentando noi stessi come questa mente e quindi sembriamo essere in un grave problema, così è necessario cercare di mettere fine a questa intera illusione.

La ragione principale per cui egli dice, ‘நின்றிட சென்றிட’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa), ‘lasciali cessare o lasciali andare’, è che questa è l’attitudine che dobbiamo avere verso tutti i pensieri se intendiamo liberarci interamente da essi. Così finché siamo interessati anche minimamente all’comparsa o scomparsa dei pensieri (e conseguentemente di qualsiasi fenomeno, poiché i fenomeni e quindi questo intero mondo sono solo ‘அணு நிழல் நினைவு நிரை’ (aṇu niṙal niṉaivu nirai), una ‘serie di sottili pensieri indistinti’) la nostra attenzione non è focalizzata interamente su noi stessi, e finché la nostra attenzione non è focalizzata interamente su noi stessi questa mente e i suoi pensieri continueranno apparentemente ad esistere. Quindi abbiamo bisogno di essere completamente indifferenti alla comparsa o scomparsa dei pensieri, ed essere interessati solo ad attendere soltanto a noi stessi.

La mente o suoi pensieri non esistono oltre al nostro sé reale, come Bhagavan indica nella proposizione finale di questo verso, ‘நினைவிட வின்றே’ (niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), che significa ‘essi non esistono affatto oltre a te’ (o più letteralmente, ‘essi non esistono affatto quando lasciano te’), perché il nostro sé reale è ‘ஒரு பொருள்’ (oru poruḷ), l’’unica sostanza’ a cui egli si riferisce nella prima frase di questo verso. Tuttavia, finché essi sembrano esistere nella nostra visione, distraggono la nostra attenzione lontano da noi stessi, e finché la nostra attenzione è distratta lontano verso qualsiasi altra cosa, non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Questa è il semplice segreto che Bhagavan ci ha rivelato, ed esso è la chiave essenziale per risolvere tutti i nostri problemi insieme con la loro radice, il nostro ego o mente. Così finché diamo attenzione o siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, così per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, dobbiamo attendere a ed essere consapevoli solo di noi stessi, e questa attitudine di completa indifferenza è ciò che Bhagavan ha espresso quando ha composto, ‘நின்றிட சென்றிட; நினைவிட வின்றே’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), ‘lasciali cessare o lasciali andare; essi non esistono affatto oltre a te’.

7. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam verso 7: ogni volta che può comparire un pensiero, dovremmo investigare noi stessi, a chi esso è comparso

Le cose diverse da noi stessi (vale a dire la nostra mente e tutti i suoi pensieri) sembrano esistere solo quando siamo interessati ad essi, e anche il minimo interesse per essi li farà sorgere e li sosterrà, così non dovremmo avere interesse per qualunque di essi. Se appaiono, dovremmo ricordare che lo fanno solo perché siamo consapevoli di essi, così li dovremmo considerare come un promemoria per noi stessi, l’‘io’ che è consapevole di essi. In altre parole, l’apparenza o sorgenza di qualsiasi pensiero o fenomeno dovrebbe ricordarci di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi, il ‘me’ a cui essi sono apparsi, come Bhagavan ci consiglia di fare proprio nel verso successivo, il verso 7, di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam:
இன்றக மெனுநினை வெனிற்பிற வொன்று
      மின்றது வரைபிற நினைவெழி லார்க்கெற்
கொன்றக முதிதல மெதுவென வுள்ளாழ்ந்
      துளத்தவி சுறினொரு குடைநிழற் கோவே
யின்றகம் புறமிரு வினையிறல் சன்ம
      ன்புதுன் பிருளொளி யெனுங்கன விதய
மன்றக மசலமா நடமிடு மருண
      மலையெனு மெலையறு மருளொளிக் கடலே.

iṉḏṟaha meṉuniṉai veṉiṟpiṟa voṉḏṟu
      miṉḏṟadu varaipiṟa niṉaiveṙi lārkkeṟ
koṉḏṟaha mudithala meduveṉa vuḷḷāṙn
      duḷattavi cuṟiṉoru kuḍainiḻaṟ kōvē
yiṉḏṟaham puṟamiru viṉaiyiṟal jaṉma
      miṉbutuṉ biruḷoḷi yeṉuṅkaṉa vidaya
maṉḏṟaha macalamā naḍamiṭu maruṇa
      malaiyeṉu melaiyaṟu maruḷoḷik kaḍalē
.

பதச்சேதம்: இன்று அகம் எனும் நினைவு எனில், பிற ஒன்றும் இன்று. அது வரை, பிற நினைவு எழில், ‘ஆர்க்கு?’, ‘எற்கு’, ஒன்று ‘அகம் உதி தலம் எது?’ என. உள் ஆழ்ந்து உள தவிசு உறின், ஒரு குடை நிழல் கோவே. இன்று அகம் புறம், இரு வினை, இறல் சன்மம், இன்பு துன்பு, இருள் ஒளி எனும் கனவு. இதய மன்று அகம் அசலமா நடமிடும் அருணமலை எனும் எலை அறும் அருள் ஒளிக் கடலே.

Padacchēdam (separazione delle parole): iṉḏṟu aham eṉum niṉaivu eṉil, piṟa oṉḏṟum iṉḏṟu. adu varai, piṟa niṉaivu eṙil, ‘ārkku?’, ‘eṟku’, oṉḏṟu ‘aham udi thalam edu?’ eṉa. uḷ āṙndu uḷa tavicu uṟiṉ, oru kuḍai niḻal kōvē. iṉḏṟu aham puṟam, iru viṉai, iṟal jaṉmam, iṉbu tuṉbu, iruḷ oḷi eṉum kaṉavu. idaya-maṉḏṟu aham acalamā naḍam-iḍum aruṇamalai eṉum elai-aṟum aruḷ oḷi-k kaḍalē.

அன்வயம்: அகம் எனும் நினைவு இன்று எனில், பிற ஒன்றும் இன்று. அது வரை, பிற நினைவு எழில், ‘ஆர்க்கு?’, ‘எற்கு’, ‘அகம் உதி தலம் எது?’ என ஒன்று. உள் ஆழ்ந்து உள தவிசு உறின், ஒரு குடை நிழல் கோவே. அகம் புறம், இரு வினை, இறல் சன்மம், இன்பு துன்பு, இருள் ஒளி எனும் கனவு இன்று. இதய மன்று அகம் அசலமா நடமிடும் அருணமலை எனும் எலை அறும் அருள் ஒளிக் கடலே.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): aham eṉum niṉaivu iṉḏṟu eṉil, piṟa oṉḏṟum iṉḏṟu. adu varai, piṟa niṉaivu eṙil, ‘ārkku?’, ‘eṟku’, ‘aham udi thalam edu?’ eṉa oṉḏṟu. uḷ āṙndu uḷa tavicu uṟiṉ, oru kuḍai niḻal kōvē. aham puṟam, iru viṉai, iṟal jaṉmam, iṉbu tuṉbu, iruḷ oḷi eṉum kaṉavu iṉḏṟu. idaya-maṉḏṟu aham acalamā naḍam-iḍum aruṇamalai eṉum elai-aṟum aruḷ oḷi-k kaḍalē.

Traduzione: Se il pensiero chiamato ‘io’ non esiste, anche un altro [pensiero o cosa] non esisterà. Fino ad allora, se qualche altro pensiero sorge, fonditi [interiormente investigando] in questo modo: a chi [esso è apparso]; a me; qual è il luogo da cui l’io è sorto? Immergendosi [quindi] interiormente, se uno raggiunge il trono del cuore, [uno sarà] il vero imperatore [seduto sotto] l’ombra di un singolo ombrello [vale a dire Dio]. Il sogno [della dualità], che consiste di [coppie di opposti come] interno ed esterno, i due karma [buone e cattive azioni], morte e nascita, felicità e infelicità, oscurità e luce, [allora] non esisterà. [Ciò che esisterà è] solo l’oceano infinito della luce di grazia chiamata Arunamalai, che danza immobile [come ‘io sono solo io’] nella corte del cuore.
La radice di tutti i pensieri è solo questo ego, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, perché ciò che è consapevole dell’esistenza apparente di ogni altro pensiero è solo questo pensiero primario, che è ciò che sembriamo essere ogni volta che siamo consapevoli di pensieri – cioè, di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi Bhagavan inizia questo verso dicendo, ‘இன்று அகம் எனும் நினைவு எனில், பிற ஒன்றும் இன்று’ (iṉḏṟu aham eṉum niṉaivu eṉil, piṟa oṉḏṟum iṉḏṟu), che significa ‘Se il pensiero chiamato ‘io’ non esiste, anche un altro [pensiero o cosa] non esisterà’.

Quindi se non sorgiamo come questo ego, nessun altro pensiero può sorgere, così saremo consapevoli soltanto di noi stessi, e poiché niente altro che noi stessi esiste realmente, essere consapevoli di noi stessi soltanto è il nostro stato naturale e reale – lo stato in cui siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Tuttavia se sorgiamo come questo ego, altri pensieri sorgeranno insieme con noi, così dovremmo considerare l’apparenza di ogni altro pensiero come un promemoria che siamo sorti come questo ego, divenendo quindi consapevoli di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, e quindi dovremmo immediatamente rivolgere la nostra attenzione a noi stessi per vedere ciò che siamo realmente.

Questa pratica di investigare noi stessi ogni volta che diveniamo consapevoli di qualsiasi pensiero [ogni cosa diversa da noi stessi soltanto) è ciò che Bhagavan ci insegna nella seconda frase di questo verso: ‘அது வரை, பிற நினைவு எழில், ஆர்க்கு, எற்கு, ஒன்று அகம் உதி தலம் எது என’ (adu varai, piṟa niṉaivu eṙil, ārkku, eṟku, oṉḏṟu aham udi thalam edu eṉa), che significa ‘Fino ad allora [cioè, finché né l’ego né ogni altra cosa esiste], se qualche altro pensiero sorge, fonditi [interiormente investigando] in questo modo: a chi [esso è apparso]; a me; qual è il luogo da cui l’io è sorto?’. ‘அகம் உதி தலம்’ (aham udi thalam) o ‘அகம் உதி ஸ்தலம்’ (aham udi sthalam), che significa ‘il luogo sorgente di io’, è solo noi stessi, perché siamo metaforicamente il ‘luogo’ o ‘terreno’ da cui siamo sorti come questo ego, così investigando cos’è questo ‘அகம் உதி தலம்’ (aham udi thalam) o ‘luogo da cui l’io è sorto’ significa investigare noi stessi, la sorgente da cui siamo sorti come questo ego.

Quindi piuttosto che trattare i pensieri come nemici che dobbiamo sgominare, dovremmo trattarli come amici che sono venuti a ricordarci di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi, il ‘me’ a cui essi appaiono e senza il quale essi non sembrerebbero neppure esistere. In questo contesto il termine ‘pensiero’ non significa solo chiacchierio mentale, ricordi, aspettative, speranze, paure e così via, ma fenomeni di qualunque genere, incluso questo e ogni altro mondo, perché secondo Bhagavan tutti i fenomeni – ogni cosa diversa dalla nostra auto-consapevolezza fondamentale – sono solo pensieri proiettati e sperimentati da noi stessi come questo ego o mente.

Poiché sorgiamo e ci reggiamo come questo ego, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, solo proiettando pensieri nella nostra consapevolezza, se rivolgiamo la nostra intera attenzione a noi stessi, escludendo quindi ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza, sprofonderemo in noi stessi, la sorgente da cui siamo sorti, e quindi rimarremo come la pura auto-consapevolezza che siamo realmente, che è ciò che Bhagavan intende quando dice, ‘உள் ஆழ்ந்து உள தவிசு உறின், ஒரு குடை நிழல் கோவே’ (uḷ āṙndu uḷa tavicu uṟiṉ, oru kuḍai niḻal kōvē), che significa ‘Immergendosi interiormente, se si raggiunge il trono del cuore, [uno sarà] il vero imperatore [seduto sotto] l’ombra di un singolo ombrello’, in cui il termine ‘ஒரு குடை நிழல் கோவே’ (oru kuḍai niḻal kōvē), che significa letteralmente ‘il vero imperatore [seduto sotto] l’ombra di un singolo ombrello’, si riferisce a Dio come il signore supremo di questo e di ogni altro mondo.

Poiché il nostro ego sarà quindi completamente dissolto nella chiara luce di pura auto-consapevolezza, e poiché niente altro può esistere in sua assenza (come egli ha detto nella prima frase di questo verso), nella frase successiva dice, ‘இன்று அகம் புறம், இரு வினை, இறல் சன்மம், இன்பு துன்பு, இருள் ஒளி எனும் கனவு’ (iṉḏṟu aham puṟam, iru viṉai, iṟal jaṉmam, iṉbu tuṉbu, iruḷ oḷi eṉum kaṉavu), che significa ‘Il sogno [della dualità], che consiste di [coppie di opposti come] interno ed esterno, i due karma [azioni buone e cattive], morte e nascita, felicità e infelicità, oscurità e luce, [allora] non esisteranno’, e nella frase finale egli intende che ciò che allora esisterà (e che sempre esiste realmente) è ‘இதய மன்று அகம் அசலமா நடமிடும் அருணமலை எனும் எலை அறும் அருள் ஒளிக் கடலே’ (idaya-maṉḏṟu aham acalamā naḍam-iḍum aruṇamalai eṉum elai-aṟum aruḷ oḷi-k kaḍalē), che significa ‘solo l’oceano senza limiti [o infinito] della luce di grazia chiamata Arunamalai, che danza immobile [come ‘io sono io’] nella corte del cuore’.

8. Nāṉ Yār? paragrafo 6: se investighiamo accuratamente noi stessi, la nostra mente sprofonderà insieme con tutti i suoi pensieri

La semplice indicazione di investigare persistentemente noi stessi che egli ci ha dato nella seconda frase di questo verso è un conciso riassunto del mezzo che Bhagavan aveva spiegato in precedenza a Sivaprakasam Pillai e che aveva poi incorporato nella prima metà del sesto paragrafo di Nāṉ Yār?:
நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும். நானார் என்னும் நினைவு மற்ற நினைவுகளை யெல்லா மழித்துப் பிணஞ்சுடு தடிபோல் முடிவில் தானு மழியும். பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும். எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன? ஜாக்கிரதையாய் ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால் எனக்கென்று தோன்றும். நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்; எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும். இப்படிப் பழகப் பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது.

nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum. nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu maṯṟa niṉaivugaḷai y-ellām aṙittu-p piṇañ-cuḍu taḍi-pōl muḍivil tāṉ-um aṙiyum. piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṟku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum. ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa? jāggiratai-y-āy ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum. nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṟku-t tirumbi-viḍum; eṙunda v-eṇṇamum aḍaṅgi-viḍum. ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṟku-t taṉ piṟappiḍattil taṅgi niṟgum śakti y-adhikarikkiṉḏṟadu.

Solo per mezzo dell'investigazione chi sono io la mente sprofonderà [nel senso di cessare per sempre di esistere]. Lo stesso pensiero chi sono io [cioè, l’attentività con cui uno investiga cosa è], avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine sarà distrutto come il bastone usato per bruciare un cadavere [un bastone che è usato per smuovere una pira funeraria e per garantire che il cadavere bruci completamente]. Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli, è necessario investigare a chi sono venuti in mente. Per quanti pensieri sorgono, cosa [importa]? Non appena si presenta ogni pensiero, se si investiga in modo vigilante a chi esso viene in mente, sarà chiaro che la risposta sarà 'a me'. Se si investiga [in questo modo] ‘chi sono io?’, la mente ritornerà al proprio luogo di nascita [sé stessi, la sorgente dalla quale è sorta]; il pensiero che è sorto anche cesserà. Quando si pratica e pratica in questo modo, il potere della mente di rimanere fermamente stabilita nel proprio luogo di nascita aumenterà.
Ciò che egli ci insegna in queste otto frasi è molto importante, e quindi è necessario comprenderlo chiaramente ed assorbirlo profondamente, così ora consideriamo attentamente il significato e l’implicazione di ciascuna di esse.

Prima frase: la mente può essere annientata solo dall’auto-investigazione

Come egli dice nel verso 13 di Upadēśa Undiyār, la cessazione della mente è di due tipi, laya, che significa qualsiasi stato temporaneo di cessazione, come il sonno, e nāśa, che significa completo annientamento della mente insieme con la sua radice, l’ego, e che è quindi permanente. Nella prima frase di questo paragrafo il verbo அடங்கும் (aḍaṅgum) significa cesserà, sprofonderà, si ritirerà, scomparirà, cederà o sarà sottomesso, così secondo il contesto esso potrebbe riferirsi a manōlaya o a manōnāśa, ma in questo contesto egli lo sta usando in modo specifico nel senso di ‘cesserà permanentemente di esistere’, così si riferisce solo a manōnāśa, perché quando cade nel sonno la mente sprofonda semplicemente a causa di stanchezza, e può essere fatta sprofondare temporaneamente da altri mezzi come l’anestesia o certi esercizi yōgici come il prāṇāyāma (come egli dice nell’ottavo paragrafo). Quindi sebbene questa prima frase, ‘நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்’ (nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum), significhi letteralmente ‘Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io la mente cesserà’ ciò che questo significa chiaramente è ‘Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io la mente sarà annientata’.

Il motivo per cui è così è semplice e logicamente convincente. Come Bhagavan dice nel verso 18 di Upadēśa Undiyār, il termine ‘mente’ è usato generalmente per riferirsi a tutti i pensieri collettivamente, ma poiché la radice di tutti i pensieri è solo l’ego, che è il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, e poiché nessun altro pensiero potrebbe sembrare esistere se l’ego non fosse consapevole di esso, ciò che la mente è essenzialmente è solo questo ego. Quindi la mente può essere annientata solo quando questo ego è annientato, e poiché questo ego è una conoscenza errata o un’esperienza illusoria di noi stessi – una falsa consapevolezza di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente – può essere annientato solo dalla conoscenza corretta di noi stessi (ātma-jñāna), che significa chiara consapevolezza di noi stessi come siamo realmente. Dunque, poiché possiamo annientare il nostro ego e mente solo vedendo noi stessi come siamo realmente, e poiché possiamo vedere qualcosa solo se la guardiamo, possiamo dedurre logicamente che per vedere ciò che siamo realmente e quindi sradicare l’illusione di essere questo ego dobbiamo guardare solo noi stessi.

In questo contesto i verbi ‘vedere’ e ‘guardare’ sono usati in senso metaforico, perché ciò che siamo realmente è solo pura consapevolezza (consapevolezza che è consapevole di nient’altro che sé stessa), così non possiamo guardare o vedere noi stessi nel senso letterale di guardare e vedere con i nostri occhi fisici, ma solo nel senso metaforico di guardare e vedere con l’occhio della nostra consapevolezza. In altre parole, ‘guardare noi stessi’ significa acutamente osservare o attendere a noi stessi (cioè, alla nostra auto-consapevolezza fondamentale e sempre presente, che è ciò che siamo realmente), e ‘vedere noi stessi’ significa essere chiaramente consapevoli di noi stesi come siamo realmente.

Se non attentiamo esclusivamente a noi stessi, non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente e quindi non possiamo annientare il nostro ego, che è una consapevolezza illusoria di noi stessi come qualcosa diversa dalla pura auto-consapevolezza che siamo realmente. Una ragione per cui è così è che (come abbiamo appena visto) non possiamo vedere qualcosa se non la guardiamo, e ugualmente non possiamo essere consapevoli di qualcosa se non attendiamo ad essa, così per vedere o essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente dobbiamo guardare acutamente o attendere a noi stessi. Tuttavia, per comprendere ancora più chiaramente perché deve essere così, è necessario che consideriamo ciò che segue:

Diveniamo consapevoli di cose diverse da noi stessi (che percepiamo come oggetti) solo quando siamo consapevoli di noi stessi come questo ego (che è il soggetto o chi percepisce), come possiamo comprendere facilmente considerando accuratamente la nostra esperienza di noi stessi nei tre stati alternanti di veglia, sogno e sonno. Mentre siamo nel sonno non sperimentiamo noi stessi come questo ego e di conseguenza non siamo consapevoli di qualunque altra cosa, ma appena ci svegliamo o iniziamo a sognare, diveniamo consapevoli di noi stessi come questo ego e di conseguenza diveniamo consapevoli di cose diverse da noi stessi, e finché cadiamo nuovamente nel sonno o sprofondiamo in qualche altro stato simile di manōlaya continuiamo ad essere consapevoli di noi stessi come questo ego e di conseguenza di cose diverse da noi stessi.

Quindi c’è un’associazione costante (una concomitanza invariabile) tra la nostra consapevolezza di noi stessi come questo ego (il soggetto) e la nostra consapevolezza di altre cose (oggetti). Ogni volta che siamo consapevoli di noi stessi come questo ego, siamo anche consapevoli di altre cose, e ogni volta che siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, siamo consapevoli di noi stessi come questo ego. Questo è perché Bhagavan osserva nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu che l’ego ha origine, dura e prospera solo per mezzo di ‘உரு பற்றி’ (uru paṯṟi), che significa letteralmente afferrare, aggrapparsi a o sostenersi sulla forma, e che implica sostenere fenomeni (qualsiasi cosa diversa da sé stesso) nella sua consapevolezza, o in altre parole, attendere a e quindi essere consapevoli di cose diverse da sé stesso. Ogni volta che non siamo consapevoli di qualsiasi altra cosa, nessun ego sembra esistere, ma ogni volta che siamo consapevoli di qualsiasi altra cosa, sembriamo essere questo ego.

Quindi, poiché non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente finché confondiamo noi stessi come questo ego, la cui natura è di essere consapevole di cose diverse da sé stesso, non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi, poiché possiamo annientare il nostro ego solo essendo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, non possiamo annientarlo finché continuiamo ad attendere a o ad essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi è solo attendendo soltanto a noi stessi, escludendo quindi ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza, che possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente e quindi sradicare l’illusione di essere questo ego che afferra la forma e che conosce gli oggetti. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella prima frase di questo paragrafo, ‘நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்’ (nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum), che significa ‘Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io la mente cesserà [nel senso di cessare per sempre di esistere]’.

Il termine ‘நானார் என்னும் விசாரணை’ (nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai) significa ‘investigazione chi sono io’, così poiché possiamo investigare chi o cosa siamo solo osservando o attendendo acutamente a noi stessi, significa semplicemente essere auto-attentivi, e come abbiamo appena considerato, per investigare noi stessi con successo e quindi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente dobbiamo attendere a noi stessi così acutamente da farci escludere completamente ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza. Questo significa che non possiamo riuscire ad essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente finché siamo consapevoli di qualunque pensiero, così nelle poche frasi successive di questo paragrafo Bhagavan ci insegna come possiamo attrarre costantemente la nostra attenzione a noi stessi, distogliendola lontano da qualunque pensiero possa apparire.

Seconda frase: dopo aver consumato tutti gli altri pensieri, la stessa auto-attentività sarà consumata

Nella seconda frase egli dice, ‘நானார் என்னும் நினைவு மற்ற நினைவுகளை யெல்லா மழித்துப் பிணஞ்சுடு தடிபோல் முடிவில் தானு மழியும்’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu maṯṟa niṉaivugaḷai y-ellām aṙittu-p piṇañ-cuḍu taḍi-pōl muḍivil tāṉ-um aṙiyum), che significa ‘Il pensiero chi sono io, avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine sarà anch’esso distrutto come un bastone usato per bruciare i cadaveri’. Ciò a cui si riferisce qui come ‘நானார் என்னும் நினைவு’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu), che significa letteralmente il pensiero chi sono io’, è ciò a cui si è riferito nella frase precedente come நானார் என்னும் விசாரணை’ (nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai), che significa ‘l’investigazione chi sono io’, così implica auto-attentività, aggrappandoci con persistenza alla quale distruggeremo tutti gli altri pensieri.

Perché egli descrive questa auto-investigazione o auto-attentività come un ‘pensiero’? Generalmente egli usa il termine ‘pensiero’ per intendere qualsiasi cosa diversa dalla nostra auto-consapevolezza fondamentale, che è ciò che siamo realmente, così dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è pensare, perché comporta il proiettare pensieri ed essere simultaneamente consapevoli di essi. Quindi poiché ‘pensare’ può essere definito dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, ‘pensiero’ può ugualmente essere definito come attenzione a queste cose. Quindi (come ho spiegato nello stesso contesto in un articolo precedente, Il pensiero di sé stessi distruggerà tutti gli altri pensieri), in senso metaforico attendere a noi stessi può essere descritto come ‘pensare di sé stessi’ e l’auto-attentività può essere descritta come ‘pensiero di sé stessi’.

Questo è il motivo per cui nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? egli descrive l’auto-attentività come ‘ஆன்மசிந்தனை’ (āṉma-cintaṉai), che è una forma Tamil del termine Sanscrito आत्मचिन्तन’ (ātma-cintana), che significa ‘pensare di sé stessi’, ‘pensiero di sé stessi’ o ‘auto-contemplazione’, e nel decimo paragrafo egli lo descrive come ‘சொரூபத்யானம்’ (sorūpa-dhyāṉam), che è una forma Tamil del termine Sanscrito ‘स्वरूपध्यान’ (svarūpa-dhyāna), che significa ‘meditazione su sé stessi’, ‘auto-meditazione’ o ‘auto-contemplazione’. Quindi poiché l’auto-attentività (‘pensiero di sé stessi’) è l’attentività (‘pensiero’) con cui investighiamo chi siamo, nella seconda frase del sesto paragrafo egli lo descrive come ‘நானார் என்னும் நினைவு’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu), il ‘pensiero chi sono io’.

Tuttavia, benché egli descrive metaforicamente l’auto-attentività come ‘pensiero di sé stessi’ o ‘pensare di sé stessi’, non è un pensiero o un atto di pensare in senso letterale, perché pensare è un’attività mentale e il pensiero è il prodotto di tale attività, mentre l’auto-attentività non è un’attività ma solo uno stato di essere semplicemente auto-consapevoli, che è essere come siamo realmente. Inoltre pensare comporta dare attenzione a cose diverse da noi stessi è quindi è il mezzo con cui il nostro ego sorge e nutre sé stesso, mentre essere auto-attentivi causa lo sprofondamento del nostro ego, così è proprio l’antitesi di pensare.

Questo è il motivo per cui in questa seconda frase Bhagavan dice che l’auto-attentività, il ‘pensiero chi sono io’, distruggerà tutti gli altri pensieri. Ma perché egli dice ‘முடிவில் தானு மழியும்’ (muḍivil tāṉ-um aṙiyum), che significa ‘alla fine esso stesso sarà distrutto’? La ragione è che l’attenzione è una funzione del nostro ego, perché è sua abilità quella di focalizzare la sua consapevolezza su una o più cose e quindi essere consapevole di quelle cose più di altre, così senza l’ego non ci sarebbe una cosa come l’attenzione o l’attentività. Come siamo realmente, siamo consapevoli di nient’altro che noi stessi, così in quello stato non c’è motivo di essere auto-attentivi e nessun bisogno di esserlo, perché non c’è niente altro a cui potremmo attendere o di cui potremmo essere consapevoli. Quindi poiché l’ego sprofonderà ed infine sarà annientato dall’essere attentivamente auto-consapevole, appena è distrutto dalla sua auto-attentività essa sarà distrutta insieme con esso, e ciò che rimarrà è solo pura auto-consapevolezza, che è sempre come è e quindi non necessita di essere auto-attentiva.

L’analogia che egli usa per illustrare ciò è ‘பிணஞ்சுடு தடிபோல்’ (piṇañ-cuḍu taḍi-pōl), che significa ‘come un bastone per bruciare i cadaveri’ si riferisce a un bastone che è usato per smuovere una pira funeraria per assicurarsi che il cadavere bruci completamente. Proprio come un bastone sarà anch’esso bruciato nel processo di assicurarsi questo, nel processo di distruggere tutti gli altri pensieri l’auto-attentività stessa sarà dissolta nella brillante e ardente luce di pura auto-consapevolezza.

Questa cessazione definitiva dell’auto-attentività dopo che essa ha sradicato tutti gli altri pensieri insieme con la loro radice, l’ego, è ciò che Bhagavan qualche volta ha descritto come la subisdenza di sphuraṇa. In questo contesto ‘sphuraṇa’ significa ‘risplendere’, o ‘raggiare’ o ‘brillare chiaramente’ e si riferisce alla fresca chiarezza di auto-consapevolezza che sperimentiamo come risultato di essere acutamente auto-attentivi (come ho spiegato in maggiore dettaglio in diversi articoli che ho scritto riguardo il termine sphuraṇa), così ‘sphuraṇa’ e ‘ahaṁ-sphuraṇa’ sono termini che egli ha usato come sinonimi di acuta auto-attentività, che è ciò che descrive qui come il ‘pensiero chi sono io’.

Un’analogia che Bhagavan spesso ha usato spiegando la comparsa e l’eventuale subsidenza di questo sphuraṇa è una fiamma che accende un pezzo di canfora. Proprio come una fiamma se lasciata indisturbata continuerà a bruciare la canfora finché l’ha consumata completamente, dopo di che essa cesserà e scomparirà, se ci reggiamo fermamente a questo sphuraṇa (il ‘pensiero chi sono io’ o chiarezza di auto-consapevolezza acutamente attentiva) esso consumerà gradualmente tutti i nostri altri pensieri insieme con il nostro ego, e quando li ha consumati completamente sarà esso stesso estinto, non lasciando residui oltre alla pura auto-consapevolezza, che sola esiste eternamente e che quindi ciò che solo è reale.

Terza frase: se altri pensieri compaiono, dovremmo investigare a chi sono comparsi

Per distruggere tutti gli altri pensieri abbiamo bisogno di aggrapparci fermamente e persistentemente all’auto-attentività, e per essere persistentemente auto-attentivi abbiamo bisogno di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi ogni volta che è distratta lontano verso qualsiasi altra cosa. Quindi il mezzo per rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi è descritto da Bhagavan nella terza frase di questo paragrafo: ‘பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும்’ (piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṟku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum), che significa ‘Se sorgono altri pensieri, senza cercare di completarli è necessario investigare a chi sono venuti in mente’.

Poiché secondo Bhagavan qualsiasi cosa diversa dalla nostra auto-consapevolezza fondamentale è solo una serie di pensieri proiettati dal nostro ego, che è esso stesso il primo pensiero e la radice di tutti gli altri pensieri, quando egli dice ‘பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தால்’ (piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl), che significa ‘se sorgono altri pensieri’, ciò che intende è ‘se diveniamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi’. Ugualmente quando egli dice ‘அவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல்’ (avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṟku ettaṉiyāmal), che significa ‘non [o senza] cercare [o fare sforzo] per completarli’, ciò che intende è che non dovremmo permettere alla nostra attenzione di continuare a soffermarsi su qualunque altra cosa di cui diveniamo consapevoli.

Ciò che dovremmo fare è espresso nella proposizione principale di questa frase: ‘அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும்’ (avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum), che significa ‘è necessario investigare a chi essi sono venuti in mente’ e che quindi implica che dovremmo rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi, il ‘me’ a cui è comparsa la consapevolezza di quelle altre cose. In altre parole, dovremmo rivolgere la nostra attenzione lontano da qualunque altra cosa di cui possiamo essere consapevoli, e focalizzarla verso noi stessi, quello che è consapevole di essi.

Questo è un mezzo semplice ma infallibile per recuperare la nostra auto-attentività ogni volta che siamo distratti anche minimamente dall’apparenza di qualche pensiero o consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Se abbiamo amore sufficiente per usare questo semplice indizio in ogni momento delle nostre vite di veglia e di sogno, bruceremo e sradicheremo velocemente tutte le nostre viṣaya-vāsanā (inclinazioni, impulsi o desideri ad essere consapevoli di cose diverse da noi stessi), che sono i semi che fanno sorgere la comparsa dei pensieri nella nostra consapevolezza.

Tuttavia in molti non abbiamo l'amore sufficiente per essere consapevoli soltanto di noi stessi, così abbiamo bisogno di coltivare gradualmente questo amore cercando più possibile e con persistenza di aggrapparci all’auto-attentività usando questo indizio ogni volta che notiamo di essere stati distratti da pensieri o essere stati assorbiti in essi. Tuttavia, per quante volte possiamo essere distratti, non dovremmo abbandonare la speranza, ma dovremmo solo continuare a cercare per quanto possiamo, perché più cerchiamo più le nostre viṣaya-vāsanā si indeboliranno e in corrispondenza il nostro amore per essere auto-attentivi si rafforzerà.

Quarta frase: per quanti pensieri compaiono, cosa importa?

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella quarta frase di questo paragrafo, ‘எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன?’ (ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa?), che significa ‘Per quanti pensieri possono sorgere, cosa [importa]?’. Il pronome interrogativo ‘என்ன’ (eṉṉa) significa ‘cosa’, ma in questo contesto implica chiaramente ‘e con ciò?’ o ‘cosa importa?’. Se sorgono pensieri, cosa importa? Non importa quanti sono, non importa finché ci aggrappiamo fermamente all’auto-attentività. In altre parole, per quante volte la nostra attenzione può essere distratta lontano da noi stessi da pensieri o consapevolezze di altre cose, non importa finché perseveriamo nel rivolgerci a noi stessi ogni volta che notiamo di esserci distratti.

Questa attitudine verso la comparsa dei pensieri, che egli esprime in questa frase è la stessa attitudine che ha espresso nella riga finale del verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam: ‘நின்றிட சென்றிட; நினைவிட வின்றே’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), ‘lasciali cessare o lasciali andare; essi non esistono oltre a te’. Così finché il nostro ego sopravvive continuerà a proiettare pensieri di un tipo o di un altro, ma questo non importa ammesso che ci aggrappiamo fermamente all’essere auto-attentivi e quindi evitiamo di essere distratti da essi. E anche se siamo distratti da essi, non importa ammesso che ricordiamo di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi per investigare chi sono io, questo ego a cui essi compaiono.

I pensieri divengono un problema solo se li seguiamo, dimenticando quindi di attendere acutamente a noi stessi. In sé stessi sono innocui, perché il danno è causato solo dalla nostra preferenza a dare loro attenzione. Se non diamo loro attenzione, essi si dissolveranno appena sorgono, perché possono durare solo se permettiamo alla nostra attenzione di seguirli, e se potessimo riuscire ad attendere soltanto a noi stessi, essi non inizierebbero neppure a sorgere, perché possono sorgere solo se permettiamo alla nostra attenzione di allontanarsi da noi stessi anche minimamente.

Quindi ciò che in ogni momento abbiamo bisogno di decidere è quello che vogliamo realmente. Se vogliamo dare attenzione ai pensieri, essi ci causeranno problemi senza fine, mentre se vogliamo attendere solo a noi stessi, essi ci lasceranno in pace, perché se siamo acutamente e fermamente auto-attentivi essi non sorgeranno o se sorgono si dissolveranno immediatamente. Quindi il consiglio di Bhagavan è di non interessarci ai pensieri ma di interessarci invece solo di noi stessi, essendo auto-attentivi più che possiamo.

Non importa quanti pensieri possono sorgere, se siamo acutamente intenti ad attendere soltanto a noi stessi, essi non ci infastidiranno e non avranno bisogno di farlo, perché possono disturbarci solo se diamo ad essi attenzione, e diamo ad essi attenzione solo se non vogliamo attendere soltanto a noi stessi. L’auto-attentività è quindi una soluzione semplice e infallibile per qualsiasi problema i pensieri possono causarci, così la scelta è nostra: in ogni momento siamo liberi di decidere di attendere solo a noi stessi o di permettere alla nostra attenzione di essere distratta lontano verso tutte le altre cose, che sono pensieri proiettati dalla nostra mente.

I pensieri non hanno un loro potere, perché tutto il loro potere apparente è derivato solo dalla nostra attenzione, così essi sembrano avere potere solo nella misura in cui diamo ad essi attenzione. Quindi se scegliamo di attendere solo a noi stessi, essi sono senza potere, mentre se scegliamo di dare attenzione ad essi, stiamo con questo trasferendo a loro, parzialmente, il potere della nostra consapevolezza (cit-śakti). Quindi lottare contro i pensieri in qualsiasi modo è un’attività inutile, perché non possiamo lottare contro di essi senza dare ad essi attenzione, e nella misura in cui diamo ad essi attenzione li stiamo con questo permeando del nostro potere. Quindi, poiché qualunque potere i pensieri sembrano avere è potere che noi stessi abbiamo assegnato loro dando ad essi attenzione, il solo modo per liberarci dal potere che essi sembrano avere su di noi è di attendere acutamente soltanto a noi stessi e quindi negare loro l’attenzione dalla quale dipende la loro sopravvivenza.

Quinta frase: investigare a chi compare ogni pensiero focalizzerà la nostra attenzione su noi stessi

Dopo aver indicato che non importa quanti pensieri sorgono finché perseveriamo nel cercare di reggerci fermamente nell’essere auto-attentivi, nelle quattro frasi successive egli elabora su ciò che ha detto nella terza frase, spiegando in maggiore dettaglio l’indizio che lì ci ha dato, vale a dire che non dovremmo tentare di completare ogni pensiero che può sorgere ma dovremmo invece investigare a chi esso è sorto.

Nella quarta frase egli dice, ‘ஜாக்கிரதையாய் ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால் எனக்கென்று தோன்றும்’ (jāggiratai-y-āy ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum), che significa ‘Appena ogni pensiero compare, se uno investiga con vigilanza a chi è venuto in mente, sarà chiaro: a me’. Il pensiero sembra esistere solo perché siamo consapevoli di esso, così ogni pensiero dovrebbe ricordarci di noi stessi, chi è consapevole di esso e a chi di conseguenza esso sembra esistere. Quindi piuttosto che considerare i pensieri come distrazioni, dovremmo considerarli degli avvertimenti che sono venuti a ricordarci di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi.

Tuttavia rivolgere la nostra attenzione a noi stessi appena ogni pensiero compare richiede da parte nostra una vigilanza intensa, perché se non siamo vigilanti saremo trasportati lontano dai pensieri, che tipicamente sorgono in veloce successione, uno che conduce a un altro. Quindi egli inizia questa frase con l’avverbio ஜாக்கிரதையாய் (jāggirataiyāy), che significa vigilantemente. Cioè, se siamo vigilantemente auto-attentivi, non saremo facilmente distratti da qualunque pensiero può sorgere, e anche se siamo momentaneamente distratti, la nostra vigilanza ci allerterà e quindi ci permetterà di rivolgere velocemente la nostra attenzione a noi stessi.

Per quanto possibile dovremmo cercare di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi appena è distratta da qualche pensiero, come Bhagavan indica dicendo ‘ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே’ (ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē), che significa ‘appena ogni pensiero compare [sorge, emerge o comincia]’. Se non stronchiamo ciascun pensiero nel germe rivolgendo la nostra attenzione a noi stessi appena esso sorge, saremo trasportati lontano da una rapida successione di pensieri, dimenticando quindi che la nostra intenzione era di attendere solo a noi stessi. Quindi per reggerci fermamente all’essere auto-attentivi abbiamo bisogno di essere così vigilantemente attentivi da notare appena la nostra attenzione inizia ad essere distratta da qualche altro pensiero e quindi di essere in grado di rivolgerla immediatamente a noi stessi.

Questo è il motivo per cui nella seconda frase dell’undicesimo paragrafo: ‘நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும்’ (niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum), che significa ‘Come e quando i pensieri compaiono, allora e lì è necessario annientarli per mezzo di vicāraṇā [auto-investigazione] proprio nel luogo in cui essi sorgono’. Proprio come in questa frase tratta dall’undicesimo paragrafo egli dice che il mezzo con cui possiamo annientare tutti i pensieri nella loro sorgente, che è noi stessi, il vero luogo da cui essi sorgono, è vicāraṇā, che significa investigazione e si riferisce qui in modo specifico all’auto-investigazione (ātma-vicāraṇa), nella quinta frase del sesto paragrafo egli dice ‘இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால்’ (idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl), che significa ‘se uno investiga vigilantemente a chi esso è venuto in mente [sorto, comparso o venuto in esistenza]’, indicando quindi che il mezzo per evitare di essere trasportati lontano da ogni pensiero è di investigare noi stessi, quello a cui ogni pensiero compare.

Il verso விசாரி (vicāri) significa investigare, esaminare, scrutinare o ispezionare, e il sostantivo விசாரம் (vicāram) o விசாரணை (vicāraṇai) significa investigazione, esame, scrutinio o ispezione, così poiché possiamo investigare noi stessi solo osservando acutamente o attendendo a noi stessi, ciò che egli intende dicendo ‘இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால்’ (idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl), ‘se uno investiga a chi esso è sorto’, è ‘se uno osserva acutamente a chi esso è sorto’. Quindi poiché i pensieri sorgono, vengono in mente o compaiono solo a noi stessi, egli conclude questa frase dicendo che se investighiamo o osserviamo a chi ogni pensiero è sorto, ‘எனக்கென்று தோன்றும்’ (eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum), che significa ‘sarà visibile [o chiaro] di conseguenza: a me’ o più semplicemente ‘sarà chiaro: a me’, indicando quindi che investigando in questo modo la nostra attenzione si rivolgerà a noi stessi, e di conseguenza sarà deviata lontano da qualunque pensiero aveva iniziato a sorgere. Dunque ogni volta che la nostra attenzione è distratta anche minimamente da qualche pensiero, possiamo velocemente e facilmente recuperare la nostra auto-attentività semplicemente investigando con vigilanza a chi esso è sorto.

Tuttavia, in questa frase c’è un’implicazione anche più profonda, perché se investighiamo con vigilanza a chi ciascun pensiero compare appena esso si presenta, la nostra attenzione sarà di conseguenza tenuta fermamente focalizzata su noi stessi, poiché ciascun pensiero sarà quindi dissolto appena esso tenta di distrarci. Quindi ciò che Bhagavan intende in questa frase è non solo che dovremmo rivolgere la nostra attenzione a noi stessi ogni volta che è distratta da qualche pensiero, ma che dovremmo essere così vigilantemente auto-attentivi da evitare del tutto di essere distratti dal tentativo costante del nostro ego di proiettare pensieri. Solo allora distruggeremo ogni pensiero proprio nel luogo da cui sorge (come egli dice che dovremmo fare nella seconda frase dell’undicesimo paragrafo, che ho citato sopra).

Questo è il motivo per cui è così importante la proposizione ‘ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே’ (ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē), ‘appena ogni pensiero compare [sorge, emerge o inizia]’. Se siamo così vigilantemente auto-attentivi da investigare effettivamente noi stessi, a chi ogni pensiero compare, appena esso si presenta, non daremo spazio ad alcun pensiero di svilupparsi al punto di distrarre la nostra attenzione lontano da noi stessi.

Quindi nella proposizione principale di questa frase, ‘எனக்கென்று தோன்றும்’ (eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum), ‘sarà chiaro: a me’, la parola எனக்கு (eṉakku), che è la forma dativa singolare del pronome di prima persona e quindi significa ‘a me’, non è intesa solo come la risposta alla domanda ‘A chi questo è pensiero è venuto in mente?’, perché ciò che Bhagavan sta spiegando in questa frase non è sul chiedere qualche domanda e ricevere qualche risposta (o almeno non è sul farlo letteralmente, sebbene si potrebbe dire che è fatto metaforicamente) ma è solo sull’investigare vigilantemente noi stessi, a chi ogni pensiero si presenta, e mantenendo quindi la nostra attenzione fissata fermamente e stabilmente su noi stessi. Quindi ciò che egli intende in questa frase è che se investighiamo vigilantemente a chi ogni pensiero si presenta appena inizia a comparire, ciò che risplenderà chiaramente nella nostra consapevolezza è solo noi stessi, il ‘me’ a cui esso iniziava a presentarsi.

Quindi ciò che egli spiega in questa frase è il mezzo con cui possiamo mantenere la nostra attenzione focalizzata acutamente è stabilmente soltanto su noi stessi, non dando spazio a qualsiasi pensiero (cioè, qualsiasi consapevolezza di qualunque cosa diversa da noi stessi) per svilupparsi oltre al suo tentativo iniziale di sorgere. Se manteniamo la nostra attenzione focalizzata su noi stessi così acutamente e stabilmente, la nostra mente sprofonderà in noi stessi, la sorgente da cui è sorta, come egli spiega nella prossima frase.

Sesta frase: se investighiamo chi siamo, la nostra mente sprofonderà in noi stessi, la sua sorgente

Cercare in questo modo di essere acutamente e stabilmente auto-attentivi, e rivolgere con persistenza la nostra attenzione a noi stessi ogni volta che è distratta anche minimamente da qualche pensiero o consapevolezza di qualsiasi altra cosa, è il modo per investigare chi o cosa siamo realmente. Ciò che accade alla nostra mente quando investighiamo noi stessi in questo modo è spiegato da Bhagavan nella sesta frase: ‘நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்’ (nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṟku-t tirumbi-viḍum), che significa ‘Se uno investiga chi sono io, la mente ritornerà al suo luogo di nascita’.

பிறப்பிடம் (piṟappiḍam) è un composto unito armoniosamente di பிறப்பு (piṟappu), che significa nascita, e இடம் (iḍam), che significa luogo, così ‘தன் பிறப்பிடம்’ (taṉ piṟappiḍam) significa letteralmente ‘il suo luogo di nascita’, e quindi si riferisce a noi stessi come siamo realmente, perché il nostro sé reale è la sorgente da cui siamo sorti come questo ego o mente, così è metaforicamente il suo luogo di nascita. Poiché siamo sorti come questa mente e possiamo continuare come tali solo afferrando altri pensieri (come Bhagavan indica nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu dicendo che l’ego ha origine, si regge e prospera solo ‘afferrando la forma’), quando attendiamo solo a noi stessi e quindi cessiamo di afferrare qualsiasi altra cosa, la nostra mente sprofonderà nella sua sorgente, come egli dice in questa frase.

Il verbo திரும்பிவிடும் (tirumbi-viḍum) significa ‘si volterà, ‘si rivolgerà’ o ‘ritornerà’, così in questo contesto potrebbe essere interpretato come uno di questi di sensi leggermente differenti. In un senso la mente che si rivolge al suo luogo di nascita potrebbe semplicemente intendere che la nostra attenzione si rivolgerà a noi stessi, ma sebbene è così, ciò che Bhagavan intendeva trasmettere qui è più di questo, perché quando investighiamo acutamente e vigilantemente chi sono io la nostra attenzione è già rivolta a noi stessi. Quindi ciò che egli intendeva dicendo che la mente ritornerà al suo luogo di nascita se investighiamo chi sono io è che essa sprofonderà in noi stessi, la sorgente da cui è sorta.

Dare attenzione a qualsiasi pensiero (cioè, a qualsiasi cosa diversa da noi stessi) nutre la nostra mente e la rende in grado di resistere, mentre attendere soltanto a noi stessi la priva del nutrimento che richiede e quindi causa il suo sprofondamento nella sua sorgente. Dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un’attività mentale, perché comporta il movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi verso qualche altra cosa, e finché la nostra mente è attiva non può sprofondare. Essere auto-attentivi, d’altra parte, non è un’attività mentale ma una cessazione di tutte le attività mentali, perché non comporta movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, così è uno stato di solo essere (summā iruppadu) – cioè, solo essere come siamo realmente, che comporta essere consapevoli di niente altro che noi stessi. Quindi quando focalizziamo la nostra intera attenzione acutamente e stabilmente su noi stessi, tutte le attività della nostra mente cesseranno, e quindi essa sprofonderà in noi stessi, la sua sorgente.

Settima frase: se investighiamo chi siamo, qualunque pensiero era sorto anche sprofonderà

Quando la nostra mente a causa di ciò sprofonda nella sua sorgente, qualunque pensiero era sorto sprofonderà insieme con essa, come Bhagavan dice nella settima frase: ‘எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும்’ (eṙunda v-eṇṇamum aḍaṅgi-viḍum), che significa ‘il pensiero che era sorto anche sprofonderà’. Cioè, poiché nessun pensiero può sorgere o durare se non diamo ad esso attenzione, se focalizziamo la nostra intera attenzione acutamente e stabilmente soltanto su noi stessi, qualunque pensiero può essere sorto non sarà in grado di reggersi da solo, così sprofonderà nella sua sorgente.

I pensieri sembrano essere un problema solo se diamo ad essi attenzione, così la semplice soluzione ad ogni problema causato dal sorgere dei pensieri (come lo sono tutti i problemi) è di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi, privando quindi tutti i pensieri dell’attenzione che richiedono per sorgere e crearci problemi. L’efficacia di questa soluzione è infallibile, perché nessun pensiero può sorgere o durare se non diamo ad esso attenzione almeno parzialmente.

Tuttavia per mettere in pratica questa soluzione dobbiamo avere un più grande amore per essere consapevoli soltanto di noi stessi di quanto ne abbiamo per essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, perché appena permettiamo alla nostra attenzione di scivolare da noi stessi anche in misura minima, stiamo con ciò aprendo la porta del nostro cuore ai pensieri e stiamo permettendo loro di sorgere all’interno di noi. Quindi per evitare di dare anche il minimo spazio al sorgere di qualche pensiero abbiamo bisogno di avere un amore intenso per attendere solo a noi stessi e quindi per escludere qualsiasi pensiero o consapevolezza di qualunque altra cosa. Per la maggior parte di noi, tuttavia, il nostro amore per essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi non è ancora abbastanza forte, così diamo frequentemente spazio al sorgere dei pensieri, e appena sorgono siamo da essi portati lontano se non riusciamo a rivolgere immediatamente la nostra attenzione a noi stessi.

Ottava frase: praticando con persistenza l’essere auto-attentivi, la nostra capacità di rimanere fermamente stabiliti nella nostra sorgente aumenterà

Quindi abbiamo bisogno di coltivare l'intensità di amore richiesta per essere auto-attentivi, cosa che possiamo fare solo con la pratica persistente, come Bhagavan indica nell’ottava frase: ‘இப்படிப் பழகப் பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது’ (ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṟku-t taṉ piṟappiḍattil taṅgi niṟgum śakti y-adhikarikkiṉḏṟadu), che significa ‘Quando uno pratica e pratica in questo modo, il potere della mente di rimanere fermamente stabilita nel suo luogo di nascita aumenterà’.

La śakti o potere che la mente richiede per essere in grado di rimanere fermamente stabilita nella sua sorgente, che è la pura auto-consapevolezza, è l’amore di esserlo. Rimanere fermamente stabiliti come la pura auto-consapevolezza che siamo realmente è il nostro stato naturale, così non è difficile, ma sembra difficile se non abbiamo amore sufficiente per esserlo. Se abbiamo amore sufficiente, niente può essere più facile di rimanere semplicemente come siamo realmente, così l’amore ardente di essere attentivamente consapevoli di noi stessi è il potere che abbiamo bisogno di coltivare, e possiamo coltivarlo solo cercando con persistenza di essere auto-attentivi, che è ciò a cui Bhagavan si riferisce quando dice ‘இப்படிப் பழகப் பழக’ (ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga), che significa ‘quando uno pratica e pratica in questo modo’.

La pratica con cui possiamo coltivare l’amore richiesto e la conseguente capacità di rimanere fermamente stabiliti nella nostra sorgente è quella che Bhagavan ha descritto nella frase precedente, vale a dire la pratica di cercare di essere così vigilantemente auto-attentivi da non dare spazio a qualsiasi pensiero per svilupparsi oltre il punto in cui inizia a presentarsi, e di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi ogni volta che la nostra auto-attentività diminuisce al punto da dare spazio a qualsiasi pensiero di svilupparsi e quindi di distrarci ancora più lontano da noi stessi. Così in queste otto frasi Bhagavan ci insegna chiaramente e inequivocabilmente che investigando con persistenza noi stessi in questo modo la nostra mente sprofonderà e così otterremo la capacità di rimanere fermamente stabiliti nella nostra sorgente, e che questa auto-investigazione è quindi il solo mezzo con cui possiamo annientare la nostra mente.

9. Poiché ogni cosa diversa dalla pura auto-consapevolezza è solo un pensiero, come dovremmo affrontare la comparsa di pensieri?

Ciò che Bhagavan ci insegna riguardo a come dovremmo occuparci della comparsa di pensieri è molto semplice ma nondimeno sotto certi aspetti sfumato, così se non consideriamo tutto ciò che egli ci ha insegnato molto attentamente, siamo soggetti a fraintenderlo e possiamo essere confusi da certe affermazioni che a una lettura superficiale possono sembrare contraddirsi tra loro. Per esempio, egli ci ha insegnato che non dovremmo dare spazio al sorgere di qualsiasi pensiero e che dovremmo annientarli tutti proprio alla loro sorgente appena si presentano, anche se egli ha anche detto ‘நின்றிட சென்றிட; நினைவிட வின்றே’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), ‘lasciali cessare o lasciali andare; essi non esistono oltre a te’ (nella riga finale del verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam), e ‘எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன?’ (ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa?), ‘per quanti pensieri sorgono, cosa [importa]?’ (nella quarta frase del sesto paragrafo di Nāṉ Yār?). Tuttavia, sebbene può sembrare a una lettura superficiale che il consiglio che egli ci ha dato riguardo a questo era incoerente e anche contrastante, se consideriamo attentamente tutte queste affermazioni e il contesto in cui egli disse ciascuna di esse, sarà chiaro che il suo consiglio era perfettamente coerente e in armonia.

La chiave per comprendere tutto quello che egli ci ha insegnato riguardo a come occuparci dei pensieri è di riconoscere che il suo scopo era quello di farci comprendere che il nostro solo interesse dovrebbe essere attendere a noi stessi e quindi non abbiamo bisogno e non dovremmo essere affatto interessati alla comparsa dei pensieri tranne per quanto essi dovrebbero ricordarci di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi, il ‘me’ a cui essi si presentano. Possiamo riconoscere questo considerando i seguenti esempi:

In due occasioni in Nāṉ Yār? egli ha detto che non dovremmo dare spazio ai pensieri, e in entrambe queste occasioni egli ha indicato che il mezzo per farlo è di attendere solo a noi stessi. La prima occasione è nel decimo paragrafo, nelle prime due frasi del quale ha scritto:
தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும்.

toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiram-āy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum.

Anche se viṣaya-vāsanā [desideri o tendenze a sperimentare cose diverse da sé stessi], che vengono da tempo remoto, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell’oceano, esse saranno tutte distrutte quando svarūpa-dhyāna [auto-attentività] aumenta ed aumenta. Senza dare spazio anche al pensiero di dubbio ‘È possibile dissolvere così tante vāsanā e rimanere solo come svarūpa [il mio vero sé]?’ è necessario aggrapparsi tenacemente a svarūpa-dhyāna.
Nella prima di queste due frasi egli ci insegna che il mezzo per distruggere tutte le viṣaya-vāsanā e quindi tutti i pensieri è l’auto-attentività (svarūpa-dhyāna), e nella seconda intende che aggrappandoci tenacemente all’auto-attentività non daremo spazio al sorgere di qualsiasi altro pensiero, come il pensiero ‘È possibile dissolvere così tante vāsanā e [quindi] rimanere solo come il mio vero sé?’, egli ha inteso questo anche più chiaramente nella prima frase del tredicesimo paragrafo:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhāparaṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere ātma-niṣṭhāparaṉ [uno che è fermamente fissato in sé stesso], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualche cintana [pensiero] oltre a ātma-cintana [il pensiero di sé stessi], è donare sé stessi a Dio.
Come ho spiegato sopra discutendo il significato della seconda frase del sesto paragrafo, ātma-cintana significa letteralmente ‘pensare a sé stessi’, ‘pensiero di sé stessi’ o ‘auto-contemplazione’, ma implica chiaramente essere auto-attentivi, così è un ‘pensiero’ solo in senso metaforico. Quindi quando Bhagavan dice qui ‘ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல்’ (āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal), che significa ‘non dare anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero oltre a ātma-cintana’, ciò che egli intende è che essendo acutamente auto-attentivi non stiamo dando spazio al sorgere di qualsiasi altro pensiero.

Nello stesso modo ogni volta che egli ha parlato di distruggere tutti i pensieri, come ha fatto nelle tre frasi in Nāṉ Yār?, ha reso chiaro che il mezzo per farlo è solo essere acutamente, stabilmente e persistentemente auto-attentivi. Nella seconda frase del sesto paragrafo ha scritto, நானார் என்னும் நினைவு மற்ற நினைவுகளை யெல்லா மழித்துப் பிணஞ்சுடு தடிபோல் முடிவில் தானு மழியும்’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu maṯṟa niṉaivugaḷai y-ellām aṙittu-p piṇañ-cuḍu taḍi-pōl muḍivil tāṉ-um aṙiyum), che significa ‘Il pensiero chi sono io, avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine sarà anch’esso distrutto come un bastone per bruciare i cadaveri’, e come ho spiegato precedentemente il significato inteso di ‘நானார் என்னும் நினைவு’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu), il ‘pensiero chi sono io’, è uguale a svarūpa-dhyāna e a ātma-cintana, vale a dire l’auto-attentività, così in questa frase egli intende chiaramente che ciò che distruggerà tutti gli altri pensieri è solo l’auto-attentività. Ugualmente nella prima frase del decimo paragrafo egli ha scritto, ‘தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும்’ (toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum), che significa ‘Anche se viṣaya-vāsanā, che vengono da tempo remoto, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell’oceano, essi saranno tutti distrutti quando svarūpa-dhyāna aumenta e aumenta’,così poiché viṣaya-vāsanā sono i semi che germogliano come pensieri, ciò che egli intende in questa frase è che l’auto-attentività (svarūpa-dhyāna) distruggerà tutti i pensieri insieme con i loro semi. Infine nelle prime due frasi dell’undicesimo paragrafo egli scrive:
மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும்.

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum.

Finché viṣaya-vāsanā esistono nella mente, l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando i pensieri compaiono, in quel momento e lì è necessario annientarli tutti per mezzo di vicāraṇā [investigazione o vigilante auto-attentività] proprio nel luogo da cui essi sorgono.
Poiché ‘நானா ரென்னும் விசாரணை’ (nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai), l’’investigazione chi sono io’, è un altro termine che si riferisce all’auto-attentività, nella prima di queste due frasi egli intende che l’auto-attentività è il mezzo con cui dobbiamo distruggere tutti i pensieri proprio nella loro sorgente come e quando iniziano a presentarsi. Quindi tutto ciò di cui abbiamo bisogno di interessarci è cercare di essere più possibile auto-attentivi. Non abbiamo bisogno e non dovemmo interessarci sia di non dare spazio ai pensieri sia di distruggerli, perche se ci focalizziamo sull’essere auto-attentivi i pensieri non avranno spazio per sorgere e saranno in questo modo distrutti automaticamente. Cioè, nella misura in cui focalizziamo la nostra attenzione su noi stessi, con ciò priveremo i pensieri dell’attenzione da cui dipende la loro sopravvivenza.

Le ragioni logiche per cui dovremmo credere a ciò che Bhagavan ci insegna in questi brani sono del tutto semplici ma convincenti. Poiché i pensieri sembrano esistere solo quando siamo consapevoli di essi, e poiché siamo consapevoli di essi solo quando diamo ad essi attenzione, essi non possono sorgere se non diamo loro attenzione, così se focalizziamo tutta la nostra attenzione su noi stessi e quindi li escludiamo dalla nostra consapevolezza, non staremo dando loro spazio per sorgere.

L’auto-attentività non è solo un mezzo efficace per evitare di dare spazio al sorgere di qualsiasi pensiero, ma è il solo mezzo per farlo in modo permanente. Cioè, poiché ogni cosa diversa da noi stessi è un pensiero, il solo modo per evitare di dare attenzione a qualsiasi pensiero è attendere soltanto a noi stessi o cadere nel sonno, così poiché sappiamo che cadere nel sonno ci dà solo una tregua temporanea dal dare attenzione ai pensieri, il solo mezzo con cui possiamo raggiungere una tregua permanente da essi è essere acutamente e fermamente auto-attentivi.

Inoltre, poiché i pensieri sorgono, si moltiplicano e prosperano solo quando diamo loro attenzione, la nostra attenzione è l’acqua che essi richiedono per sopravvivere e prosperare, così se non diamo loro attenzione essi si seccheranno e moriranno, come piante private dell’acqua, e i loro semi – le nostre viṣaya-vāsanā – si avvizziranno e perderanno la loro potenza, come semi seccati nel fuoco. Quindi focalizzare la nostra attenzione su noi stessi è il mezzo non solo per non dare spazio al sorgere dei pensieri ma anche per distruggerli.

Tuttavia, se il nostro amore per essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi non è estremamente intenso e quindi più forte di tutti gli altri desideri non saremo in grado di essere sempre acutamente e fermamente auto-attentivi. Quindi nel nostro caso in cui il nostro amore non è così intenso, i nostri tentativi di essere acutamente e fermamente auto-attentivi falliranno spesso, così dobbiamo continuare pazientemente a praticare con persistenza l’essere auto-attentivi più che possiamo, ogni volta che possiamo, per rafforzare gradualmente il nostro amore e indebolire le nostre viṣaya-vāsanā. Questo è ciò che Bhagavan ci insegna nel verso 27 della Bhagavad Gītā Sāram (che è una traduzione della Bhagavad Gītā 6.25):
தீரஞ்சேர் புத்தியினாற் சித்தத்தை மெல்லமெல்ல
நேரச் செயவேண்டு நிச்சலன — மாரதனே
மித்தனையு மெண்ணிடா தே.

dhīrañcēr buddhiyiṉāṯ cittattai mellamella
nērac ceyavēṇḍu niścalaṉa — mārathaṉē
cittattai yāṉmāviṟ cērttiḍuka maṯṟeduvu
mittaṉaiyu meṇṇiḍā dē
.

பதச்சேதம்: தீரம் சேர் புத்தியினால் சித்தத்தை மெல்ல மெல்ல நேர செய வேண்டும் நிச்சலன. மா ரதனே, சித்தத்தை ஆன்மாவில் சேர்த்திடுக; மற்று எதுவும் இத்தனையும் எண்ணிடாதே.

Padacchēdam (separazione delle parole): dhīram sēr buddhiyiṉāl cittattai mella mella nēra seya vēṇḍum niścalaṉa. mā rathaṉē, cittattai āṉmāvil sērttiḍuka; maṯṟu eduvum ittaṉaiyum eṇṇiḍādē.

அன்வயம்: தீரம் சேர் புத்தியினால் சித்தத்தை மெல்ல மெல்ல நிச்சலன நேர செய வேண்டும். மா ரதனே, சித்தத்தை ஆன்மாவில் சேர்த்திடுக; மற்று எதுவும் இத்தனையும் எண்ணிடாதே.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): dhīram sēr buddhiyiṉāl cittattai mella mella niścalaṉa nēra seya vēṇḍum. mā rathaṉē, cittattai āṉmāvil sērttiḍuka; maṯṟu eduvum ittaṉaiyum eṇṇiḍādē.

Traduzione: Per mezzo di un intelletto impregnato da dhīra [coraggio, determinazione, fermezza o perseveranza] è necessario gentilmente e gradualmente far raggiungere l’immobilità alla mente. Grande auriga, fissa la mente [la tua attenzione] in [o su] ātman [tu stesso]; non pensare anche minimamente a qualsiasi altra cosa.
மெல்ல (mella) è un avverbio che significa delicatamente, lentamente, gentilmente o quietamente, ed è una traduzione di शनैस् (śanais), che ugualmente significa lentamente, delicatamente, quietamente, gradualmente o poco a poco, ed è ripetuta qui per enfasi. Cioè, anche se non siamo in grado di fissare la nostra attenzione stabilmente e immobilmente sempre su noi stessi, per mezzo di una pratica delicata e persistente possiamo coltivare gradualmente l’amore con cui saremo in grado di farlo.

La pratica richiesta è quella di fissare la nostra mente o attenzione su noi stessi e quindi di evitare di pensare a qualsiasi altra cosa, come insegnato nelle ultime due righe di questo verso, ed è descritto in maggiore dettaglio nel prossimo verso (il verso 28 della Bhagavad Gītā Sāram, che è una traduzione della Bhagavad Gītā 6.26):
எதுவுந் திரமின்றி யென்றுமலை சித்த
மெதெதனைப் பற்றியே யேகு — மததினின்
றீர்த்தந்தச் சித்தத்தை யெப்போது மான்மாவிற்
சேர்த்துத் திரமுறவே செய்.

eduvun thiramiṉḏṟi yeṉḏṟumalai citta
mededaṉaip paṯṟiyē yēhu — madadiṉiṉ
ḏṟīrttandac cittattai yeppōdu māṉmāviṟ
cērttut thiramuṟavē sey
.

பதச்சேதம்: எதுவும் திரம் இன்றி என்றும் அலை சித்தம் எது எதனை பற்றியே ஏகும், அது அதினின்று ஈர்த்து அந்த சித்தத்தை எப்போதும் ஆன்மாவில் சேர்த்து திரம் உறவே செய்.

Padacchēdam (separazione delle parole): eduvum thiram iṉḏṟi eṉḏṟum alai cittam edu edaṉai paṯṟiyē ēhum, adu adiṉiṉḏṟu īrttu anda cittattai eppōdum āṉmāvil cērttu thiram uṟavē sey.

அன்வயம்: எதுவும் திரம் இன்றி என்றும் அலை சித்தம் எது எதனை பற்றியே ஏகும், அது அதினின்று அந்த சித்தத்தை ஈர்த்து ஆன்மாவில் சேர்த்து எப்போதும் திரம் உறவே செய்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): eduvum thiram iṉḏṟi eṉḏṟum alai cittam edu edaṉai paṯṟiyē ēhum, adu adiṉiṉḏṟu anda cittattai īrttu āṉmāvil cērttu eppōdum thiram uṟavē sey.

Traduzione: Qualunque cosa la mente, che vacilla sempre senza alcuna stabilità, afferra e [ovunque essa di conseguenza] va, attirare indietro quella mente da quello e fissarla in [o su] ātman [tu stesso], la rende sempre stabile.
La mente afferra e si aggrappa a cose diverse da sé stessa dando loro attenzione, e così vaga incessantemente da una cosa a un’altra, così il modo per ritirare la mente da tutte quelle cose e quindi renderla stabile è fissare fermamente la nostra attenzione soltanto su noi stessi. Tuttavia, poiché la nostra mente è per sua natura instabile e poiché non può sopravvivere senza aggrapparsi ad altre cose, essa cercherà costantemente di rivolgersi all’esterno e di afferrare altre cose, ma non importa quante volte lo fa, noi dobbiamo solo perseverare nell’attirarla delicatamente a noi stessi ancora e ancora.

Tutte le altre cose a cui la mente si aggrappa sono pensieri, che sono fenomeni che essa proietta e afferra nella sua consapevolezza, e finché essa esiste continuerà a proiettare e afferrare pensieri. Tuttavia il nostro fine non è solamente evitare di proiettare ed afferrare pensieri, perché quando siamo nel sonno non proiettiamo o afferriamo alcun pensiero, ma con questo non distruggiamo la nostra mente, poiché il sonno è uno stato di laya (sprofondamento o cessazione temporanea), da cui questa mente prima o poi sorgerà nuovamente.

Poiché la nostra mente è una consapevolezza illusoria di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, essa può essere distrutta solo dalla chiara consapevolezza di noi stessi come siamo realmente, e per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente dobbiamo focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi, ritirandola da ogni altra cosa, cose che sono tutti pensieri proiettati dalla nostra mente. Quindi il nostro unico fine dovrebbe essere focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi, perché se lo facciamo, la nostra attenzione sarà quindi ritirata da ogni altra cosa, e perciò tutti i pensieri sprofonderanno.

Tuttavia lo sprofondamento dei pensieri non è il nostro fine ma solo una sua conseguenza. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha scritto nella quarta frase del sesto paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன?’ (ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa?), ‘per quanti pensieri sorgono, cosa [importa]?’, e nella riga finale del verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, ‘நின்றிட சென்றிட; நினைவிட வின்றே’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), ‘lasciali cessare o lasciali andare; essi non esistono oltre a te’. Ciò che egli indica in entrambi questi brani è che non dovremmo interessarci alla comparsa dei pensieri, perché la sola cosa di cui dovremmo interessarci è attendere a noi stessi.

Se siamo interessati alla comparsa dei pensieri, stiamo con questo pensando ad essi invece di attendere solo a noi stessi, così interessarci ai pensieri è controproducente. Lasciamoli comparire o non comparire – il nostro solo interesse dovrebbe essere attendere esclusivamente a noi stessi.

Il contesto in cui Bhagavan ha fatto ciascuna di queste due affermazioni indica quale era il suo fine nel dire questo. Nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār? la sua affermazione ‘எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன?’ (ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa?), ‘per quanti pensieri sorgono, cosa [importa]?’, era in mezzo a due frasi in cui egli ci istruiva che se sorgono altri pensieri, non dovremmo andare dietro ad essi ma dovremmo solo investigare noi stessi, il ‘me’ a cui essi si sono presentati. Ugualmente in Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, dopo aver detto alla fine del verso 6, ‘நின்றிட சென்றிட; நினைவிட வின்றே’ (niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; niṉai-viḍa v-iṉḏṟē), ‘lasciali cessare o lasciali andare; essi non esistono oltre a te’, ha iniziato il verso 7 dicendo nella prima frase che se il pensiero chiamato ‘io’ (vale a dire il nostro ego, che è il nostro pensiero primario e la radice di tutti gli altri pensieri) non esiste, niente altro esisterà, implicando con questo che i pensieri cesseranno per sempre di apparire solo quando il nostro ego sarà annientato, e poi nella seconda frase istruendoci che se qualche altro pensiero compare, dovremmo investigare noi stessi, a cui esso si è presentato. Così egli ha reso chiaro che non dovremmo interessarci ai pensieri ma dovremmo rivolgere la nostra attenzione a noi stessi ogni volta che essi compaiono.

Pensare è la natura della mente, ed esso comporta il proiettare e sperimentare simultaneamente i pensieri, così il pensare non cesserà finché la mente è attiva. Poiché ogni cosa diversa da noi stessi è un pensiero, dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è pensare, così il solo modo per evitare di pensare è attendere soltanto a noi stessi. Quando facciamo questo l’attività della nostra mente cesserà e quindi sprofonderà nella sua sorgente, che è noi stessi come siamo realmente.

Quindi cercare di esaminare i pensieri senza esaminare il pensatore è inutile. I pensieri sorgono solo perché c’è un pensatore, che è il nostro ego o mente, e finché a questo pensatore è permesso di sorgere e di reggersi sarà impegnato attivamente nel proiettare e sperimentare pensieri, perché non può sorgere o reggersi senza fare questo. Quindi abbiamo bisogno di esaminare il pensatore impedendogli di sorgere o di reggersi, e poiché esso sorge e si regge solo proiettando ed afferrando pensieri (cioè, essendo consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé stesso), cesserà di sorgere o di reggersi solo se riesce ad attendere solo a sé stesso, cessando quindi di proiettare o afferrare qualsiasi altra cosa.

Molte persone immaginano che se possono fermare il loro abituale chiacchierio mentale meditando, stanno con ciò sperimentando la libertà dai pensieri, ma non è così, perché colui che sta sperimentando quella relativa quiete mentale è l’ego, che è esso stesso un pensiero. Inoltre, poiché questo ego non può sorgere o reggersi senza afferrare pensieri, la quiete o qualunque altro fenomeno esso sperimenta meditando è anche un pensiero.

Secondo Bhagavan ogni cosa diversa dalla nostra fondamentale auto-consapevolezza, che è il nostro sé reale, è un pensiero, come lo è anche il nostro ego, che è il pensatore o lo sperimentatore di tutti gli altri pensieri. Quindi finché il nostro ego non è sradicato, possiamo sperimentare la completa libertà da tutti i pensieri solo nel sonno e altri stati simili di manōlaya. Comunque questi stati non sono spiritualmente benefici, perché in essi il nostro ego o mente ha cessato di esistere solo temporaneamente, di conseguenza non può fare alcuno sforzo per essere auto-attentivo finché non sorge nuovamente.

Quindi il nostro fine non dovrebbe essere solamente una libertà temporanea dai pensieri (che comunque sperimentiamo ogni giorno nel sonno), ma dovrebbe solo essere la libertà permanente dal nostro ego, che è la radice di tutti gli altri pensieri. Quando il nostro ego non esiste, nessun altro pensiero può esistere, e finché il nostro ego esiste, inevitabilmente proietterà e sperimenterà altri pensieri. Quindi non possiamo essere liberi da tutti gli altri pensieri se il nostro ego non sprofonda completamente.

Come ho citato precedentemente discutendo il significato della prima frase del sesto paragrafo di Nāṉ Yār?, nel verso 13 di of Upadēśa Undiyār Bhagavan ha spiegato che ci sono solo due tipi di stato in cui il nostro ego sprofonda completamente, vale a dire manōlaya (sprofondamento temporaneo della mente) e manōnāśa (annientamento permanente della mente). Sebbene alcuni stati di manōlaya siano descritti come nirvikalpa samādhi, non possiamo realmente ricavare alcun beneficio spirituale dallo sprofondare in questi stati, perché il punto che abbiamo bisogno di esaminare è solo il nostro ego, che in manōlaya cessa temporaneamente di esistere. Quindi il nostro fine non dovrebbe essere il raggiungere qualche stato simile ma dovrebbe solo essere il raggiungere manōnāśa, che possiamo realizzare solo investigando acutamente e vigilantemente il nostro ego nella veglia o nel sogno (che sono i soli stati in cui esso sembra esistere) e vedendo quindi che esso in realtà non esiste affatto.

Come ho spiegato nella quinta sezione, ciò che impedisce l’annientamento del nostro ego non sono esattamente i pensieri ma solo l’auto-negligenza (pramāda). Sebbene tutti i pensieri nel sonno e in altri stati di manōlaya sprofondano temporaneamente, il nostro pramāda non è da questo distrutto, perché può essere distrutto solo da sadā apramāda, che significa perpetua non-negligenza o auto-attentività. Ciò che è auto-negligente è solo il nostro ego, così la sua auto-negligenza sprofonda con esso in manōlaya e sorge con esso appena si sveglia o inizia a sognare. Poiché l’ego è auto-negligente, deve distruggere la sua auto-negligenza coltivando l’abitudine di essere auto-attentivo, che non può fare in manōlaya ma solo nella veglia o nel sogno.

Se il nostro ego non fosse auto-negligente, non proietterebbe o sperimenterebbe alcun pensiero, così l’auto-negligenza è la causa radice dei pensieri, e i pensieri sono solo sintomi della malattia dell’auto-negligenza. Se curiamo questa malattia, i suoi sintomi svaniranno, ma se cerchiamo di trattare i sintomi senza rivolgerci alla malattia sottostante, essi continueranno a spuntare in una forma o un’altra finché la malattia è curata.

Un dottore saggio che tratta le malattie dei suoi pazienti sa che i sintomi continueranno finché la malattia non è curata, così sebbene può offrire qualche sollievo sintomatico per mettere il paziente a proprio agio, egli non sarà realmente interessato ai sintomi, perché sa che essi svaniranno solo quando la malattia è curata completamente. Quindi se siamo saggi non saremo interessati ai pensieri ma ci focalizzeremo solo nel curare la sottostante malattia di pramāda cercando con persistenza di essere auto-attentivi.

10. Il primo movimento del pensiero è il sorgere del nostro ego, così siamo completamente ‘fuori dal movimento del pensiero’ solo in manōlaya o in manōnāśa

Un movimento del pensiero è ciò che in Sanscrito è chiamato manōvṛtti o citta-vṛtti, e il primo vṛtti e la radice di tutti gli altri vṛtti è il nostro ego, che è ciò che è chiamato ahaṁ-vṛtti, così il primo movimento del pensiero è il sorgere di noi stessi come questo ego, come Bhagavan intende chiaramente nel verso 18 di Upadēśa Undiyār e di Upadēśa Sāram. Nel verso 18 di Upadēśa Undiyār egli dice:
எண்ணங்க ளேமனம் யாவினு நானெனு
மெண்ணமே மூலமா முந்தீபற
      யானா மனமென லுந்தீபற.

eṇṇaṅga ḷēmaṉam yāviṉu nāṉeṉu
meṇṇamē mūlamā mundīpaṟa
      yāṉā maṉameṉa lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். யான் ஆம் மனம் எனல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. yāṉ ām maṉam eṉal.

அன்வயம்: எண்ணங்களே மனம். யாவினும் நான் எனும் எண்ணமே மூலம் ஆம். மனம் எனல் யான் ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): eṇṇaṅgaḷ-ē maṉam. yāviṉ-um nāṉ eṉum eṇṇam-ē mūlam ām. maṉam eṉal yāṉ ām.

Traduzione: I pensieri sono solo mente. Di tutti, solo il pensiero chiamato ‘io’ è la radice. Ciò che è chiamata mente è ‘io’.

Traduzione elaborata: I pensieri sono solo mente [o la mente è solo pensieri]. Di tutti [i pensieri], solo il pensiero chiamato ‘io’ è il mūla [radice, base, fondamento, origine, sorgente o causa]. [Quindi] ciò che è chiamata mente è [essenzialmente solo] ‘io’ [l’ego o il pensiero-radice chiamato ‘io’].
Nel verso 18 di Upadēśa Sāram, che è la sua traduzione in Sanscrito di questo verso, egli dice:
वृत्त यस्त्वहं वृत्ति माश्रिताः ।
वृत्त योमनो विद्ध्य हंमनः ॥
vṛtta yastvahaṁ vṛtti māśritāḥ
vṛtta yōmanō viddhya haṁmanaḥ
.

पदच्छेद: वृत्तयः तु अहं वृत्तिम् आश्रिताः. वृत्तयः मनः. विद्धि अहम् मनः.

Padacchēda (separazione delle parole): vṛttayaḥ tu ahaṁ-vṛttim āśritāḥ. vṛttayaḥ manaḥ. viddhi aham manaḥ.

अन्वय: वृत्तयः मनः. वृत्तयः तु अहं वृत्तिम् आश्रिताः. विद्धि अहम् मनः.

Anvaya (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vṛttayaḥ manaḥ. vṛttayaḥ tu ahaṁ-vṛttim āśritāḥ. viddhi aham manaḥ.

Traduzione: Vṛtti sono la mente. Ma vṛtti dipendono da ahaṁ-vṛtti. Sappi che aham è la mente.
In questo contesto la più semplice traduzione di वृत्ति (vṛtti) è ‘pensiero’, ma questo non è il suo significato primario e in altri contesti ha molti altri significati come attività, movimento, azione, funzione, comportamento, occupazione, professione, stato o condizione, perché è derivato dal verbo वृत् (vṛt), che significa girare, ruotare, rotolare, muoversi, agire, comportarsi accadere, avvenire, sostenersi, esistere o essere, così esso significa ‘pensiero’ nel senso di attività o movimento della mente. In questo senso la mente non è nient’altro che vṛtti, ma tutti gli altri vṛtti dipendono dal primo vṛtti, vale a dire ahaṁ-vṛtti o ‘pensiero-io’, poiché essi sono proiettati e sperimentati solo da esso. Quindi Bhagavan conclude questo verso dicendo in Tamil ‘யான் ஆம் மனம் எனல்’ (yāṉ ām maṉam eṉal), che significa ‘Ciò che è chiamata mente è io’, e in Sanscrito ‘अहम् मनः’ (viddhi aham manaḥ), che significa ‘io è la mente’, implicando quindi che ciò che la mente è essenzialmente è solo questo ahaṁ-vṛtti, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’.

Ciò a cui egli qui si riferisce come ‘நான் எனும் எண்ணம்’ (nāṉ eṉum eṇṇam), ‘il pensiero chiamato io’, o ‘अहं वृत्ति’ (ahaṁ-vṛtti), ‘il pensiero-io’, è l’ego, che solo è il pensatore e lo sperimentatore di tutti gli altri pensieri, come spiega nella sesta, settima e ottava frase dell’ottavo paragrafo di Nāṉ Yār?:
நினைவே மனத்தின் சொரூபம். நானென்னும் நினைவே மனத்தின் முதல் நினைவு; அதுவே யகங்காரம்.

niṉaivē maṉattiṉ sorūpam. nāṉ-eṉṉum niṉaivē maṉattiṉ mudal niṉaivu; adu-v-ē y-ahaṅkāram.

Solo il pensiero è la svarūpa la ‘forma propria’ o natura fondamentale] della mente. Solo il pensiero chiamato ‘io’ è il primo pensiero della mente; esso solo è l’ego.
Egli spiega questo in maggiore dettaglio nelle quattro grasi finali del quinto paragrafo di Nāṉ Yār?:
மனதில் தோன்றும் நினைவுக ளெல்லாவற்றிற்கும் நானென்னும் நினைவே முதல் நினைவு. இது எழுந்த பிறகே ஏனைய நினைவுகள் எழுகின்றன. தன்மை தோன்றிய பிறகே முன்னிலை படர்க்கைகள் தோன்றுகின்றன; தன்மை யின்றி முன்னிலை படர்க்கைக ளிரா.

maṉadil tōṉḏṟum niṉaivugaḷ ellāvaṯṟiṟkum nāṉ-eṉṉum niṉaivē mudal niṉaivu. idu eṙunda piṟahē ēṉaiya niṉaivugaḷ eṙugiṉḏṟaṉa. taṉmai tōṉḏṟiya piṟahē muṉṉilai paḍarkkaigaḷ tōṉḏṟugiṉḏṟaṉa; taṉmai y-iṉḏṟi muṉṉilai paḍarkkaigaḷ irā.

Di tutti i pensieri che compaiono nella mente, solo il pensiero chiamato ‘io’ è il pensiero primo [primario, basilare, originale o causale]. Solo dopo che questo sorge sorgono gli altri pensieri. Solo dopo che compare la prima persona le secondoe e terze persone compaiono; senza la prima persona le seconde e terze persone non esistono.
Ciò a cui egli si riferisce qui come ‘தன்மை’ (taṉmai), ‘la prima persona’, è l’ego, che è il soggetto o sperimentatore di tutti gli altri pensieri, e ciò a cui si riferisce come ‘முன்னிலை படர்க்கைகள்’ (muṉṉilai paḍarkkaigaḷ), ‘le seconde e terze persone’, sono tutti gli altri pensieri, che sono oggetti sperimentati dall’ego. Poiché nessun altro pensiero o fenomeno sembrerebbe esistere se non fosse sperimentato da questo ego, il pensiero primario chiamato ‘io’, l’esistenza apparente di tutti gli altri pensieri dipende dall’ego, e quindi essi appaiono solo dopo che esso appare (come fa quando si sveglia dal sonno o quando inizia a sognare), e scompaiono appena esso scompare (come fa quando cade nel sonno).

In tutti questi contesti ciò che Bhagavan intende con il termine ‘pensiero’ (நினைவு (niṉaivu) o எண்ணம் (eṇṇam) in Tamil e वृत्ति (vṛtti) in Sanscrito) è fenomeno mentale di qualunque genere, e poiché tutti i fenomeni che sembrano essere fisici sono realmente solo mentali, poiché sono impressioni sensoriali formate nella nostra mente, proprio come tutte le impressioni sensoriali che sperimentiamo in un sogno, secondo lui tutti i fenomeni – cioè, ogni cosa diversa dall’auto-consapevolezza permanente e fondamentale che siamo realmente – sono solo pensieri e idee proiettate e sperimentate dal nostro ego. Questo è il motivo per cui egli ha detto nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. தூக்கத்தில் நினைவுகளில்லை, ஜகமுமில்லை; ஜாக்ர சொப்பனங்களில் நினைவுகளுள, ஜகமும் உண்டு. சிலந்திப்பூச்சி எப்படித் தன்னிடமிருந்து வெளியில் நூலை நூற்று மறுபடியும் தன்னுள் இழுத்துக் கொள்ளுகிறதோ, அப்படியே மனமும் தன்னிடத்திலிருந்து ஜகத்தைத் தோற்றுவித்து மறுபடியும் தன்னிடமே ஒடுக்கிக்கொள்ளுகிறது’ (niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyamāy illai. tūkkattil niṉaivugaḷ illai, jagam-um illai; jāgra-soppaṉaṅgaḷil niṉaivugaḷ uḷa, jagam-um uṇḍu. silandi-p-pūcci eppaḍi-t taṉṉiḍamirundu veḷiyil nūlai nūṯṟu maṟupaḍiyum taṉṉuḷ iṙuttu-k-koḷḷugiṟadō, appaḍiyē maṉam-um taṉṉiḍattilirundu jagattai-t tōṯṟuvittu maṟupaḍiyum taṉṉiḍamē oḍukki-k-koḷḷugiṟadu), che significa ‘Escludendo i pensieri [o idee], non c’è separatamente una cosa come il mondo. Nel sonno non ci sono pensieri, e [conseguentemente] anche non c’è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, e [conseguentemente] anche c’è un mondo. Proprio come un ragno produce il filo da dentro sé stesso e di nuovo lo ritira in sé stesso, così la mente proietta il mondo da dentro sé stessa e di nuovo lo dissolve in sé stessa’ e nel quattordicesimo paragrafo, ‘ஜக மென்பது நினைவே’ (jagam eṉbadu niṉaivē), che significa ‘Ciò che è chiamato il mondo è solo pensiero’.

Ma perché egli dice che anche l’ego, lo sperimentatore di tutti i pensieri o fenomeni, è esso stesso solo un pensiero? Questo ego è una mescolanza confusa di auto-consapevolezza, che sola è reale, essendo la sola cosa che esiste e risplende eternamente senza alcuna interruzione o modificazione, e varie aggiunte, che sono tutte irreali, essendo solo pensieri o fenomeni transitori. Quindi sebbene nell’ego c’è un elemento reale, è formato solo da un’apparente mescolanza di questo elemento reale con i pensieri, così esso stesso è un pensiero, sebbene il solo pensiero che è consapevole sia di sé stesso che di tutti gli altri pensieri.

L’aggiunta primaria che è mischiata con l’auto-consapevolezza per formare l’ego è un corpo, così sebbene l’ego è senziente e un corpo è un pensiero insenziente, l’ego è sempre consapevole di sé stesso come ‘io sono questo corpo’. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 2 di Āṉma-Viddai:
ஊனா ருடலிதுவே நானா மெனுநினைவே
நானா நினைவுகள்சே ரோர்நார் [...]

ūṉā ruḍaliduvē nāṉā meṉuniṉaivē
nāṉā niṉaivugaḷsē rōrnār
[...]

பதச்சேதம்: ‘ஊன் ஆர் உடல் இதுவே நான் ஆம்’ எனும் நினைவே நானா நினைவுகள் சேர் ஓர் நார் [...]

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘ūṉ ār uḍal idu-v-ē nāṉ ām’ eṉum niṉaivē nāṉā niṉaivugaḷ sēr ōr nār [...]

Traduzione: Solo il pensiero ‘questo corpo composto di carne è esso stesso io’ è l’unico filo in cui [tutti] i vari pensieri sono infilati [...]
Ciò a cui egli si riferisce qui come ‘ஊன் ஆர் உடல் இதுவே நான் ஆம் எனும் நினைவு’ (ūṉ ār uḍal iduvē nāṉ ām eṉum niṉaivu), ‘il pensiero questo corpo composto di carne è esso stesso io’, è ciò a cui altrove si riferisce semplicemente come ‘நான் என்னும் நினைவு’ (nāṉ eṉṉum நினைவு), ‘il pensiero chiamato io’, vale a dire l’ego. Nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli dice che questo ego ha origine, si regge e prospera solo ‘afferrando la forma’, e la prima forma che esso afferra è un corpo, e poiché esso non ha forma propria, illude sé stesso prendendo la forma di questo corpo come la propria forma.

Tutte le forme che questo ego afferra sono pensieri che esso stesso ha proiettato, così sorge proiettando la forma di un corpo e simultaneamente lo sperimenta come sé stesso, come fa in ogni sogno. Avendo afferrato un corpo come ‘io’, immediatamente proietta e affetta altri pensieri, alcuni dei quali riconosce come pensieri che sorgono all’interno di sé, e alcuni altri sembrano essere fenomeni fisici che percepisce all’esterno attraverso i sensi di qualunque corpo in quel momento sperimenta come sé stesso.

Senza proiettare ed afferrare altri pensieri, l’ego non può stare. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்’ (uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum), che significa ‘afferrando la forma esso ha origine; afferrando la forma esso si regge’, e nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘மனம் எப்போதும் ஒரு ஸ்தூலத்தை யனுசரித்தே நிற்கும்; தனியாய் நில்லாது’ (maṉam eppōdum oru sthūlattai y-aṉusarittē niṟkum; taṉiyāy nillādu), che significa ‘La mente si regge solo inseguendo sempre [conformandosi o attaccando sé stessa a] uno sthūlam [qualcosa di grossolano]; da sola essa non si regge’. Di tutti i pensieri, il più sottile è l’ego, perché non ha forma propria, così in confronto ad esso tutti gli altri pensieri sono relativamente grossolani, perché ciascuno di essi ha una forma. Quindi ciò a cui Bhagavan si riferisce qui come ‘ஒரு ஸ்தூலம்’ (oru sthūlam), che significa letteralmente ‘una grossa [cosa]’ o ‘qualcosa di grosso’, è qualsiasi altro pensiero, in modo particolare un corpo fisico, perché senza afferrare prima di tutto un corpo come sé stesso e poi afferrare altri pensieri uno dopo l’altro l’ego non può sorgere o reggersi.

Non solo l’ego sorge e si regge solo afferrando la forma di un corpo come sé stesso, ma anche nutre sé stesso e prospera solo afferrando altre forme o fenomeni, che sono tutti pensieri, come egli intende dicendo nella frase successiva del verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்’ (uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum), che significa ‘afferrando e nutrendosi di forma esso cresce [si diffonde, si espande, aumenta, si innalza o prospera] abbondantemente’. Tuttavia, sebbene non può sorgere, reggersi o prosperare senza afferrare forme, nessuna delle forme che afferra esistono indipendentemente da esso, così le afferra proiettandole e simultaneamente essendo consapevole di esse. Questo è il motivo per cui egli dice nel verso successivo (verso 26), ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste’. [Quindi] l’ego è ogni cosa’.

Tutte le forme o fenomeni che l’ego afferra nella sua consapevolezza sono pensieri proiettati da esso, così la sua esistenza dipende dalla loro esistenza apparente, come Bhagavan intende quando dice nel verso 18 di Upadēśa Sāram, ‘वृत्तयः तु अहं वृत्तिम् आश्रिताः’ (vṛttayaḥ tu ahaṁ-vṛttim āśritāḥ), che significa ‘ma i pensieri (vṛtti) dipendono dal pensiero-io (ahaṁ-vṛtti)’. Tutti i pensieri dipendono dall’ego perché esso è ciò che li proietta e li sperimenta, ma l'ego e i suoi pensieri sono mutualmente dipendenti, perché proprio come tutti gli altri pensieri dipendono da esso, esso ugualmente dipende da essi (sebbene su nessuno in particolare), poiché non può sorgere o reggersi senza proiettare e simultaneamente afferrare altri pensieri.

Quindi l’ego non può sprofondare senza lasciar andare tutti gli altri pensieri, incluso qualunque corpo ha afferrato come sé stesso, e la completa cessazione di tutti gli altri pensieri non può essere realizzata se l’ego non sprofonda. Quindi siamo completamente ‘fuori dal movimento del pensiero’, come tu dici, solo quando il nostro ego è sprofondato completamente, e poiché esso sprofonda completamente negli stati di manōlaya o di manōnāśa, non possiamo essere completamente ‘fuori dal movimento del pensiero’ finché stiamo sperimentando la veglia o il sogno.

Ogni giorno il nostro ego sprofonda completamente per un po’ di tempo nello stato di manōlaya chiamato ‘sonno’, ma con ciò non è annientato perché accade solo a causa di stanchezza e non a causa di essere completamente auto-attentivi. Ugualmente per mezzo del prāṇāyāma o certi altri tipi di pratica possiamo sprofondare completamente nello stato di manōlaya chiamato nirvikalpa samādhi (uno stato di completa tranquillità priva di vikalpa: pensiero, fluttuazione, differenziazione o varietà), ma se non sprofondiamo completamente per mezzo dell’auto-attentività acutamente focalizzata il nostro ego non sarà annientato.

Proprio come non possiamo essere acutamente auto-attentivi mentre siamo nel sonno, non possiamo essere in questo modo in qualsiasi altro stato di manōlaya, così realizzare qualche forma di manōlaya non può renderci in grado di avanzare più vicini al nostro fine di manōnāśa, che è lo stato che Bhagavan chiamava sahaja samādhi (samādhi naturale) o sahaja nirvikalpa samādhi (samādhi naturale privo di vikalpa). Per realizzare manōnāśa il nostro ego deve essere annientato, e può essere annientato solo essendo acutamente auto-attentivo, perché esso non è reale ma solo una consapevolezza illusoria di noi stessi, così può essere sradicato solo dal nostro essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, cosa che possiamo fare solo quando siamo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Quindi se vogliamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente e quindi annientare il nostro ego, ciò che dovremmo cercare di realizzare non è solamente essere in uno stato privo di pensieri (come siamo comunque ogni giorno nel sonno) ma solo essere acutamente e fermamente auto-attentivi, Nella misura in cui riusciamo a focalizzare la nostra attenzione solo su noi stessi, il nostro ego sprofonderà, e nella misura in cui esso sprofonda tutti i suoi altri pensieri sprofonderanno insieme con esso. Tuttavia, finché esso non sprofonda completamente (in manōlaya o in manōnāśa) continuerà a proiettare ed afferrare pensieri di una forma o un’altra, non importa quanto sottili possono essere, perché questa è la sua natura, poiché non può sorgere o reggersi senza fare questo.

Quindi sapendo che questa è la natura del nostro ego, non dovremmo interessarci all’apparenza di qualsiasi pensiero, né dovremmo cercare di essere ‘fuori dal movimento del pensiero’, perché tutto quello che abbiamo bisogno di fare è solo cercare di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi. L’apparenza di pensieri nella nostra consapevolezza è solo un sintomo del nostro pramāda, la nostra negligenza o debolezza di auto-attentività, così essi dovrebbero ricordarci di rivolgere la nostra attenzione a noi stessi, il ‘me’ a cui essi si presentano.

Questo è tutto ciò che la semplice pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) comporta: cercare di essere acutamente e stabilmente auto-attentivi, e rivolgere la nostra attenzione a noi stessi ogni volta che è distratta anche minimamente dall’apparenza di qualche pensiero – cioè, ogni fenomeno, qualsiasi cosa diversa da noi stessi soltanto. Se cerchiamo di realizzare questa acuta e stabile auto-attentività, questa sola è sufficiente, come Bhagavan ci assicura nella settima frase dell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
ஒருவன் தான் சொரூபத்தை யடையும் வரையில் நிரந்தர சொரூப ஸ்மரணையைக் கைப்பற்றுவானாயின் அதுவொன்றே போதும்.

oruvaṉ tāṉ sorūpattai y-aḍaiyum varaiyil nirantara sorūpa-smaraṇaiyai-k kai-p-paṯṟuvāṉ-āyiṉ adu-v-oṉḏṟē pōdum.

Se uno si aggrappa saldamente all’ininterrotto svarūpa-smaraṇa [auto-ricordo] finché uno consegue svarūpa [il proprio sé reale], quello solo sarà sufficiente.
Quindi perseveriamo nel cercare quanto più possiamo di essere solo acutamente e stabilmente auto-attentivi, e lasciamo che i pensieri si prendano cura di loro stessi, perché non sono una nostra faccenda.

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