Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

lunedì 10 luglio 2017

L’interesse per destino e libero arbitrio sorge solo quando la nostra mente è rivolta lontano da noi stessi

Michael James

20 Giugno 2017
Concern about fate and free will arises only when our mind is turned away from ourself

Ciò che ho scritto in uno dei miei articoli recenti, Abbiamo bisogno di fare qualcosa?, ha dato l’avvio ad una discussione riguardo i ruoli di destino (prārabdha) e della volontà propria dell’ego o libero arbitrio (sebbene al libero arbitrio ci si è riferiti solo implicitamente, non esplicitamente) e come possiamo determinare se ogni specifico pensiero sorge a causa del destino o a causa del libero arbitrio. Questa discussione è iniziata dal primo commento, in cui un amico di nome Samarender Reddy ha scritto:
Sembra esservi un problema con ciò che dici. Se qualunque cosa deve accadere è decisa dal mio prarabdha, allora qualunque movimento che il corpo deve fare e qualunque cosa la mente deve ‘pensare’ perché il corpo compia azioni secondo il prarabdha sono anche predeterminati e l’”io, lego” non ha voce in capitolo. Ma tu dici anche, “quindi non abbiamo bisogno di pensare”. E nondimeno la mente penserà necessariamente qualche pensiero secondo il prarabdha. Come distinguo il pensare o i pensieri associati al prarabdha dall’altro pensare associato al non-prarabdha nel quale sembro indulgere? Ogni volta che qualsiasi pensiero accade, come conosco se a pensare è l’ego o il prarabdha? Se dico, ok, qualunque pensiero deve accadere accadrà per far compiere al corpo qualunque cosa deve fare, allora sembrerebbe che uno deve essere totalmente silenzioso e non pensare e ogni volta che qualche pensiero sorge involontariamente devo considerarlo come pensiero del prarabdha e agire di conseguenza? È questo ciò che stai dicendo? Anche, in quel caso solo i pensieri del prarabdha allora accadranno richiedendo al corpo di fare qualcosa o tali pensieri accadranno anche senza richiedere al corpo di fare qualcosa? Ti sarei realmente grato se tu potessi chiarire questi miei dubbi.
Questo articolo è la mia risposta a questo commento, e meno direttamente anche ad alcune delle idee espresse nei commenti successivi allo stesso soggetto.
  1. Ogni stato in cui sperimentiamo noi stessi come un corpo e di conseguenza percepiamo fenomeni è solo un sogno
  2. La scelta fondamentale che abbiamo è tra pravṛtti (andare all’esterno) e nivṛtti (ritirarsi all’interno)
  3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: ci imbarchiamo sul sentiero di pravṛtti sorgendo come un ego, cosa che facciamo afferrando forme
  4. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 5: il corpo che afferriamo come noi stessi è una forma composta di cinque guaine
  5. Nessuna di queste guaine, neppure ānandamaya kōśa, esiste o ci avvolge nel sonno
  6. Sperimentare sé stessi come questo corpo di cinque guaine non può che far sorgere il senso di essere l’agente, che è quindi la vera natura dell’ego
  7. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 19: l’ego è la radice e il fondamento di destino e libero arbitrio, perché solo esso ha libero arbitrio e sperimenta il destino
  8. Le azioni della nostra mente, parola e corpo, sono guidate da due forze, destino e libero arbitrio
  9. La nota di Bhagavan per sua madre: non possiamo alterare qualunque cosa è destinata ad accadere, ma siamo liberi di volerlo e di cercare di farlo
  10. Nāṉ Yār? paragrafo 13: per essere silenziosi, dobbiamo essere così acutamente auto-attentivi da non dare anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero riguardo a qualunque cosa diversa da noi stessi
  11. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam verso 6: per lasciar comparire o scomparire ogni pensiero, dovremmo essere così acutamente auto-attentivi da essere completamente indifferenti ad essi
  12. Distinguere i pensieri o le azioni guidate dal nostro destino da quelli guidati dal nostro libero arbitrio non è necessario né possibile
  13. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 38: solo usando il nostro libero arbitrio per investigare noi stessi possiamo liberarci dall’ego e da tutti i sui tre karma
  14. Se la nostra attenzione non è rivolta all’esterno, lontano da noi stessi, il prārabdha non può legarci o farci pensare qualcosa
  15. Upadēśa Undiyār verso 2: essendo il frutto delle nostre azioni passate, il prārabdha non può far voltare all’interno la nostra mente e quindi non può mai darci la liberazione
  16. Upadēśa Undiyār versi 8 e 9: per l’intensità della nostra auto-attentività noi saremo nel nostro stato reale di essere, che è oltre il pensiero
  17. Il prārabdha determina ciò che dobbiamo sperimentare solo finché siamo rivolti all’esterno, così esso non può mai impedirci di rivolgerci all’interno per guardare verso noi stessi


1. Ogni stato in cui sperimentiamo noi stessi come un corpo e di conseguenza percepiamo fenomeni è solo un sogno

Quando sogniamo proiettiamo un corpo e simultaneamente lo sperimentiamo come se fosse noi stessi, e poi attraverso i cinque sensi di quel corpo di sogno proiettiamo e percepiamo un mondo di sogno. Poiché noi siamo reali, il corpo di sogno ci sembra reale finché lo confondiamo come noi stessi, e poiché esso sembra essere parte del mondo di sogno, anche quello ci sembra essere reale. Tuttavia quando ci svegliamo la nostra identificazione con quel corpo di sogno è interrotta, così non ci sembra più reale, e quindi siamo immediatamente in grado di riconoscere che era solo una proiezione mentale.

Poiché il corpo e il mondo di sogno sembrano reali finché stiamo sognando, qualunque sogno stiamo attualmente sperimentando ci sembra sempre lo stato di veglia. Solo quando ci svegliamo da un sogno siamo in grado di riconoscere che era solo un sogno. Quindi come possiamo essere sicuri che il nostro stato attuale non è solo un altro sogno, anche se ci sembra essere lo stato di veglia finché lo stiamo sperimentando?

Secondo Bhagavan ogni stato in cui sperimentiamo noi stessi come un corpo e di conseguenza percepiamo fenomeni è solo un sogno, e quindi non c’è differenza sostanziale tra un sogno e ciò che ora prendiamo come lo stato di veglia. Come in ogni altro sogno, nel nostro stato attuale abbiamo proiettato un corpo, che ora sembra essere noi stessi, e attraverso i cinque sensi di questo corpo abbiamo proiettato un mondo e lo stiamo ora percependo.

2. La scelta fondamentale che abbiamo è tra pravṛtti (andare all’esterno) e nivṛtti (ritirarsi all’interno)

Quindi sebbene sembriamo sperimentare ogni giorno tre stati alternanti, vale a dire veglia, sogno e sonno, ciò che ora prendiamo come veglia e sogno sono entrambi solo sogni, così ciò che sperimentiamo sono solo due tipi di stati e non tre. Ogni stato in cui percepiamo i fenomeni di qualunque tipo è un sogno, e ogni stato in cui non sperimentiamo alcun fenomeno è sonno. Il primo è chiamato pravṛtti (che significa muoversi in avanti, oltre o verso l’esterno, sorgere, uscire, apparire, manifestarsi, sforzarsi o essere attivi) e il secondo è chiamato nivṛtti (che significa tornare indietro, ritornare, ritirarsi, cessare, astenersi dal fare, fermarsi o essere inattivi).

Quindi in ogni momento abbiamo una scelta fondamentale tra solo due direzioni: possiamo andare all’esterno seguendo il sentiero di pravṛtti dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, o possiamo ritornare all’interno seguendo il sentiero di nivṛtti non dando attenzione a niente altro che noi stessi. Il sentiero che Bhagavan ci ha insegnato è il sentiero di nivṛtti, e che è il soggetto dell’articolo al quale Samarender ha scritto il suddetto commento, vale a dire Abbiamo bisogno di fare qualcosa?.

3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: ci imbarchiamo sul sentiero di pravṛtti sorgendo come un ego, cosa che facciamo afferrando forme

Se scegliamo di andare all’esterno seguendo il sentiero di pravṛtti, come generalmente facciamo per la maggior parte del tempo, sperimentiamo noi stessi come una persona costituita da un corpo e una mente, che interagiscono con qualunque mondo percepiamo intorno a noi, e in questo modo siamo presi nel compiere azioni (karma), che ci costringono a considerare se dovremmo agire in questo o in quel modo. Tutto questo accade perché permettiamo a noi stessi di sorgere come questo ego, l’’io’ che sperimenta sé stesso come ‘io sono questo corpo’, così se vogliamo evitare di essere presi in qualsiasi attività dobbiamo evitare di sorgere come questo ego, cosa che possiamo fare solo essendo così acutamente auto-attentivi da cessare di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa.

Come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, il fantasma-ego senza forma ha origine; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si diffonde, si espande, aumenta, si innalza o prospera] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], prenderà il volo. Investiga [o conosci di conseguenza].
Poiché l’ego è un fantasma senza forma, qualunque forma esso afferra è diversa da sé stesso, ma per essere consapevole delle forme deve sperimentare sé stesso come una forma (come Bhagavan spiega nel verso 4 di Uḷḷadu Nāṟpadu), così la prima forma che esso afferra è un corpo, che confonde come sé stesso. Quindi afferrare la forma è la vera natura dell’ego, e senza afferrare la forma esso non può sorgere, reggersi o prosperare.

Ma cosa intende esattamente Bhagavan con ‘afferrare la forma’ (உரு பற்றி: uru paṯṟi)? Come può questo ego-fantasma senza forma (உருவற்ற பேய் அகந்தை: uru-v-aṯṟa pēy ahandai) afferrare qualcosa? Poiché esso è senza forma, può afferrare le forme (fenomeni di qualunque genere) solo essendo consapevole di esse, e poiché nessuna forma esiste indipendentemente da esso (come egli spiega nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu), deve proiettarli da dentro sé stesso per esserne consapevole.

Quindi l’unico problema fondamentale che affrontiamo è semplicemente il fatto che siamo sorti come questo ego, perché ogni altro problema sorge solo da questo, e finché questo problema radice rimane, altri problemi di un tipo o un altro continueranno a sorgere. Questo è il motivo per cui Bhagavan ci ha consigliato di ignorare tutti gli altri problemi e focalizzare tutto il nostro interesse, lo sforzo e l’attenzione solo su sradicare il loro fondamento, questo ego, cosa che possiamo fare solo investigando noi stessi: cioè, guardando noi stessi molto accuratamente per vedere ciò che siamo realmente, o questo ego o qualcosa che sottende la sua apparenza, proprio come una corda sottende la falsa apparenza di un serpente illusorio.

4. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 5: il corpo che afferriamo come noi stessi è una forma composta di cinque guaine

Noi sorgiamo come questo ego proiettando ed afferrando la forma di un corpo come noi stessi, e come Bhagavan indica nel verso 5 di Uḷḷadu Nāṟpadu, il corpo che afferriamo come noi stessi è una forma composta di cinque guaine (pañca kōśa):
உடல்பஞ்ச கோச வுருவதனா லைந்து
முடலென்னுஞ் சொல்லி லொடுங்கு — முடலன்றி
யுண்டோ வுலக முடல்விட் டுலகத்தைக்
கண்டா ருளரோ கழறு.

uḍalpañca kōśa vuruvadaṉā laindu
muḍaleṉṉuñ colli loḍuṅgu — muḍalaṉḏṟi
yuṇḍō vulaha muḍalviṭ ṭulahattaik
kaṇḍā ruḷarō kaṙaṟu
.

பதச்சேதம்: உடல் பஞ்ச கோச உரு. அதனால், ஐந்தும் ‘உடல்’ என்னும் சொல்லில் ஒடுங்கும். உடல் அன்றி உண்டோ உலகம்? உடல் விட்டு, உலகத்தை கண்டார் உளரோ? கழறு.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḍal pañca kōśa uru. adaṉāl, aindum ‘uḍal’ eṉṉum sollil oḍuṅgum. uḍal aṉḏṟi uṇḍō ulaham? uḍal viṭṭu, ulahattai kaṇḍār uḷarō? kaṙaṟu.

அன்வயம்: உடல் பஞ்ச கோச உரு. அதனால், ‘உடல்’ என்னும் சொல்லில் ஐந்தும் ஒடுங்கும். உடல் அன்றி உலகம் உண்டோ? உடல் விட்டு உலகத்தைக் கண்டார் உளரோ? கழறு.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḍal pañca kōśa uru. adaṉāl, ‘uḍal’ eṉṉum sollil aindum oḍuṅgum. uḍal aṉḏṟi ulaham uṇḍō? uḍal viṭṭu, ulahattai kaṇḍār uḷarō? kaṙaṟu.

Traduzione: Il corpo è una forma di cinque guaine. Quindi tutte e cinque sono incluse nel termine ‘corpo’. Senza un corpo, c’è un mondo? Dimmi, lasciando il corpo c’è qualcuno che ha visto un mondo?
Le cinque ‘guaine’ o ‘coperture’ (pañca kōśa) a cui egli si riferisce qui sono il corpo fisico (annamaya kōśa, la ‘guaina composta di cibo’), la vita che lo anima (prāṇamaya kōśa, la ‘guaina composta di vita [o respiro]’), i pensieri o attività mentale che sperimentiamo continuando dentro di essa (manōmaya kōśa, la ‘guaina composta di mente’), l’intelletto o potere di ragionamento e discernimento che sperimentiamo operando dentro di essa (vijñānamaya kōśa, la ‘guaina composta di discernimento [o comprensione]’) e l’oscurità dell’auto-ignoranza che sottende e fa sorgere l’apparenza delle altre quattro guaine (ānandamaya kōśa, la ‘guaina composta di felicità’), che è anche chiamata il ‘corpo causale’ (kāraṇa śarīra).

Ogni volta che sperimentiamo noi stessi come un corpo, stiamo sperimentando noi stessi come tutte queste cinque guaine, perché qualunque corpo sperimentiamo come noi stessi è un corpo vivente, così consiste sia di annamaya kōśa che di prāṇamaya kōśa, e non è un corpo dormiente o comatoso, così consiste anche di manōmaya kōśa e di vijñānamaya kōśa, e sembra essere noi stessi a causa della nostra auto-ignoranza fondamentale, così è soffuso e tenuto insieme da ānandamaya kōśa.

5. Nessuna di queste guaine, neppure ānandamaya kōśa, esiste o ci avvolge nel sonno

Il motivo per cui la guaina fondamentale o ‘corpo causale’ è chiamata ānandamaya kōśa è che generalmente essa è detta la sola guaina che rimane ad avvolgerci nel sonno, così poiché il sonno è uno stato pacifico e quindi felice, questa guaina di auto-ignoranza è detta essere ‘composta di felicità’ (ānandamaya). Tuttavia, ciò che è avvolto in queste cinque guaine è solo l’ego e non noi stessi come siamo realmente, così in assenza dell’ego non c’è niente che possa essere avvolto da ognuna di queste guaine, e poiché l’ego è la falsa auto-consapevolezza che appare come ‘io sono questo corpo’, nel sonno esso non esiste affatto. Quindi secondo Bhagavan nel sonno non siamo auto-ignoranti o avvolti da alcuna guaina, come ha inteso per esempio in una risposta registrata nel primo capitolo di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagina 9):
Il sonno non è ignoranza, è il proprio stato puro; la veglia non è conoscenza, è ignoranza. Nel sonno c’è piena consapevolezza e nella veglia totale ignoranza.
È solo dalla prospettiva della nostra mente nella veglia o nel sogno che il sonno sembra uno stato di ignoranza, così era come concessione a questa prospettiva che nei testi antichi è detto che nel sonno siamo avvolti da ānandamaya kōśa, e che questo avvolgimento è il ‘corpo causale’ (kāraṇa śarīra), la causa dell’apparenza delle altre quattro guaine nella veglia e nel sogno. Una delle ragione per questa concessione alla nostra prospettiva ignorante è che essa fornisce una risposta per soddisfare la curiosità superficiale di coloro che chiedono come o perché l’ego sorge dal sonno, ma secondo Bhagavan la risposta più utile a queste domande è che dovremmo investigare questo ego per vedere se esso esiste realmente anche ora, perché se lo investighiamo abbastanza accuratamente, scopriremo che non esiste realmente (proprio come scopriremmo che un serpente illusorio non esiste realmente se lo guardassimo abbastanza accuratamente da vedere che non è un serpente ma solo un corda), e poiché esso non esiste realmente, non è mai realmente sorto dal sonno. Quindi chiedere come o perché esso è sorto è come chiedere come o perché è nato il figlio di una donna sterile.

Solo il sorgere dell’ego può causare l’apparenza di ogni altra cosa (come Bhagavan intende nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu), così l’ego è la prima causa, e quindi non può esserci causa antecedente ad esso. Quindi cercare di scoprire cosa ha causato l’apparenza dell’ego è inutile. Invece dovremmo solo investigarlo più accuratamente possibile e dovremmo perseverare nel farlo finché vediamo l’unica realtà che sottende la sua falsa apparenza, vale a dire la pura auto-consapevolezza che sempre siamo realmente.

6. Sperimentare sé stessi come questo corpo di cinque guaine non può che far sorgere il senso di essere l’agente, che è quindi la vera natura dell’ego

Queste cinque guaine sono ciò che ci avvolge, per così dire, e che copre la nostra vera natura quando sorgiamo come questo ego, sperimentando quindi noi stessi come ‘io sono questo corpo’, perché qualunque corpo sperimentiamo come noi stessi è composto di queste cinque guaine, e poiché noi (come questo ego) lo sperimentiamo come noi stessi, nella nostra visione esso oscura ciò che siamo realmente, che è solo pura auto-consapevolezza. Quindi come questo ego sperimentiamo sempre noi stessi come una mescolanza inseparabile di queste cinque guaine, che insieme formano i tre strumenti di azione, vale a dire mente, parola e corpo, e quindi qualunque azione è fatta da qualcuno di questi strumenti è da noi sperimentata come azioni fatte da noi.

Questa esperienza che le azioni di mente, parola a corpo sono fatte da sé stessi è ciò che è chiamato il senso di essere l’agente (kartṛtva buddhi), ed è la vera natura dell’ego, perché non possiamo sorgere o reggerci come questo ego senza sperimentare noi stessi come l’agente di qualunque azione è fatta da esso Quindi non possiamo liberare noi stessi da questo senso di essere l’agente senza cessare permanentemente di sorgere come questo ego, e non possiamo cessare permanentemente senza investigare noi stessi abbastanza accuratamente da vedere noi stessi come siamo realmente.

7. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 19: l’ego è la radice e il fondamento di destino e libero arbitrio, perché solo esso ha libero arbitrio e sperimenta il destino

Quindi piuttosto che occuparci di domande riguardo destino o libero arbitrio, dovremmo focalizzare tutto il nostro interesse, l’attenzione e lo sforzo nell’investigare ciò che noi stessi siamo realmente. Finché sembriamo essere questo ego, destino e libero arbitrio sembreranno entrambi esistere ed essere operativi nella nostra vita come qualunque persona (corpo costituito di cinque guaine) che attualmente sembriamo essere, ma se investighiamo questo ego e quindi sperimentiamo noi stessi come siamo realmente, scopriremo che non siamo mai stati toccati o influenzati anche minimamente da destino o libero arbitrio, come Bhagavan intende nel verso 19 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
விதிமதி மூல விவேக மிலார்க்கே
விதிமதி வெல்லும் விவாதம் — விதிமதிகட்
கோர்முதலாந் தன்னை யுணர்ந்தா ரவைதணந்தார்
சார்வரோ பின்னுமவை சாற்று.

vidhimati mūla vivēka milārkkē
vidhimati vellum vivādam — vidhimatigaṭ
kōrmudalān taṉṉai yuṇarndā ravaitaṇandār
sārvarō piṉṉumavai sāṯṟu
.

பதச்சேதம்: விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம். விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; சார்வரோ பின்னும் அவை? சாற்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam. vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; sārvarō piṉṉum avai? sāṯṟu.

அன்வயம்: விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம். விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; பின்னும் அவை சார்வரோ? சாற்று.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam. vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; piṉṉum avai sārvarō? sāṯṟu.

Traduzione: Solo per coloro che non hanno discernimento della radice di destino e libero arbitrio [vale a dire l’ego] c’è disputa riguardo a quale prevale, destino o libero arbitrio. Coloro che hanno conosciuto loro stessi [l’ego], che è l’unica origine [causa o fondamento] per destino e libero arbitrio, li hanno [di conseguenza] eliminati. Dimmi, loro saranno in seguito collegati con essi?
விதி (vidhi) ha lo stesso significato di prārabdha, vale a dire destino o fato, e in questo contesto மதி (mati) significa volontà o volizione, con cui noi compiamo āgāmya (nuove azioni), i frutti delle quali sono aggiunti al nostro sañcita (il deposito di frutti o azioni passate accumulati che devono ancora essere sperimentati), da cui Dio o il guru seleziona i frutti che devono essere sperimentati da noi come prārabdha in ciascuna delle nostre vite (che sono solo sogni estesi). I termini ‘விதி மதி மூலம்’ (vidhi mati mūlam), che significa ‘la radice [base, origine o sorgente] di destino e libero arbitrio’, e ‘விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai), che significa ‘sé stessi, che è l’unica origine [causa, radice, fondamento o base] per destino e libero arbitrio’, si riferiscono entrambi al nostro ego, perché destino e libero arbitrio esistono solo per questo ego, così esso è la loro sorgente o fondamento, poiché è ciò che usa il suo libero arbitrio per compiere āgāmya e di conseguenza sperimenta il destino o prārabdha.

‘விதி மதி மூல விவேகம்’ (vidhi mati mūla vivēkam) significa letteralmente ‘discernimento della radice [base, origine o sorgente] di destino e libero arbitrio’, così poiché la radice di destino e libero arbitrio (vidhi mati mūlam) è l’ego, significa l’abilità di discernere, distinguere o scoprire ciò che l’ego è realmente, e poiché l’ego come tale è non-esistente, ciò che Bhagavan intende con questo termine è la chiarezza di vedere cos’è la reale natura di noi stessi, che siamo ciò che ora sembra essere questo ego. Qualsiasi disputa o anche interesse riguardo a destino e libero arbitrio può accadere solo a coloro che non hanno la chiarezza per vedere ciò che l’ego è realmente, come egli intende nella prima frase di questo verso: ‘விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம்’ (vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam), ‘Solo per coloro che non hanno discernimento della radice di destino e libero arbitrio [vale a dire l’ego] c’è disputa riguardo a quale prevale, destino o libero arbitrio’.

E come egli intende nella seconda frase, ‘விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār), ‘Coloro che hanno conosciuto loro stessi [l’ego], che è l’unica origine [causa o fondamento] di destino e libero arbitrio, li hanno [di conseguenza] eliminati’, se noi investighiamo accuratamente noi stessi e quindi vediamo ciò che questo ego è realmente, avremmo di conseguenza eliminato, rimosso o separato noi stessi da destino e libero arbitrio, perché avremo sradicato la loro radice, l’ego. Poi chiedendo retoricamente nella frase finale, ‘சார்வரோ பின்னும் அவை?’ (sārvarō piṉṉum avai?), ‘loro saranno in seguito collegati [o associati] con essi?’, egli enfatizza che allora non avremo assolutamente connessione sia con il destino che con il libero arbitrio.

8. Le azioni della nostra mente, parola e corpo, sono guidate da due forze, destino e libero arbitrio

Quando sorgiamo e ci reggiamo come questo ego sperimentiamo sempre noi stessi come un corpo, e come quel corpo abbiamo certi bisogni, come l’aria, l’acqua, il cibo, il vestiario, il riparo, la salute e la libertà dal pericolo. Quando questi bisogni sono soddisfatti sentiamo piacere, e quando non sono soddisfatti sentiamo dolore o infelicità, e poiché tali sensazioni di piacere e dolore sembrano essere causate da ciò che sperimentiamo, fanno sorgere numerosi desideri e paure. Quindi come questo ego abbiamo una volontà, che si manifesta come simpatie e antipatie, desideri e avversioni, speranze e paure, ed altre spinte volitive come amore, affetto, attaccamento, ambizione, orgoglio, gelosia e rabbia, e poiché siamo liberi, almeno in una certa misura, di scegliere ciò che vogliamo gradire o sgradire e quanto fortemente vogliamo gradire o sgradire qualsiasi cosa, la volontà del nostro ego è spesso descritta come ‘libero arbitrio’.

La nostra volontà ci porta a cercare di realizzare o preservare qualunque cosa ci piace e ad evitare o sfuggire da qualunque cosa ci dispiace o temiamo, così la nostra volontà è una delle maggiori forze che ci guidano a fare qualunque cosa facciamo. Tuttavia, non è la sola forza guidante, perché ciascuno di noi ha un destino da sperimentare, e per sperimentarlo abbiamo bisogno di fare certe azioni. Per esempio, se io sono destinato ad ottenere un dottorato di ricerca, sarò guidato a studiare, ricercare, scrivere una tesi e fare qualunque altra cosa è richiesta per ottenere un tale dottorato.

Quindi destino e libero arbitrio ci guideranno entrambi a fare sforzo, agire e reagire attraverso mente, parola e corpo. Qualche volta essi possono operare in sincronia, come nel caso in cui non solo voglio ottenere un dottorato di ricerca ma sono anche destinato ad ottenerlo, ma altre volte essi non sono sincronizzati, come nel caso in cui sono destinato ad ottenere un dottorato anche se non desidero realmente ottenere un tale risultato.

Sadhu Om era solito dire che la nostra mente, parola e corpo sono come una penna che è usata da due impiegati, destino e libero arbitrio, ma che il destino è l’impiegato anziano e quindi ha sempre la parola finale su ciò che è scritto con la penna. Essendo l’impiegato giovane, il libero arbitrio può volere e cercare di usare la penna secondo i propri desideri, ma ci riuscirà solo se il destino è d’accordo.

Un’altra analogia che potremmo fornire è che la nostra mente, parola e corpo sono come un auto con controlli doppi (due volanti, acceleratori, freni e frizioni), uno dei quali è usato da un istruttore di guida, e l’altro è usato da un apprendista. Il destino è l’istruttore di guida, i controlli del quale possono sempre avere la precedenza sui controlli dell’apprendista, e il libero arbitrio è l’apprendista, che può controllare l’auto finché lui o lei segue le istruzioni date dall’istruttore, ma in ogni momento l’istruttore può prendere il controllo per evitare ogni pericolo o deviazione dalle istruzioni.

9. La nota di Bhagavan per sua madre: non possiamo alterare qualunque cosa è destinata ad accadere, ma siamo liberi di volerlo e di cercare di farlo

Questo è inteso chiaramente da Bhagavan nella nota che ha scritto per sua madre nel Dicembre 1898:
அவரவர் பிராரப்தப் பிரகாரம் அதற்கானவன் ஆங்காங்கிருந் தாட்டுவிப்பன். என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது; நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது. இதுவே திண்ணம். ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று.

avar-avar prārabdha-p prakāram adaṟkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ. eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. iduvē tiṇṇam. āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu.

Secondo il loro-loro prārabdha, egli che è per quell’essere lì-lì causerà di danzare [cioè, secondo il destino (prārabdha) di ogni persona, egli che è per quello (vale a dire Dio o il guru, che ordina il loro destino) essendo nel cuore di ognuno di essi li farà agire]. Ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo uno fa [per farlo accadere]; ciò che deve accadere non si fermerà qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa [per impedire che ciò accada]. Questo è davvero certo. Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono.
Nella prima frase di questa nota Bhagavan afferma che come un burattino controllato da un burattinaio, la nostra mente, parola e corpo saranno fatti agire in accordo al nostro destino (prārabdha), e nella seconda e terza frase egli afferma che qualunque cosa non è destinata ad accadere non accadrà, e qualunque cosa è destinata ad accadere accadrà sicuramente. Tuttavia, sebbene queste tre frasi possono superficialmente sembrare escludere ogni libertà d’azione per il libero arbitrio, uno sguardo ravvicinato alla seconda e alla terza frase rivela che in esse egli riconosce il ruolo del libero arbitrio ma afferma che esso non può in nessun modo cambiare, aggiungere o sottrarre qualcosa da qualunque cosa è destinata ad accadere.

Le parole che egli usa per riconoscere il ruolo del libero arbitrio sono ‘என் முயற்சிக்கினும்’ (eṉ muyaṟcikkiṉum), ‘qualunque sforzo uno fa’ o ‘qualunque cosa [o per quanto] uno cerca’, nella seconda frase e ‘என் தடை செய்யினும்’ (eṉ taḍai seyyiṉum), ‘qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa’, nella terza frase. Nella seconda frase egli dice, ‘என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது’ (eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu), che significa ‘Ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo uno fa [cioè, per quanto uno cerca di farlo accadere]’, e nella terza frase dice, ‘நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது’ (naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu), che significa ‘Ciò che deve accadere non di fermerà qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa [per impedire che ciò accada]’.

Cioè, sebbene non possiamo far accadere qualcosa che non è destinata ad accadere, e sebbene non possiamo impedire che accada ciò che è destinato ad accadere, siamo liberi di volere e di cercare di fare accadere cose che non sono destinate ad accadere, e di volere e di cercare di impedire ciò che è destinato ad accadere. Solo il destino (prārabdha) determina ciò che accadrà, e ciò che noi dobbiamo fare per farlo accadere, così qualunque cosa esso non determina non accadrà. Tuttavia esso non ci impedisce di volere e di cercare di determinare ciò che non è destinato ad accadere o di impedire o evitare ciò che è destinato ad accadere, così noi siamo liberi di volere e di cercare quanto ci piace, ma non possiamo con questo cambiare, aggiungere o sottrarre qualcosa da ciò che è destinato ad accadere.

‘இதுவே திண்ணம்’ (iduvē tiṇṇam), ‘Questo è davvero certo’, afferma Bhagavan nella quarta frase di questa nota, e quindi nella frase quinta e finale conclude: ‘ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று’ (āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu), ‘Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono’. Cioè, poiché non possiamo impedire o alterare anche minimamente ciò che è destinato ad accadere, e poiché non possiamo far accadere qualcosa che non è destinata ad accadere, la direzione migliore è non volere o non cercare di farlo.

10. Nāṉ Yār? paragrafo 13: per essere silenziosi, dobbiamo essere così acutamente auto-attentivi da non dare anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero riguardo a qualunque cosa diversa da noi stessi

Finché sorgiamo e ci reggiamo come questo ego, abbiamo un libero arbitrio, e sebbene possiamo evitare in qualche misura di usare la nostra volontà per cercare o anche voler determinare qualsiasi cosa che non è destinata ad accadere o a ostacolore qualsiasi cosa che è destinata di accadere, non possiamo completamente evitare di usare la nostra volontà in questo modo. Quindi il solo modo per arrendere completamente la nostra volontà a Dio è di arrendere completamente noi stessi (questo ego) a lui.

Finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, non possiamo evitare completamente di avere simpatie, antipatie, desideri, avversioni, speranze e paure, e questi ci portano inevitabilmente a cercare attraverso mente, parola e corpo di realizzare qualunque cosa ci piace, desideriamo o per cui speriamo e di evitare qualunque cosa non ci piace, verso cui sentiamo avversione o paura. Quindi come questo ego non possiamo mai essere completamente silenziosi. Proprio il nostro sorgere come un ego è, parlando metaforicamente, un rumore, e di tutti i rumori esso è la radice o fondamento.

Quindi l’ego è proprio l’antitesi del silenzio (mauna), e perciò quando Bhagavan conclude la sua nota a sua madre dicendo, ‘ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று’ (āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu), ‘Quindi essere silenti è buono’, ciò che intendeva è che dovremmo evitare di sorgere come questo ego, cosa che possiamo fare solo essendo così acutamente auto-attentivi da non dare anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero riguardo qualunque altra cosa, come egli ha spiegato nel tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (in modo particolare nella prima frase):
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம். ஈசன்பேரில் எவ்வளவு பாரத்தைப் போட்டாலும், அவ்வளவையும் அவர் வகித்துக்கொள்ளுகிறார். சகல காரியங்களையும் ஒரு பரமேச்வர சக்தி நடத்திக்கொண்டிருகிறபடியால், நாமு மதற் கடங்கியிராமல், ‘இப்படிச் செய்யவேண்டும்; அப்படிச் செய்யவேண்டு’ மென்று ஸதா சிந்திப்பதேன்? புகை வண்டி சகல பாரங்களையும் தாங்கிக்கொண்டு போவது தெரிந்திருந்தும், அதி லேறிக்கொண்டு போகும் நாம் நம்முடைய சிறிய மூட்டையையு மதிற் போட்டுவிட்டு சுகமா யிராமல், அதை நமது தலையிற் றாங்கிக்கொண்டு ஏன் கஷ்டப்படவேண்டும்?

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhāparaṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām. īśaṉpēril e-vv-aḷavu bhārattai-p pōṭṭālum, a-vv-aḷavai-y-um avar vahittu-k-koḷḷugiṟār. sakala kāriyaṅgaḷai-y-um oru paramēśvara śakti naḍatti-k-koṇḍirugiṟapaḍiyāl, nāmum adaṟku aḍaṅgi-y-irāmal, ‘ippaḍi-c ceyya-vēṇḍum; appaḍi-c ceyya-vēṇḍum’ eṉḏṟu sadā cintippadēṉ? puhai vaṇḍi sakala bhāraṅgaḷaiyum tāṅgi-k-koṇḍu pōvadu terindirundum, adil ēṟi-k-koṇḍu pōhum nām nammuḍaiya siṟiya mūṭṭaiyaiyum adil pōṭṭu-viṭṭu sukhamāy irāmal, adai namadu talaiyil tāṅgi-k-koṇḍu ēṉ kaṣṭa-p-paḍa-vēṇḍum?

Solo essere ātma-niṣṭhāparaṉ [uno che è fermamente fissato in sé stesso e come sé stesso], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi cintana [pensiero] diverso da ātma-cintana [il pensiero di sé stessi o auto-contemplazione], è donare sé stessi a Dio. Anche se uno pone qualsiasi quantità di carico su Dio, egli porterà quell’intero carico. Poiché un paramēśvara śakti [supremo potere dominante o potere di Dio] sta guidando tutte le attività [ogni cosa che accade nella nostra vita], invece di arrenderci ad esso perché dovremmo sempre pensare, ‘è necessario fare come questo; è necessario fare come quello’? Sebbene sappiamo che il treno sta portando tutto il carico, perché dovremmo viaggiare su di esso soffrendo nel portare il nostro piccolo bagaglio sulla testa invece di rimanere felicemente lasciando il nostro bagaglio appoggiato su quel [treno]?
La sola cosa di cui sempre dovremmo interessarci, a cui dovremmo pensare o a cui dovremmo dare attenzione è noi stessi, perché finché pensiamo o diamo attenzione a qualsiasi altra cosa stiamo con questo alimentando e nutrendo il nostro ego, poiché noi sembriamo essere questo ego solo quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Se diamo attenzione anche in misura minima a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, ci sperimentiamo come una piccola persona che vive per un breve tempo in un vasto universo, e ci sembra che per sopravvivere abbiamo bisogno di fare questo o quello. Comunque secondo Bhagavan non abbiamo bisogno di fare nulla di diverso dall’essere così accuratamente auto-attentivi da non dare spazio al sorgere di alcun pensiero o consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, perché come egli spiega altrove, ogni cosa diversa da noi stessi, incluso questo ego, è solo un pensiero, e quindi sembra esistere solo quando non diamo esclusivamente attenzione a noi stessi.

Tuttavia, pensando o dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi non possiamo raggiungere niente, perché finché diamo attenzione a qualsiasi altra cosa qualunque cosa è destinata ad accadere sarà fatta accadere, e qualunque cosa la nostra mente, parola e corpo hanno bisogno di fare per farlo accadere saranno portati a farlo. Quindi, come Bhagavan chiede in questo paragrafo di Nāṉ Yār?, invece di arrendere noi stessi essendo così accuratamente e fermamente auto-attentivi da non dare assolutamente spazio al sorgere di qualsiasi pensiero riguardo a qualunque altra cosa, perché dovremmo caricare noi stessi pensando senza fine 'ho bisogno di fare questo’ o ‘ho bisogno di fare quello’?

11. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam verso 6: per lasciar comparire o scomparire ogni pensiero, dovremmo essere così acutamente auto-attentivi da essere completamente indifferenti ad essi

Nel suo commento che ho citato all’inizio di questo articolo Samarender ha chiesto, ‘Come distinguere il pensare o i pensieri associati con il prarabdha e l’altro pensare associato al non-prarabdha in cui sembro indulgere?’, ma questo manca il punto di ciò che Bhagavan ci insegna in questo tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? e nella nota a sua madre. Non abbiamo bisogno di distinguere tra i pensieri o le azioni guidate dal destino (prārabdha) e quelle guidate dal nostro libero arbitrio, perché come egli ha spiegato nella prima frase del tredicesimo paragrafo dovremmo essere così acutamente auto-attentivi da non dare anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero riguardo a qualunque altra cosa.

Se attendiamo a niente altro che a noi stessi, non ci sarà bisogno per noi – né alcuno spazio – per interessarci al fatto se il prārabdha continua o no o se esso guida la nostra mente, parola e corpo a fare qualunque cosa essi sono destinati a fare. Come Bhagavan canta nell’ultima riga del verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam: ‘அருள் குன்றே, நின்றிட சென்றிட; நினை விட இன்றே’ (aruḷ-kuṉḏṟē, niṉḏṟiḍa seṉḏṟiḍa; nini viḍa iṉḏṟē), ‘Collina di grazia, lasciali cessare o lasciali continuare; essi non esistono affatto oltre a te’, in cui ‘loro’ ed ‘essi’ (che sono parole non realmente presenti nell’originale Tamil ma sono nondimeno intesi nei verbi ‘niṉḏṟiḍa’, ‘seṉḏṟiḍa’ e ‘iṉḏṟē’) si riferiscono a ciò che egli ha descritto nella frase precedente come ‘அணு நிழல் நிரை நினைவு’ (aṇu niṙal nirai niṉaivu), la ‘serie di sottili [minuti o simili a un atomo] pensieri indistinti’, che egli ha detto sono visti nel vortice del destino sul luminoso specchio della mente come un’immagine del mondo sia interna che esterna, come un’immagine in movimento formata di ombre proiettate da una bobina di pellicola in un proiettore cinematografico e viste su uno schermo.

Secondo Bhagavan tutti i fenomeni che percepiamo nel mondo apparentemente esterno o nella nostra mente sono solo tutti pensieri, che sono proiettati dall’ego ogni volta che esso guarda lontano da sé stesso. Quindi ogni mondo che percepiamo ed ogni cosa che percepiamo in esso non sono niente altro che pensieri o idee proiettate da e nella nostra mente, come egli dice brevemente ma enfaticamente nel quattordicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘ஜக மென்பது நினைவே’ (jagam eṉbadu niṉaivē), ‘Ciò che è chiamato il mondo è solo pensiero’, e in maggiore dettaglio nel quarto paragrafo:
நினைவுகளைத் தவிர்த்து ஜகமென்றோர் பொருள் அன்னியமா யில்லை. தூக்கத்தில் நினைவுகளில்லை, ஜகமுமில்லை; ஜாக்ர சொப்பனங்களில் நினைவுகளுள, ஜகமும் உண்டு. சிலந்திப்பூச்சி எப்படித் தன்னிடமிருந்து வெளியில் நூலை நூற்று மறுபடியும் தன்னுள் இழுத்துக் கொள்ளுகிறதோ, அப்படியே மனமும் தன்னிடத்திலிருந்து ஜகத்தைத் தோற்றுவித்து மறுபடியும் தன்னிடமே ஒடுக்கிக்கொள்ளுகிறது.

niṉaivugaḷai-t tavirttu jagam-eṉḏṟōr poruḷ aṉṉiyamāy illai. tūkkattil niṉaivugaḷ illai, jagam-um illai; jāgra-soppaṉaṅgaḷil niṉaivugaḷ uḷa, jagam-um uṇḍu. silandi-p-pūcci eppaḍi-t taṉṉiḍamirundu veḷiyil nūlai nūṯṟu maṟupaḍiyum taṉṉuḷ iṙuttu-k-koḷḷugiṟadō, appaḍiyē maṉam-um taṉṉiḍattilirundu jagattai-t tōṯṟuvittu maṟupaḍiyum taṉṉiḍamē oḍukki-k-koḷḷugiṟadu.

Ad esclusione dei pensieri, non c’è separatamente una cosa come il mondo. Nel sonno non ci sono pensieri, e [di conseguenza] anche non c’è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, e [di conseguenza] anche c’è un mondo. Proprio come un ragno allunga il filo da dentro sé stesso e di nuovo lo ritira in sé stesso, così la mente proietta il mondo da dentro sé stessa e di nuovo lo dissolve in sé stessa.
Tuttavia, i pensieri possono sembrare esistere solo quando diamo ad essi attenzione, così se diamo attenzione solo a noi stessi nessun pensiero può apparire. Quindi se ogni pensiero di qualunque tipo appare, esso lo fa solo a causa del nostro pramāda: la nostra auto-dimenticanza o fallimento ad attendere esclusivamente a noi stessi. Quando la nostra auto-attentività vacilla o diminuisce, i pensieri appaiono, così se noi attendiamo a noi stessi abbastanza acutamente e fermamente, non ci sarà spazio per il sorgere di qualsiasi pensiero.

Quindi non dovremmo cercare di distinguere quali pensieri appaiono a causa del nostro destino (prārabdha) e quali appaiono a causa del nostro libero arbitrio, perché il nostro solo fine dovrebbe essere l'essere così acutamente e fermamente auto-attentivi da non dare assolutamente spazio all’apparenza di qualsiasi pensiero. Questo non significa che dovremmo cercare di impedire l’apparenza dei pensieri (o ‘arrestarli’, come Samarender suggerisce in un commento successivo), ma semplicemente che dovremmo essere così intenti nel solo essere auto-attentivi da essere completamente indifferenti alla loro comparsa o scomparsa, come Bhagavan intendeva nel verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam quando ha cantato: ‘நின்றிட சென்றிட; நினை விட இன்றே’ (niṉḏṟiḍa ceṉḏṟiḍa; niṉai viḍa iṉḏṟē), ‘Lasciali cessare o lasciali continuare; essi non esistono affatto oltre a te’.

In questo contesto ‘நினை’ (niṉai), ‘tu’, si riferisce ad Arunachala, che egli ha descritto nella prima frase di questo verso come ‘ஒரு பொருள் அறிவு ஒளி உளமே’ (oru poruḷ aṟivu olì uḷamē), ‘solo il cuore, la luce della consapevolezza, l’unica sostanza’, intendendo con questo che esso è il nostro vero sé, che è pura auto-consapevolezza, la luce originale e l’unica sostanza reale, così quando egli ha cantato ‘நினை விட இன்றே’ (niṉai viḍa iṉḏṟē), ‘essi non esistono oltre a te’, ciò che intendeva è che poiché i pensieri non esistono indipendentemente da o come diversi da noi stessi, non dovremmo interessarci ad essi ma solo a noi stessi, la loro unica sostanza reale, che è pura auto-consapevolezza.

Se siamo interessati in qualsiasi modo ai pensieri – se essi compaiono o scompaiono, o se appaiono a causa del destino o del libero arbitrio – stiamo con ciò trascurando l’essere auto-attentivi tanto acutamente e fermamente quanto dovremmo ambire ad essere. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha scritto nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār?:
பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும். எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன? ஜாக்கிரதையாய் ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால் எனக்கென்று தோன்றும். நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்; எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும். இப்படிப் பழகப் பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது.

piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṟku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum. ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa? jāggiratai-y-āy ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum. nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṟku-t tirumbi-viḍum; eṙunda v-eṇṇamum aḍaṅgi-viḍum. ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṟku-t taṉ piṟappiḍattil taṅgi niṟgum śakti y-adhikarikkiṉḏṟadu.

Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli è necessario investigare a chi essi sono comparsi. Per quanto pensieri sorgono, cosa [importa]? Appena ogni pensiero appare, se uno investiga con vigilanza a chi essi sono comparsi, sarà chiaro: a me. Se uno [in questo modo] investiga chi sono io, la mente ritornerà al suo luogo di nascita [sé stessi, la sorgente da cui è sorta]; il pensiero che è sorto anche cesserà. Quando uno pratica e pratica in questo modo, il potere della mente di rimanere fermamente stabilita nel suo luogo di nascita aumenterà. [...]
Poiché i pensieri possono apparire e prosperare solo se diamo ad essi attenzione, se ogni volta che essi appaiono rivolgiamo la nostra attenzione a noi stessi li staremo effettivamente annientando nella loro sorgente, vale a dire noi stessi, il vero luogo dal quale essi sorgono, come egli ci ha istruito a fare nell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?: ‘நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும்’ (niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum), ‘Come e quando i pensieri sorgono, in quel momento e lì è necessario annientarli tutti per mezzo di vicāraṇā [investigazione o acuta auto-attentività] proprio nel luogo in cui essi sorgono’.

12. Distinguere i pensieri o le azioni guidate dal nostro destino da quelli guidati dal nostro libero arbitrio non è necessario né possibile

Distinguere tra i pensieri o le azioni guidate dal nostro destino (prārabdha) e quelli guidati dal nostro libero arbitrio non solo non è necessario né in qualsiasi modo benefico, ma per noi non è neppure possibile farlo, perché come questo ego sperimentiamo sempre noi stessi come un corpo composto di cinque guaine (che includono sia il corpo fisico che la mente pensante), così qualunque azione è fatta da mente, parola o corpo che confondiamo come noi stessi ci sembra necessariamente azione fatta da noi stessi. Quindi che ogni particolare pensiero, sforzo o azione sia guidato dal nostro destino o dal nostro libero arbitrio, o (come in molti casi) da entrambi, ci sembra che noi stiamo facendo ciò, così il nostro senso di essere l’agente (kartṛtva buddhi) ci impedisce di essere in grado di distinguere pensieri o azioni guidate dal nostro destino da quelle guidate dal nostro libero arbitrio.

Inoltre, finché il nostro intelletto è rivolto all’esterno – cioè, verso qualsiasi cosa diversa da noi stessi – è uno strumento relativamente grezzo, lento e ottuso, così non è possibile per esso comprendere adeguatamente come ogni cosa accade secondo il prārabdha, sebbene la nostra mente, parola e corpo sono guidati non solo dal nostro prārabdha ma anche dal nostro libero arbitrio. Ci sembra paradossale che sebbene il prārabdha determina ogni cosa che accade, noi siamo nondimeno liberi di usare il nostro libero arbitrio per volere e per cercare attraverso mente, parola e corpo di determinare ciò che non è destinato ad accadere e a impedire ciò che è destinato ad accadere.

Come questo è possibile e come avviene realmente è oltre la nostra comprensione, ma non abbiamo bisogno di comprenderlo, perché tutto ciò di cui abbiamo bisogno di interessarci è solo il cercare di vedere ciò che noi siamo realmente. Cercare e comprendere il karma è anātma-vicāra (investigare ciò che non è noi stessi), mentre la sola vicāra (investigazione) degna di essere intrapresa è ātma-vicāra (auto-investigazione), perché ciò che è reale è solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa.

Tuttavia, sebbene non possiamo comprendere adeguatamente come le azioni della nostra mente, parola e corpo siano guidate simultaneamente sia dal nostro prārabdha che dal nostro libero arbitrio, e sebbene non abbiamo bisogno di comprendere questo o anche cercare di farlo, un’analogia può aiutarci a comprendere come queste due forze sono intricatamente intrecciate e avviluppate nella nostra vita come una persona. Il destino (prārabdha) è come l’ordito (i fili longitudinali) in una tela strettamente intessuta, mentre il libero arbitrio è come la trama (i fili trasversali). Proprio come la nostra vista non è abbastanza acuta da distinguere i singoli fili in una fine tela strettamente intessuta, il nostro intelletto non è abbastanza acuto da distinguere le relative influenze di destino e libero arbitrio in ciascuno dei nostri pensieri o altre azioni.

Inoltre, sebbene la trama si intreccia sopra, sotto e attorno il filo di ordito, essa è strettamente legata ad esso e quindi non può deviare da esso. Dove il filo di ordito va, la trama deve seguire, che le piaccia o no. Nello stesso modo il libero arbitrio può agire, andando in questo modo o in quello, ma la sua libertà di movimento (cioè, la sua capacità di realizzare qualunque cosa vuole e cerca di realizzare) è rigidamente limitato dal suo essere così strettamente legato all’interno dei confini del corso degli eventi dettati dal prārabdha, così non importa quanto esso possa cercare di divincolarsi, dove il prārabdha va esso deve seguire, che gli piaccia o no.

Questa è sicuramente una rozza analogia, come lo è ogni analogia usata per illustrare un soggetto estremamente sottile, ma è intesa solo fornire un’idea rozza di come l’attività di destino e libero arbitrio sono strettamente ed intimamente legate insieme, anche se essi sono due forze distinte che spesso spingono in direzioni opposte. Possiamo anche usarla per illustrare un altro punto: Proprio come i fili dell’ordito sono tenuti strettamente insieme dai fili di trama intessuti, il prārabdha funziona solo finché noi continuiamo ad usare il nostro libero arbitrio per dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Se lo usiamo per attendere solo a noi stessi, il prārabdha cesserà, perché nessuno allora rimarrà a sperimentarlo.

13. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 38: solo usando il nostro libero arbitrio per investigare noi stessi possiamo liberarci dall’ego e da tutti i sui tre karma

Secondo Bhagavan, usare il nostro libero arbitrio per dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è usarlo impropriamente, ed è solo usandolo impropriamente che compiamo āgāmya (nuove azioni), senza le quali per noi non ci sarebbe frutto da sperimentare come prārabdha. Quindi tutto il karma ha origine dal nostro uso improprio del nostro libero arbitrio, e quindi esso può essere distrutto solo dal nostro usare il nostro libero arbitrio in modo corretto per attendere solo a noi stessi.

Cioè, se invece di dare attenzione a qualsiasi altra cosa attendiamo a noi stessi abbastanza acutamente da vedere ciò che siamo realmente, il nostro ego sarà annientato insieme con il suo senso di essere l’agente (kartṛtva) e il senso di essere lo sperimentatore (bhōktṛtva), e quindi tutti i suoi tre karma (āgāmya, sañcita e prārabdha) cesseranno di esistere, come Bhagavan dice nel verso 38 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
வினைமுதனா மாயின் விளைபயன் றுய்ப்போம்
வினைமுதலா ரென்று வினவித் — தனையறியக்
கர்த்தத் துவம்போய்க் கருமமூன் றுங்கழலு
நித்தமா முத்தி நிலை.

viṉaimudaṉā māyiṉ viḷaipayaṉ ḏṟuyppōm
viṉaimudalā reṉḏṟu viṉavit — taṉaiyaṟiyak
karttat tuvampōyk karumamūṉ ḏṟuṅkaṙalu
nittamā mutti nilai
.

பதச்சேதம்: வினைமுதல் நாம் ஆயின், விளை பயன் துய்ப்போம். வினைமுதல் ஆர் என்று வினவி தனை அறிய, கர்த்தத்துவம் போய், கருமம் மூன்றும் கழலும். நித்தமாம் முத்தி நிலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉaimudal nām āyiṉ, viḷai payaṉ tuyppōm. viṉaimudal ār eṉḏṟu viṉavi taṉai aṟiya, karttattuvam pōy, karumam mūṉḏṟum kaṙalum. nittam-ām mutti nilai.

Traduzione: Se noi siamo l’agente dell’azione, sperimenteremo il frutto risultante. [Tuttavia] quando uno conosce sé stesso per mezzo dell’investigazione chi è l’agente dell’azione, il senso di essere l’agente se ne andrà e tutti i tre karma se la svigneranno. [Questo è] lo stato di liberazione, che è eterno.
Come ogni altra cosa, il karma sembra esistere solo quando noi guardiamo lontano da noi stessi, perché ogni volta che guardiamo da qualche altra parte sembriamo essere questo ego, e la natura dell’ego è di confondere sé stesso come un corpo e una mente, la cui natura è di essere attivi. Quindi il solo modo per liberare noi stessi da tutti i tipi di karma è investigare ciò che siamo realmente.

Quando diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, sembriamo essere questo ego, così per vedere ciò che siamo realmente dobbiamo attendere solo a noi stessi e di conseguenza essere ciò che siamo realmente, che è solo pura auto-consapevolezza, sempre incontaminata anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa. Quindi il nostro fine immediato dovrebbe essere coltivare la preferenza e l’abitudine ad essere auto-attentivi quanto più possiamo, e per coltivare questa preferenza e abitudine abbiamo bisogno di rinunciare ad essere interessati o coinvolti in qualsiasi altro soggetto, incluso il soggetto sottile ma complesso di destino e libero arbitrio.

14. Se la nostra attenzione non è rivolta all’esterno, lontano da noi stessi, il prārabdha non può legarci o farci pensare qualcosa

Tranne noi stessi, ogni cosa che percepiamo o sperimentiamo è solo una serie di fenomeni che appaiono in un sogno proiettato da noi come questo ego, e ciò che sperimentiamo in ogni sogno è determinato dal prārabdha di quel sogno. Quindi sebbene siamo liberi di avere simpatia o antipatia per qualunque cosa sperimentiamo, ed anche di cercare di conseguenza di alterarla, di aggiungere o sottrarre qualcosa ad essa, non siamo realmente liberi di farlo, come Bhagavan enfatizza nella seconda, terza e quarta frase della nota a sua madre:
என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது; நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது. இதுவே திண்ணம்.

eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. iduvē tiṇṇam.

Ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo uno fa [per farlo accadere]; ciò che deve accadere non si fermerà qualunque ostacolo [o resistenza] uno compie [per impedire che accada]. Questo è certo davvero.
Quindi finché diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi qualunque cosa percepiamo o sperimentiamo è determinata dal nostro prārabdha, ma come Bhagavan spesso diceva, il prārabdha influisce solo sulla mente rivolta all’esterno, non sulla mente rivolta all’interno. Questo ha molte implicazioni importanti.

Prima di tutto mina un presupposto che è implicito nel commento di Samarender che ho citato all’inizio di questo articolo, vale a dire il presupposto che noi dobbiamo sperimentare qualunque pensiero che la nostra mente è destinata a sperimentare. Finché la nostra attenzione è rivolta lontano da noi stessi, non possiamo evitare di sperimentare tali pensieri, e ogni volta che li sperimentiamo sempre sperimenteremo noi stessi come ‘io sto pensando questo’. Tuttavia, possiamo evitare di sperimentarli, e di conseguenza evitare di sperimentare noi stessi come ‘io sto pensando questo’, semplicemente rivolgendo la nostra attenzione verso noi stessi, e finché siamo accuratamente auto-attentivi non saremo consapevoli di qualsiasi pensiero (cioè, ogni fenomeni di qualunque tipo) che il nostro prārabdha ci può indirizzare.

Generalmente non siamo in grado di essere abbastanza acutamente auto-attentivi da impedire a noi stessi di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, così se la nostra auto-attentività è solo parziale, continueremo ad essere in quale misura consapevoli di pensieri, più siamo acutamente auto-attentivi, meno saremo consapevoli di altri pensieri, e se siamo abbastanza acutamente auto-attentivi, non daremo spazio nella nostra consapevolezza all’apparenza di qualunque pensiero, incluso l’ego, il pensiero che pensa ‘io sto pensando’. (E qui dovremmo ricordare che in questo contesto ‘pensiero’ non significa solo chiacchierio mentale, ricordi o immagini interne, ma significa qualsiasi cosa che percepiamo diversa da noi stessi, perché secondo Bhagavan (come ho citato sopra nella sezione 11) tutti i fenomeni che costituiscono il mondo apparentemente esterno sono solo pensieri proiettati dalla nostra mente, ed anche noi come questo ego siamo solo un pensiero, così ‘pensare’ significa essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi – cioè, diversa dalla pura auto-consapevolezza che siamo realmente.) Quindi essere auto-attentivi è il solo mezzo con cui possiamo evitare di sperimentare qualunque cosa, noi come questo ego, siamo destinati a sperimentare.

Nel suo primo commento Samarender ha scritto: ‘Se qualunque cosa deve accadere è decisa dal mio prarabdha, allora qualunque movimento che il corpo deve fare e qualunque cosa la mente deve ‘pensare’ perché il corpo compia azioni secondo il prarabdha sono anche predeterminati e l’”io, l'ego” non ha voce in capitolo. Ma tu dici anche, “quindi non abbiamo bisogno di pensare”. E nondimeno la mente penserà necessariamente qualche pensiero secondo il prarabdha’. Si, secondo Bhagavan la mente dovrà pensare qualunque cosa è destinata a pensare, ma noi siamo la mente? Se siamo la mente, abbiamo bisogno di pensare, perché pensare è la vera natura della mente, ma se non siamo la mente, non abbiamo affatto bisogno di pensare.

Finché sperimentiamo noi stessi come questa mente, sembreremo pensare qualunque cosa essa è destinata a pensare, ma non abbiamo bisogno di sperimentare noi stessi come questa mente. Sembriamo essere questa mente solo quando dirigiamo la nostra attenzione lontano da noi stessi, così se dirigiamo tutta la nostra attenzione verso noi stessi, non sembreremo più pensare qualunque cosa la mente può essere destinata a pensare.

Attendere a noi stessi è come rivolgere la lampada ad arco in un proiettore cinematografico verso sé stesso. Anche se una pellicola sta scorrendo nel proiettore, nessuna immagine sarà proiettata se la luce della lampada ad arco non passa attraverso la pellicola. Nello stesso modo anche se la pellicola del nostro prārabdha sta scorrendo, per così dire, niente sarà proiettato nella nostra consapevolezza se la luce della nostra attenzione non è diretta all’esterno, lontano da noi stessi. Quindi se la nostra intera attenzione è diretta soltanto verso noi stessi, qualunque cosa, noi come questo ego, siamo destinati a sperimentare non apparirà nella nostra consapevolezza, perché non saremo consapevoli di niente altro che noi stessi, e quindi il nostro ego sarà sprofondato.

Come Bhagavan dice in due brani registrati in Day by Day with Bhagavan, ‘La mente rivolta all’interno è il Sé; rivolta all’esterno, diventa l’ego e tutto il mondo’ (11-1-46: edizione 2002, pagina 106), e ‘La mente, rivolta all’esterno, dà come risultato pensieri e oggetti. Rivolta all’interno, essa stessa diviene il Sé (8-11-45: edizione 2002, pagina 37). Ciò che egli intende con ‘mente’ in questo contesto è attenzione o consapevolezza. Rivolta all’interno, la nostra attenzione è pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, ma rivolta all’esterno, essa diviene l’auto-consapevolezza mischiata ad aggiunte chiamata ego, che immediatamente proietta l’intero mondo e tutti gli altri pensieri. Per la pura auto-consapevolezza non c’è prārabdha, così non c’è prārabdha per noi quando la nostra attenzione è rivolta all’interno per guardare soltanto noi stessi. Solo quando permettiamo alla nostra attenzione di andare all’esterno, lontano da noi stessi verso qualsiasi altra cosa, sembriamo divenire questo ego, per il quale sempre esiste prārabdha.

15. Upadēśa Undiyār verso 2: essendo il frutto delle nostre azioni passate, il prārabdha non può far voltare all’interno la nostra mente e quindi non può mai darci la liberazione

Due altre importanti implicazioni dell’insegnamento di Bhagavan che il prārabdha influisce solo sulla mente rivolta all’esterno, non sulla mente rivolta all’interno, sono prima di tutto che esso non può mai far rivolgere all’interno la nostra mente, e poi che esso non può mai impedirci di rivolgere la nostra mente all’interno. Consideriamo la prima di queste due implicazioni.

Il prārabdha è un karma, nel senso che è il frutto di azioni che abbiamo fatto nel passato, e nessun karma può mai dare la liberazione, come Bhagavan afferma in modo inequivocabile nel verso 2 di Upadēśa Undiyār:
வினையின் விளைவு விளிவுற்று வித்தாய்
வினைக்கடல் வீழ்த்திடு முந்தீபற
வீடு தரலிலை யுந்தீபற.

viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivuṯṟu vittāy
viṉaikkaḍal vīṙttiḍu mundīpaṟa
vīḍu taralilai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வினையின் விளைவு விளிவு உற்று வித்தாய் வினை கடல் வீழ்த்திடும். வீடு தரல் இலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivu uṯṟu vittāy viṉai-kaḍal vīṙttiḍum. vīḍu taral ilai.

Traduzione: Essendo deteriorato il frutto dell’azione, come seme causa la caduta nell’oceano dell’azione. Non è dare la liberazione.

Traduzione parafrasata: Il frutto dell’azione deteriorato [rimane] come seme [e quindi] causa la caduta nell’oceano dell’azione. [Quindi l’azione] non dà la liberazione.
Tutte le azioni sono limitate, così possono dare solo frutto limitato, mentre la liberazione è il nostro stato naturale, che è senza inizio, senza fine, immutabile ed indivisibile, così è eterno ed infinito, e quindi non può mai essere il frutto di alcuna azione.

Poiché i frutti delle azioni sono limitati, ognuno di essi giunge a una fine quando è sperimentato come parte del nostro prārabdha, ma proprio come i semi di un frutto rimangono dopo che esso è mangiato, i semi di ogni azione rimangono anche dopo che il suo frutto è stato consumato. I semi delle nostre azioni sono chiamati karma-vāsanā, la propensione, l’inclinazione o la preferenza a fare lo stesso tipo di azione ancora ed ancora, e ogni volta che volontariamente facciamo un particolare tipo di azione, la nostra vāsanā o inclinazione a fare ancora una tale azione è rafforzato. Quindi compiere qualsiasi azione volontariamente, dalla mente, dalla parola o dal corpo, perpetua un circolo vizioso, e perciò Bhagavan dice che l’azione ‘causa la caduta nell’oceano dell’azione’ (வினை கடல் வீழ்த்திடும்: viṉai-kaḍal vīṙttiḍum).

Tuttavia, perché noi possiamo fare qualsiasi azione, con la mente, la parola o il corpo, la nostra attenzione deve essere rivolta all’esterno, perché se non fosse rivolta all’esterno, non saremmo consapevoli della mente, della parola o del corpo, e quindi (anche se essi potessero fare qualsiasi azione senza il nostro essere consapevoli di essa) non sperimenteremmo qualsiasi azione fatta da essi come ‘io sto facendo questo’. Quindi tutti i problemi sorgono solo quando permettiamo alla nostra attenzione di andare all’esterno, lontano da noi stessi.

Nessuna azione può iniziare senza che la nostra attenzione si muova lontano da noi stessi, e tutte le azioni cessano appena la nostra intera attenzione ritorna a noi stessi. Poiché noi sorgiamo, ci reggiamo e prosperiamo come questo ego solo ‘afferrando la forma’, come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu (che ho citato sopra nella sezione 3), finché sperimentiamo noi stessi come questo ego la nostra attenzione è sempre diretta lontano da noi stessi verso qualunque forma stiamo al momento afferrando, e quindi come tali siamo impegnati in modo perpetuo nell’azione. Davvero il vero movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi verso qualsiasi altra cosa è un’azione, così non possiamo astenerci da fare azione tranne che rivolgendo la nostra intera attenzione verso noi stessi.

Né l’azione (karma) né il frutto di ogni azione (karma-phala) né ogni propensione a fare ogni azione (karma-vāsanā) può darci la liberazione, perché la vera natura della liberazione è la libertà dal senso di essere l’agente e quindi da tutta l’azione. Poiché la liberazione è uno stato che è completamente privo di tutta l’attività, non può essere ottenuto per mezzo di qualche azione. Quindi, poiché il prārabdha è solo una serie di frutti (phala) delle nostre azioni passate (karma), non può mai darci la liberazione.

Il fato o destino (prārabdha) è la serie di esperienze che siamo destinati a subire in ogni sogno, dei quali la nostra vita attuale è solo uno tra molti, e poiché quelle esperienze sono il frutto delle nostre azioni passate, sono tutte diverse da noi stessi. Quindi sperimentare il prārabdha comporta il dirigere la nostra attenzione lontano da noi stessi, così esso mai ci farà rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi, e lasciato ai propri piani tenderà sempre ad attrarre la nostra attenzione all’esterno. Rivolgere la nostra attenzione a noi stessi non è quindi una questione di destino ma solo di libero arbitrio.

Se discriminiamo saggiamente, le esperienze che costituiscono il nostro destino possono aiutarci a comprendere perché dovremmo rivolgere la nostra attenzione all’interno, ma esse non possono mai farci rivolgere la nostra attenzione all’interno, perché sono soltanto il frutto delle nostre azioni passate, che non possono mai dare la liberazione. Rivolgere la nostra attenzione all’interno è un atto d’amore, così richiede che facciamo un uso corretto del nostro libero arbitrio, che non è mai legato dal destino.

Poiché l’azione non può mai dare la liberazione, il solo mezzo per ottenere la liberazione deve essere qualcosa che non è un’azione. Dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un’azione, perché comporta un movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, così non possiamo ottenere la liberazione dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Tuttavia, dare attenzione a noi stessi non è un’azione, perché non comporta alcun movimento della nostra attenzione lontano da noi stessi, così è solo attendendo esclusivamente a noi stessi che possiamo ottenere la liberazione.

Sebbene il termine ‘rivolgere l’attenzione a sé stessi’ può sembrare che implichi un’azione, ciò che esso descrive non è realmente un’azione ma una cessazione di tutte le attività, perché noi sorgiamo e ci reggiamo come l’ego dando attenzione ad altre cose, così quando attendiamo solo a noi stessi questo ego sprofonderà e scomparirà, e ciò che allora rimarrà sarà solo la pura auto-consapevolezza che siamo realmente, la cui natura non è fare ma solo essere. Quindi dare attenzione a qualsiasi altra cosa comporta il sorgere in uno stato di attività (pravṛtti), mentre attendere solo a noi stessi comporta lo sprofondare nel nostro stato reale di solo essere (nivṛtti), che è liberazione. Questo è il motivo per cui Bhagavan ci ha insegnato che la liberazione non può essere ottenuta facendo qualcosa, ma solo essendo semplicemente come siamo realmente.

16. Upadēśa Undiyār versi 8 e 9: per l’intensità della nostra auto-attentività noi saremo nel nostro stato reale di essere, che è oltre il pensiero

Essere auto-attentivi non è un’azione (karma) o un fare (kriya) ma è semplicemente uno stato di solo essere (summā iruppadu), perché nella misura in cui siamo auto-attentivi siamo solo la pura auto-consapevolezza che sempre siamo realmente. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nei versi 8 e 9 di Upadēśa Undiyār:
அனியபா வத்தி னவனக மாகு
மனனிய பாவமே யுந்தீபற
வனைத்தினு முத்தம முந்தீபற.

aṉiyabhā vatti ṉavaṉaha māhu
maṉaṉiya bhāvamē yundīpaṟa
vaṉaittiṉu muttama mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: அனிய பாவத்தின் அவன் அகம் ஆகும் அனனிய பாவமே அனைத்தினும் உத்தமம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṉiya-bhāvattiṉ avaṉ aham āhum aṉaṉiya-bhāvam-ē aṉaittiṉ-um uttamam.

Traduzione: Piuttosto che anya-bhāva [meditazione su Dio come se fosse qualcosa diversa da sé stessi], ananya-bhāva [meditazione su di lui come niente altro che sé stessi], in cui egli è io, è certamente la migliore tra tutte.

பாவ பலத்தினாற் பாவனா தீதசற்
பாவத் திருத்தலே யுந்தீபற
பரபத்தி தத்துவ முந்தீபற.
bhāva balattiṉāṯ bhāvaṉā tītasaṯ
bhāvat tiruttalē yundīpaṟa
parabhatti tattuva mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: பாவ பலத்தினால் பாவனாதீத சத் பாவத்து இருத்தலே பரபத்தி தத்துவம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): bhāva balattiṉāl bhāvaṉātīta sat-bhāvattu iruttal-ē para-bhatti tattuvam.

Traduzione: Per la forza della meditazione, essere in sat-bhāva, che trascende il bhāvana, è certamente para-bhakti tattva.

Traduzione elaborata: Per la forza [l’intensità, la fermezza o la stabilità] di [tale] meditazione [ananya-bhāva o auto-attentività], essere in sat-bhāva [il proprio ‘stato di essere’ o ‘essere reale’], che trascende [tutto] il bhāvana [pensiero, immaginazione o meditazione], certamente [o soltanto] è para-bhakti tattva [l’essenza reale o vero stato di devozione suprema].
Il termine ‘அனனிய பாவம்’ (aṉaṉiya-bhāvam), che Bhagavan usa nel verso 8, è una forma Tamil del termine Sanscrito अनन्य भाव (ananya-bhāva), che significa ‘meditazione su ciò che non è diverso’, così in questo contesto significa essere auto-attentivi, poiché noi soli siamo ciò che non è diverso (ananya) da noi stessi, come da lui confermato nella proposizione relativa che ha prefisso a questo termine, vale a dire ‘அவன் அகம் ஆகும்’ (avaṉ aham āhum), che significa ‘in cui egli [Dio] è io’. Poiché Dio è io (noi stessi), meditare su niente altro che io è il modo corretto e più efficace per meditare su Dio, come egli ha enfatizzato dicendo che essa è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉ-um uttamam), ‘la migliore tra tutte’.

Quindi ciò che egli ha inteso nel verso 9 con il termine ‘பாவ பலத்தினால்’ (bhāva balattiṉāl), che significa ‘con la forza [l’intensità, la fermezza o la stabilità] della meditazione’, è ‘con l’intensità di tale auto-attentività’. Cioè, più siamo intensamente, acutamente e fermamente auto-attentivi, più fermamente saremo fissati nel nostro naturale stato di essere (sat-bhāva), che è bhāvaṉātīta: oltre tutto il pensiero o l’attività mentale. Essere fermamente stabiliti in questo modo nel nostro naturale stato di essere senza anche la minima attività mentale è para-bhakti tattva: il verso stato di devozione suprema.

Quindi essere acutamente e fermamente auto-attentivi, senza dare anche il minimo spazio all’apparenza di qualsiasi pensiero, è il bene supremo, mentre dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi sé stessi è la sorgente, la causa e il fondamento di tutto ciò che è cattivo.

17. Il prārabdha determina ciò che dobbiamo sperimentare solo finché siamo rivolti all’esterno, così esso non può mai impedirci di rivolgerci all’interno per guardare verso noi stessi

Infine ora consideriamo la seconda delle due altre importanti implicazioni dell’insegnamento di Bhagavan che il prārabdha influisce solo sulla mente rivolta all’esterno, non sulla mente rivolta all’interno, vale a dire che il prārabdha non può mai impedirci di rivolgere interiormente la nostra mente.

Il prārabdha determina quali esperienze dobbiamo affrontare in ogni momento in ciascuno dei nostri sogni, dei quali la nostra vita attuale è solo uno, così poiché tutte queste esperienze vengono e vanno, esse sono diverse da noi stessi. Quindi possiamo affrontarle solo quando siamo rivolti all’esterno, lontano da noi stessi. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto che il prārabdha influisce su di noi o ci lega solo quando la nostra mente o attenzione è rivolta all’esterno.

Tuttavia, sebbene il prārabdha determina ogni cosa che sperimentiamo finché siamo rivolti all’esterno, esso non può costringerci a guardare all’esterno. Sia che ci rivolgiamo all’esterno e quindi sperimentiamo qualunque cosa siamo destinati a sperimentare o che ci rivolgiamo all’interno e quindi evitiamo di sperimentare qualunque cosa siamo destinati a sperimentare è interamente una questione della nostra scelta o libero arbitrio. In ogni momento siamo liberi di scegliere di rivolgerci all’esterno o di rivolgerci all’interno.

In questo contesto ‘rivolgersi all’esterno’ significa dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, mentre ‘rivolgersi all’interno’ significa attendere solo a noi stessi. Se vogliamo rivolgerci all’interno, niente può impedirci di farlo, così se ci rivolgiamo all’esterno e quindi sperimentiamo qualunque cosa siamo destinati a sperimentare, facciamo così perché questo è ciò che vogliamo fare. Quindi se troviamo difficile rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi o di rimanere fermamente rivolti a noi stessi, questo non è a causa del prārabdha ma solo a causa del fatto che il nostro amore per essere attentivamente auto-consapevoli non è ancora abbastanza forte per superare il nostro desiderio di sorgere come questo ego e con questo essere consapevole di altre cose.

Ciò che usa il suo libero arbitrio per desiderare di sperimentare cose diverse da sé stesso e di sforzarsi attraverso mente, parola e coro a sperimentare qualunque cosa esso vuole sperimentare non è noi stessi come siamo realmente ma solo noi stessi come questo ego. In altre parole, è solo quando sorgiamo e ci reggiamo come questo ego che usiamo il nostro libero arbitrio per impegnarci nell’azione (karma). Quindi, poiché l’agente dell’azione è solo l’ego, esso solo deve sperimentare il frutto di qualunque azione ha fatto, e quindi poiché il prārabdha è solo una selezione dei frutti delle azioni che noi come questo ego abbiamo fatto nel passato, esso deve essere sperimentato solo da noi stessi come questo ego che ora sembriamo essere e non da noi stessi come la pura auto-consapevolezza che siamo realmente.

Quindi siamo legati a sperimentare il prārabdha solo finché sorgiamo e ci reggiamo come questo ego, e per sorgere e reggerci come questo ego dobbiamo rivolgerci all’esterno. Se ci voltiamo indietro per rivolgerci all’interno, il nostro ego sprofonderà, perché esso può sorgere e reggersi solo ‘afferrando la forma’, che comporta essere consapevole di cose diverse da sé stesso, e nella misura in cui esso sprofonda non è più disponibile a sperimentare il suo prārabdha.

Noi sorgiamo come questo ego non a causa del prārabdha ma solo perché abbiamo scelto di farlo, così come questo ego siamo liberi di scegliere se continuare a reggerci o sprofondare. Per continuare a reggerci, dobbiamo continuare a rivolgerci all’esterno, sperimentando quindi qualunque prārabdha noi come questo ego siamo destinati a sperimentare, e per sprofondare, dobbiamo semplicemente voltarci indietro per rivolgerci soltanto verso noi stessi.

Poiché possiamo sperimentare il nostro prārabdha solo quando ci rivolgiamo all’esterno, se scegliamo di rivolgerci all’interno nessun prārabdha può toccarci. Quindi la scelta è nostra: possiamo scegliere di rivolgerci all’esterno e di sperimentare il prārabdha, o possiamo scegliere di rivolgerci all’interno ed essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Quindi non abbiamo assolutamente bisogno di considerare se ogni particolare pensiero appare a causa del nostro prārabdha o a causa del nostro libero arbitrio, perché nessun pensiero può apparire se non guardiamo all’esterno, lontano da noi stessi, e quindi se ci rivolgiamo all’interno per guardare solo noi stessi, nessun pensiero di qualunque tipo apparirà. Quindi la sola cosa di cui abbiamo bisogno di interessarci è cercare persistentemente di rivolgerci all’interno per vedere cosa siamo realmente.

Lasciamo che qualsiasi numero e qualsiasi tipo di pensieri appaia o scompaia: essi non dovrebbero essere un nostro interesse, come Bhagavan intendeva nella riga finale del verso 6 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam quando cantava: ‘நின்றிட சென்றிட; நினை விட இன்றே’ (niṉḏṟiḍa ceṉḏṟiḍa; niṉai viḍa iṉḏṟē), ‘Lasciali cessare o lasciali continuare; essi non esistono oltre a te’. Poiché ‘நினை’ (niṉai) o ‘tu’ si riferisce qui alla luce di pura auto-consapevolezza che siamo realmente, che è l’unica sostanza reale, è la sola cosa di cui abbiamo bisogno di interessarci o a cui dare attenzione. Niente altro importa, finché siamo persistentemente e fermamente intenti solo a essere sempre più acutamente e stabilmente auto-attentivi.


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