Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 29 ottobre 2014

Perché ātma-vicāra è necessaria ?



Michael James 

18 Aprile 2014 



Un amico mi ha scritto recentemente dicendo che ha sentito che nel mio articolo Does the practice of ātma-vicāra work? non ho realmente risposto alla domanda in  modo diretto, e ha cercato di spiegare perché sentiva questo. Questa è la sostanza di ciò che ha scritto:  dopo molti anni di pratica di auto-attenzione, è arrivato a una ferma convinzione che c’è solo un sé, non un sé in cerca di un altro sé,  e che ‘io sono il Sé’; c’è solo il Sé, così lo sforzo, la ricerca e l’ottenimento del Sé sono solo un’illusione creata dalla mente, e Ramana ha detto che la mente non esiste; quindi egli è fermamente convinto che ‘io sono il Sé’ e che egli deve solo dimorare nel Sé; sebbene l’illusione del mondo è ancora lì, con la mente e i pensieri, ciò non cambia il fatto che c’è solo il Sé; se la mente ora sia distrutta o meno, non importa veramente, perché è solo un’immagine sullo schermo e non ha realtà; in questo modo la ‘realizzazione’ è necessaria?   Jñāna [auto-conoscenza] non accadrà quando il corpo muore? Quindi egli ha concluso che fino a che il corpo e la mente siano distrutti dalla morte, ciò che è importante è avere la convinzione che ‘C’è solo il Sé e nient’altro’, e che ‘io sono Quello’.

In alcune email successive egli ha anche chiesto riguardo al ‘progresso’ (con riferimento a un esempio che Bhagavan diede del far detonare un cannone: preparare il cannone per la detonazione richiede tempo, ma una volta che è preparato, la detonazione avviene in un istante) e riguardo alla paura che sorge durante la pratica di ātma-vicāra, e ha anche chiesto se certe esperienze possono essere spiegate in termini di kuṇḍalinī. Ciò che segue è adattato e composto dalla risposta che gli ho scritto:

Sì, c’è solo il sé, e il sé è ciò che sempre sperimentiamo come ‘io sono’. Comunque, fino a che sperimentiamo noi stessi come una persona (un’entità che si compone di corpo e mente), sperimentiamo non solo ‘io’ ma anche molte altre cose, e questo crea l’illusione che ‘io’ sia qualcosa di limitato: una cosa tra molte altre cose.

Sperimentiamo altre cose perché sperimentiamo noi stessi come un corpo, e sperimentiamo noi stessi come un corpo perché non sperimentiamo chiaramente noi stessi come siamo realmente. Quindi, per distruggere l’illusione dell’alterità, dobbiamo sperimentare ciò che siamo realmente.

La morte del nostro corpo non ci renderà in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente, perché questo corpo non è più reale di qualsiasi corpo che sperimentiamo come ‘io’ in un sogno. Quando lasciamo un corpo di sogno svegliandoci o sprofondando nel sonno, non sperimentiamo ciò che siamo realmente. Perché allora dovremmo supporre che quando lasciamo questo corpo a causa di morte sperimenteremo ciò che siamo realmente? Lasciamo questo corpo ogni notte quando ci addormentiamo , ma non per questo sperimentiamo ciò che siamo realmente.

Comunque, non sperimenteremo mai realmente la nostra morte, perché non appena lasciamo questo corpo, o ci addormentiamo o iniziamo a sperimentare un altro sogno.  Ciò che appare come la morte nella visione di altri, sarà proprio come la fine di un sogno per la persona che muore. Quindi la morte del nostro corpo non è una soluzione al nostro attuale problema di auto-ignoranza.

Neppure è una soluzione il pensiero ‘io sono il sé’, perché come tutti gli altri pensieri esso viene e va.  Poiché nel sonno non pensiamo ‘io sono il sé’, o anche durante gli stati di veglia e di sogno, esso ci è alieno: cioè, è qualcosa di diverso da ciò che siamo realmente.

Chi pensa ‘io sono il sé’ è solo la mente, perché il sé in se stesso non ha bisogno e non può pensare ‘io sono il sé’. Il nostro sé reale – cioè, ciò che siamo realmente – è completamente privo di pensiero, e anche di qualsiasi esperienza di qualunque cosa diversa da ‘io sono’.  Esso semplicemente è, e non sperimenta alcuna cosa diversa dal proprio essere o ‘è’-ssenza : ‘io sono’.

Come Bhagavan Ramana ha enfatizzato ripetutamente, il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente è l’auto-investigazione (ātma-vicāra): cioè, investigare ciò che questo ‘io’ è realmente cercando di focalizzare la nostra intera attenzione su esso in completa esclusione di tutto il resto. Cioè, non possiamo sperimentare ciò che questo ‘io’ è realmente dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da esso – neppure dando attenzione a un pensiero come ‘io sono il sé’. Come Sri Ramana dice nel verso 27 di Uḷḷadu Nāṟpadu:

நானுதியா துள்ளநிலை நாமதுவா யுள்ளநிலை நானுதிக்குந் தானமதை நாடாம — னானுதியாத் தன்னிழப்பைச் சார்வதெவன் சாராமற் றானதுவாந் தன்னிலையி னிற்பதெவன் சாற்று.

nāṉudiyā duḷḷanilai nāmaduvā yuḷḷanilai
nāṉudikkun tāṉamadai nāḍāma — ṉāṉudiyāt
taṉṉiṙappaic cārvadevaṉ sārāmaṯ ṟāṉaduvān
taṉṉilaiyi ṉiṯpadevaṉ sāṯṟu.

 பதச்சேதம்: ‘நான்’ உதியாது உள்ள நிலை நாம் அது ஆய் உள்ள நிலை. ‘நான்’ உதிக்கும் தானம் அதை நாடாமல், ‘நான்’ உதியா தன் இழப்பை சார்வது எவன்? சாராமல், தான் அது ஆம் தன் நிலையில் நிற்பது எவன்? சாற்று.

 Padacchēdam (separazione delle parole): ‘nāṉ’ udiyādu uḷḷa nilai nām adu-v-āy uḷḷa nilai. ‘nāṉ’ udikkum tāṉam-adai nāḍāmal, ‘nāṉ’ udiyā taṉ-ṉ-iṙappai sārvadu evaṉ? sārāmal, tāṉ adu ām taṉ-ṉilaiyil niṯpadu evaṉ? sāṯṟu.

 Traduzione: Lo stato in cui ‘io’ esiste senza sorgere è lo stato in cui esistiamo come quello [il sé o brahman]. Senza investigare la sorgente da cui l’ ‘io’ sorge, come conseguire la distruzione di se stessi, dove l’ ‘io’ non sorge? [E] senza conseguire [questa distruzione dell’ego], dimmi, come dimorare nello stato del sé, in cui si è quello?
La sorgente da cui l’ ‘io’ sorge è solo noi stessi – ciò che siamo realmente – così investigare la sorgente da cui l’ ‘io’ sorge significa investigare ciò che siamo realmente.  Se non investighiamo questo, come possiamo sperimentare ciò che siamo realmente?

Quindi l’investigazione o vicāra è essenziale, e se crediamo in ciò che Sri Ramana ci ha insegnato, essa funziona. Comunque, il credere semplicemente nelle sue parole non risolverà i nostri problemi, perché solo investigando noi stessi possiamo realmente sperimentare ciò che siamo (e quindi conoscere per nostra propria esperienza che vicāra funziona).  

Vicāra è lo sforzo che compiamo per sperimentare solo ‘io’, e quando riusciamo in questo sforzo scopriremo che sperimentiamo sempre solo ‘io’. Quindi ciò che è un’illusione non è sperimentare solo ‘io’, ma è solo lo sforzo che facciamo per sperimentarlo. Questo sforzo è necessario fino a che sperimentiamo qualsiasi cosa diversa da ‘io’, ma infine scopriremo che non abbiamo mai sperimentato qualcosa di diverso da ‘io’, così la nostra esperienza attuale di altre cose è un’illusione, come lo è anche lo sforzo per sperimentare solo ‘io’. Proprio come possiamo usare una spina per togliere un’altra spina dal nostro piede, dobbiamo usare l’illusione di compiere questo sforzo per rimuovere l’illusione di sperimentare altre cose.

Quindi, sebbene tutto infine risulterà essere un’illusione, fino a che stiamo sperimentando questa illusione dobbiamo fare uno sforzo per sperimentare solo ‘io’. Come Sri Ramana dice nella prima delle due frasi dell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?  (Chi sono io?):

 மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். […]

 maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. […]

 Fino a che viṣaya-vāsanās esistono nella mente, l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando i pensieri sorgono, in quel momento e lì è necessario distruggerli tutti per mezzo di vicāraṇā [investigazione o vigilante auto-attentività] proprio nel luogo da cui essi sorgono. […] 

Viṣaya-vāsanās sono i desideri o la preferenza che abbiamo di sperimentare viṣayas: qualsiasi cosa diversa da ‘io’. Solo fino al momento in cui tali desideri esistono sperimentiamo l’apparenza di qualsiasi cosa diversa da ‘io’, e secondo Sri Ramana tali cose sembrano esistere solo perché ci piace sperimentarle. Cioè, come in un sogno, ogni cosa che sperimentiamo diversa da ‘io’ è una creazione della nostra mente, o più precisamente, delle viṣaya-vāsanās che la costituiscono. La mente sembra esistere solo a causa delle sue vāsanās: le sue inclinazioni o desideri a sperimentare qualsiasi cosa diversa da ‘io’.

Quindi per distruggere l’illusione che siamo questa mente, dobbiamo gradualmente indebolire e infine distruggere le sue viṣaya-vāsanās. E il solo modo per indebolire e distruggere le sue viṣaya-vāsanās è coltivare la preferenza opposta: la preferenza a sperimentare solo ‘io’. Come dovrebbe essere ovvio, il solo modo per coltivare questa preferenza è praticare cercando di sperimentare solo ‘io’, perché se non cerchiamo persistentemente di sperimentare solo ‘io, non possiamo aspettarci che una qualche preferenza a sperimentarlo sorga in noi spontaneamente.

Ora abbiamo una preferenza a sperimentare cose diverse da ‘io’ a causa di una scelta sbagliata che abbiamo fatto nel passato, e che abbiamo continuato a fare fino a ora. Quindi è il momento di scegliere se vogliamo continuare a permettere a noi stessi di essere dominati da questa preferenza, o se ora vogliamo scegliere l’opposta: sperimentare solo ‘io’. Se questo è ciò che scegliamo ora, dobbiamo lavorare duro e cercare di sostituire l’antica preferenza  a sperimentare altre cose con la nuova preferenza a sperimentare solo ‘io’.

La pratica di sperimentare solo ‘io’ è ciò che Sri Ramana chiama ātma-vicāra o auto-investigazione, e questa pratica continuerà a essere necessaria fino a che anche la minima preferenza di sperimentare qualsiasi altra cosa rimarrà non distrutta. Quindi nel decimo paragrafo di Nāṉ Yār? egli dice:

தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும். […]

 toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiramāy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum. […] 

Benché  le viṣaya-vāsanās, che vengono da tempo immemorabile, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell’oceano, esse saranno tutte distrutte quando svarūpa-dhyāna [auto-attentività] aumenta e aumenta. Senza dare spazio al dubbio ‘E’ possibile dissolvere così tante vāsanās ed essere solo come il sé?’ è necessario aggrapparsi tenacemente all’auto-attentività. […]

Quindi fino a che sperimentiamo qualche pensiero o qualsiasi cosa diversa da ‘io’ è per noi necessario continuare a praticare ātma-vicāra o auto-attentività – cercando di sperimentare niente altro che ‘io’ solamente. Non possiamo ragionevolmente aspettarci che l’auto-conoscenza (ātma-jñāna) accada quando il corpo muore o in ogni altro momento se non perseveriamo nel cercare di sperimentare ciò che siamo realmente praticando ātma-vicāra: cioè, cercando di aggrapparci tenacemente all’auto-attentività ad esclusione di tutto il resto.

Per quanto riguarda il progresso, se cerchiamo di sperimentare ciò che questo ‘io’ è realmente, certamente faremo progressi, ma non dovremmo aspettarci di vedere qualche segno evidente di progresso. Sri Ramana era solito dire che la perseveranza è il solo vero segno di progresso. Dopo anni di pratica possiamo ancora non vedere segni di un aumento della capacità di aggrapparci fermamente all’auto-attentività, ma fino a che continuiamo a cercare di farlo, possiamo essere sicuri che stiamo progredendo.

L’esempio della preparazione di un cannone per la detonazione è molto appropriato. Occorre tempo per preparare il cannone ma quando è pronto detonerà in un istante. Praticare vicāra è come preparare pazientemente il cannone: alla fine essa condurrà alla perfetta chiarezza dell’auto-consapevolezza, che distruggerà immediatamente la mente per sempre, e ciò è come la detonazione istantanea di un cannone preparato attentamente.

Mentre ci avviciniamo a quel punto di detonazione, è naturale che la paura possa sorgere, perché la nostra mente è accanita nel sopravvivere, e si afferra all’illusione di esistere veramente.

Riguardo a kuṇḍalinī, è detto a volte che tutto ciò che è descritto riguardo alla kuṇḍalinī negli yōga śāstras  è realizzato automaticamente e senza la nostra consapevolezza quando pratichiamo vicāra. Ma tali spiegazioni sono utili o interessanti solo per coloro le cui menti ancora danno importanza a tale fenomeno. Per coloro fra noi che vogliono conoscere veramente ciò che questo ‘io’ è realmente, tali spiegazioni sono di scarso interesse.

Sadhu Om era solito spiegare che ciò che è chiamata kuṇḍalinī non è altro che la consapevolezza ‘io’ che si diffonde nel corpo. Quando diamo attenzione solo a ‘io’, essa inizia a ritirarsi dal corpo, e questo ritiro è ciò che è descritto come il sorgere di kuṇḍalinī. Comunque, per sperimentare ciò che questo ‘io’ è realmente, non abbiamo bisogno di conoscere alcuna cosa riguardo kuṇḍalinī o il suo sorgere.

 In definitiva il corpo, i suoi nādis (i nervi sottili o canali attraverso i quali la forza vitale è detta muoversi nel corpo e la kuṇḍalinī è detta innalzarsi fino alla testa) e la kuṇḍalinī sono tutti solo concetti, idee o credi, e il nostro fine dovrebbe essere ignorare tutti i concetti e le idee per focalizzare la nostra intera attenzione solo su ‘io’.

L’esperienza che descrivi potrebbe essere spiegata in termini di kuṇḍalinī, ma quanto sarebbe utile una tale spiegazione? Al massimo soddisferebbe la curiosità della mente: la sua naturale preferenza a trovare una spiegazione soddisfacente per ogni cosa.

Ma hai ragione a non avere interesse in ciò (nelle esperienze o in qualsiasi spiegazione di esse), perché tali esperienze sono qualcosa diversa da ‘io’, così se ci interessiamo a esse distrarranno la nostra attenzione lontano da ‘io’. Ogni volta che accadono tali esperienze, dovremmo interessarci solo di investigare l’ ‘io’ a cui queste esperienze accadono: a chi? a me; chi sono io?

Qualsiasi cosa può essere descritta in parole non è ‘io’ (e quindi non reale), perché ciò che possiamo descrivere sono solo caratteristiche, mentre ‘io’ è ciò che è privo di tutte le caratteristiche (ed è quindi inesprimibile).






Il 19 Ottobre 2014, in un commento a questo articolo un amico di nome Anna Malai ha scritto:

Michael,
Come sempre l’articolo è molto significativo e prezioso, ma questa volta ho dei dubbi riguardanti ciò che hai scritto sulla paura. L’amico ti ha chiesto riguardo alla paura che sorge durante la pratica di ātma-vicāra, e tu hai risposto: “Mentre ci avviciniamo a quel punto di detonazione, è naturale che la paura possa sorgere, perché la nostra mente è accanita nel sopravvivere, e si afferra all’illusione di esistere veramente.

E’ realmente così? Se ātma-vicāra è focalizzare la nostra intera attenzione sul sé, c’è posto per la paura quando l’attenzione è interamente all’interno, sul sé? La paura è un pensiero – c’è posto per i pensieri in ātma-vicāra, possiamo ancora chiamarla ātma-vicāra o loka-vicāra? La paura viene dall’identificazione con il corpo(i), in ātma-vicāra tale identificazione cessa, come può avere origine la paura?

La mia esperienza è esattamente l’opposto: fino a che l’attenzione è interamente focalizzata sul sé, che è ātma-vicāra credo, non c’è paura. La paura appare quando l’attenzione sul sé è perduta, inizia il processo del pensiero e l’attenzione è di nuovo su un oggetto esterno (come i pensieri).

Più pratico ātma-vicāra, più debole è la paura, anche nello stato in cui la mente è attiva nel suo pensare. Pare che l’identificazione con il corpo(i) diviene anche più debole, così c’è molto meno spazio per la paura. O possiamo dire che la mente diviene più sattvica. E l’opposto: meno pratico, più spesso e più intensa viene la paura.

Ti prego di approfondire, può essere che ho inteso male il tuo messaggio.



 
Il 21 Ottobre 2014 Michael James ha scritto come risposta:

Anna Malai, sì, se siamo in grado di dare attenzione esclusivamente a noi stessi, il nostro ego sprofonderà e si dissolverà per sempre nella sua sorgente, e quindi non ci sarà nessuno che possa avere paura. Comunque, fino al momento in cui riusciamo a dare attenzione esclusivamente a noi stessi (cioè, fino a che sperimentiamo ‘io’ solamente, in completo isolamento da qualsiasi altra cosa), il nostro ego esisterà ancora, e sarà quindi soggetto a sperimentare il desiderio, la paura o qualsiasi altro pensiero o fenomeno mentale.

Fino a quando il nostro ego sopravvive, non siamo ancora riusciti a dare attenzione esclusivamente a ‘io’, così la nostra auto-investigazione (ātma-vicāra) non è ancora completa. Quando pratichiamo ātma-vicāra, cerchiamo di sperimentare noi stessi solamente, in completo isolamento da tutti i pensieri o altre esperienze, e se riusciamo a sperimentare noi stessi in questo modo solo per un momento, sperimenteremo noi stessi come siamo realmente, e così l’illusione di essere questo ego sarà distrutta per sempre. Perciò se il nostro ego (e tutto ciò che esso sperimenta) ancora sembra esistere, non siamo ancora riusciti a isolare noi stessi completamente da tutti i pensieri (cioè, da tutte le esperienze o la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da ‘io’).

Quando scrivi, ‘La paura è un pensiero – c’è posto per i pensieri in ātma-vicāra, e possiamo ancora chiamarla  ātma-vicāra o loka-vicāra? La paura viene dall’identificazione con il corpo(i), in ātma-vicāra tale identificazione cessa, come può avere origine la paura?’, sembra che stai confondendo la pratica di ātma-vicāra con il fine di ātma-vicāra.  Il fine di ātma-vicāra è sperimentare ‘io’ solamente, ma fino a che stiamo ancora praticando ātma-vicāra non abbiamo ancora raggiunto il fine, e quindi nella nostra pratica di ātma-vicāra la nostra pura auto-consapevolezza è ancora mischiata in misura più o meno grande con i pensieri (cioè, con la consapevolezza di qualcosa diversa da ‘io’), non importa quanto sottili possano essere questi pensieri.

Quando dici che nella tua esperienza ‘fino a che l’attenzione è interamente focalizzata sul sé, che è ātma-vicāra credo, non c’è paura’ e che ‘La paura appare quando l’attenzione sul sé è perduta’, è chiaro che la tua auto-attentività è ancora impermanente e quindi instabile, che significa che non sei ancora riuscito a isolare completamente ‘io’ (te stesso) da tutti i pensieri.  Se riuscissi per una volta a isolare completamente te stesso, ti sperimenteresti come sei realmente, il tuo ego sarebbe quindi distrutto, e di conseguenza non sperimenteresti più alcuna perdita di auto-attentività, perché avresti sperimentato l’auto-attentività (la pura auto-consapevolezza) come la tua reale natura.

Per quanto avanzata la nostra pratica possa essere, fino a che il nostro ego sopravvive non siamo immuni alla paura.  Anche nel caso di Bhagavan Ramana (o Venkataraman, come egli era allora), l’ultima cosa che il suo ego sperimentò fu un’intensa paura della morte, e fu quell’intensa paura che lo spinse a rivolgere la sua attenzione all’interno per investigare se l’ ‘io’ è qualcosa che muore con la morte del corpo. In questo modo egli sperimentò l’ ‘io’ come è realmente, e quindi il suo ego fu distrutto e la paura fu dissolta per sempre. Perciò, non dovremmo immaginare che abbiamo dissolto la paura per mezzo della nostra pratica di  ātma-vicāra, perché fino a che c’è un ‘io’ (un ego) che pensa questo, non si è ancora raggiunto il rifugio sicuro della completa assenza di ego, che è il fine di ātma-vicāra.



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