Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 10 dicembre 2014

Morte e Immortalità - Superare la nostra compiacenza spirituale


Michael James 

14 Marzo 2007
http://happinessofbeing.blogspot.it/2007/03/overcoming-our-spiritual-complacency.html


Rivedendo Happiness and the Art of Being in preparazione per la sua prossima pubblicazione in stampa, ho scritto dieci pagine aggiuntive da includere nel capitolo 9, ‘Auto-Investigazione e Auto-Abbandono’. Queste pagine aggiuntive saranno incluse dopo il paragrafo di pagina 422 dell’attuale versione e-book che termina in questo modo:

…Il solo modo in cui possiamo così rimettere o arrendere noi stessi alla sua grazia è ‘pensare a’ o dare costantemente attenzione al nostro essere-consapevolezza essenziale ‘io sono’, fondendoci interiormente con sommergente amore per esso. Tentare sinceramente di arrendere noi stessi in questo modo è ciò che Sri Ramana intendeva quando disse, “Tuttavia, è necessario avanzare infallibilmente secondo il sentiero che il guru ha mostrato”.

Poiché il materiale aggiuntivo da essere incluso in questo punto è piuttosto lungo, lo posterò qui in tre parti separate, delle quali il seguente è il primo e il più lungo.

Per conoscere il nostro sé, che è essere-consapevolezza-beatitudine o sat-chit-ananda assoluto, infinito, eterno e indiviso, dobbiamo essere pronti ad arrendere o rinunciare al nostro sé falso e limitato. E per arrendere il nostro falso sé, dobbiamo essere completamente consumati da un sommergente amore di conoscere ed essere il nostro sé reale o essere essenziale.

Fino a che ci sentiamo compiaciuti della nostra attuale condizione, in cui in modo immaginoso abbiamo ridotto noi stessi come questa limitata mente e corpo,  mancheremo dell’intensa motivazione che dobbiamo avere per essere sufficientemente pronti ad arrendere il nostro falso sé. Poiché ora immaginiamo la nostra mente e il nostro corpo come noi stessi, il nostro attaccamento a essi è molto forte, e quindi non saremo pronti ad abbandonare questo attaccamento se non siamo molto fortemente motivati.

L’attaccamento alla nostra mente e al nostro corpo è così forte che ci spinge a illudere noi stessi in un ingannevole stato di compiacenza, facendoci sentire che la nostra attuale condizione non è intollerabile come in realtà è. Piuttosto che ammettere che la profonda insoddisfazione che sentiamo per la nostra attuale condizione come consapevolezza individuale legata a un corpo è una conseguenza inevitabile dell’immaginaria separazione di noi stessi dall’infinita felicità che è la nostra reale natura, e che quindi non potremo mai superare questa insoddisfazione con qualsiasi mezzo diverso dalla vera auto-conoscenza – cioè,  diverso dallo sperimentare noi stessi come la reale auto-consapevolezza ‘io sono’ senza aggiunte, infinita, indivisa e quindi assolutamente non duale – continueremo con compiacenza la nostra vita come un individuo legato a un corpo immaginando che possiamo raggiungere la felicità che cerchiamo godendo degli insignificanti piaceri transitori che sperimentiamo soddisfacendo tutti i nostri innumerevoli desideri terreni. 

Questa auto-ingannevole compiacenza è un serio problema che sperimentano tutti i veri aspiranti spirituali, e che dobbiamo superare se desideriamo realmente arrendere il nostro sé falso e limitato e quindi conoscere il nostro sé reale e illimitato. Poiché questa compiacenza profondamente radicata è una conseguenza inevitabile di aver ceduto al nostro potere di maya o auto-illusione, che è il potere che ci costringe  a immaginare noi stessi come questo corpo e questa mente limitati, normalmente non possiamo superarla se non sperimentiamo un’intensa crisi interna, come il confrontarsi improvvisamente con una profonda paura interiore della morte.

Quindi quando raggiungiamo un certo stadio di maturità spirituale, il potere della grazia generalmente ci indurrà a sperimentare una tale crisi interiore, e quando sperimenteremo ciò saremo impressionati dal nostro attuale senso di compiacenza e di conseguenza volgeremo la nostra attenzione all’interno con intenso amore di conoscere ciò che siamo realmente.

Nella vita di Sri Ramana una tale crisi interna accadde nella forma di un’improvvisa e intensa paura della morte che sperimentò quando era un ragazzo di sedici anni.  Come abbiamo visto nell’introduzione di questo libro, questa intensa paura lo spinse a volgere la sua attenzione all’interno per scoprire se egli era realmente il corpo che è soggetto alla morte. Focalizzò così intensamente la sua attenzione sul suo essere più interno – la sua auto-consapevolezza essenziale ‘io’ – che lo sperimentò con perfetta chiarezza, e così riuscì a conoscere per esperienza diretta che non era il corpo mortale ma solo lo spirito immortale, eterno e infinito, che è essere, consapevolezza e beatitudine completamente non duale.

Sri Ramana descrive questa sua esperienza nel secondo verso del mangalam o ‘introduzione di buon auspicio’ a Ulladu Narpadu:

Quelle persone mature che hanno intensa paura della morte prenderanno rifugio ai piedi di Dio, che è privo di morte e nascita, [dipendendo su di lui] come [la loro protettiva] fortezza.  Con il loro abbandono, essi sperimentano la morte [la morte o dissoluzione del loro sé limitato]. Coloro che sono immortali [essendo morti al loro sé mortale, ed essendo divenuti quindi uno con lo spirito immortale] si avvicineranno [mai più] al pensiero della morte?

Benché la parola Tamil am significhi letteralmente ‘quelli’ o ‘bellezza’, l’ho tradotta qui come ‘quelli maturi’, perché in questo contesto la bellezza che essa indica è la vera bellezza della maturità spirituale, che è la condizione veramente desiderabile in cui la nostra mente è stata purificata dalla maggior parte delle sue impurità – vale a dire le sue più grezze forme di desiderio – ed è quindi pronta ad arrendere completamente se stessa a Dio.

La paura della morte è naturalmente inerente in tutti gli esseri viventi, ma solitamente rimane in una forma dormiente perché trascorriamo la maggior parte del tempo pensando alla nostra vita in questo mondo e quindi raramente pensiamo alla morte. Anche quando qualche evento esterno o qualche pensiero interno ci ricorda che presto o tardi moriremo, la nostra paura della morte raramente diviene intensa, perché il pensiero della morte ci spinge a pensare alle cose nella nostra vita cui siamo più fortemente attaccati.

Fino a che sperimentiamo noi stessi con un corpo fisico, la paura della morte esisterà sempre in noi, ma solitamente in una forma dormiente. Poiché immaginiamo noi stessi come questo corpo, siamo attaccati a esso e quindi abbiamo paura di perderlo. Comunque, benché tutti sappiamo che un giorno il nostro corpo morirà, e che la morte può giungere in ogni momento, il nostro potere di maya o auto-illusione  ci culla in uno stato di compiacenza, facendoci immaginare che la morte è lontana, o che non temiamo realmente la morte.

Benché immaginiamo di non temere la morte, se la nostra vita è messa in pericolo improvviso, risponderemo certamente con intensa paura. Comunque, non appena il pericolo immediato è passato, la nostra paura cesserà e continueremo la nostra vita nel nostro stato abituale di compiacenza auto-ingannevole.

Benché sperimentiamo intensa paura della morte ogni volta che la vita del nostro corpo è in estremo pericolo, l’intensità di quella paura è fugace. Essa non è sostenuta perché quando ci confrontiamo con la morte reagiamo pensando alle persone amate, agli amici, ai nostri possessi materiali, al nostro stato sociale e ad altre cose esterne cui siamo attaccati, e che di conseguenza temiamo di perdere.

Anche i nostri credi religiosi possono essere uno strumento con cui sosteniamo il conforto della nostra compiacenza. Se crediamo, per esempio, che dopo la morte del nostro corpo andremo in qualche altro mondo chiamato paradiso, dove ci riuniremo con tutte le persone amate e gli amici, e dove vivremo con essi una vita eterna liberi da ogni sofferenza, quel credo ci aiuterà a scansare la nostra paura della morte. Anche se abbiamo qualche credo meno ottimistico sulla vita dopo la morte, se il nostro credo è sufficientemente confortante, come lo sono la maggioranza dei credi, ci aiuterà a sentirci compiaciuti riguardo alla certezza della morte.

Se manchiamo di vera maturità spirituale o libertà dal desiderio per qualsiasi cosa esterna, la paura della morte costringerà la nostra mente a precipitarsi all’esterno pensando alla nostra vita in questo mondo o nel prossimo, e a causa di tali pensieri la nostra attenzione sarà distolta dal pensiero della morte, e così la nostra paura perderà di intensità. Comunque, quando otterremo finalmente la vera maturità spirituale, la nostra reazione al pensiero della morte sarà differente.

 Se siamo spiritualmente maturi, l’intensità del nostro desiderio e attaccamento alle cose esterne, in questo mondo o nel prossimo, sarà grandemente ridotta. Quindi, quando pensiamo alla morte, non avremo paura di perdere qualche cosa esterna, ma avremo paura solo di perdere la nostra esistenza o essere. Poiché le ultime vestigia del nostro desiderio e attaccamento sarà centrato proprio sulla nostra esistenza come un individuo, e poiché confondiamo la nostra esistenza con l’esistenza di qualsiasi corpo che ora ci immaginiamo essere,  quando il pensiero della morte del nostro corpo sorgerà all’interno di noi, la nostra mente si volgerà all’interno per stringersi alla propria esistenza o essere essenziale.

Questo è ciò che è accaduto nel caso di Sri Ramana. Quando il pensiero della morte sorse improvvisamente dentro di lui, la sua reazione fu di volgere la sua attenzione all’interno, verso il proprio vero essere, per scoprire se egli stesso sarebbe morto con la morte del suo corpo. Poiché la sua attenzione fu focalizzata così accuratamente sul proprio essere essenziale o ‘sono’-ità (‘am’-ness), egli sperimentò chiaramente se stesso senza alcuna aggiunta sovrapposta come la sua mente o il suo corpo, e in questo modo coprì che il suo sé reale non era un corpo mortale o una mente transitoria, ma era solo lo spirito infinito, eterno, senza nascita e immortale – l’unica vera consapevolezza non duale di essere, che conosce sempre ‘io sono’ e niente altro che ‘io sono’.

(continua nell'articolo successivo)

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