Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 26 marzo 2017

Dopo l’annientamento dell’ego, nessun ‘io’ può sorgere a dire ‘io ho visto’

Michael James

24 Marzo 2017
After the annihilation of the ego, no ‘I’ can rise to say ‘I have seen'

In 'Uḷḷadu Nāṟpadu verso 33: l’’io’ che sorge per dire ‘io ho visto’ non ha visto nulla​', che è la sezione finale di uno dei miei recenti articoli, C’è solo un ego, e anche quello non esiste realmente, ho citato un detto Tamil, ‘கண்டவர் விண்டில்லை; விண்டவர் கண்டில்லை’ (kaṇḍavar viṇḍillai; viṇḍavar kaṇḍillai), che significa ‘coloro che hanno visto non dicono; coloro che dicono non hanno visto’, e poi il verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui Bhagavan dice:
என்னை யறியேனா னென்னை யறிந்தேனா
னென்ன னகைப்புக் கிடனாகு — மென்னை
தனைவிடய மாக்கவிரு தானுண்டோ வொன்றா
யனைவரனு பூதியுண்மை யால்.

eṉṉai yaṟiyēṉā ṉeṉṉai yaṟindēṉā
ṉeṉṉa ṉahaippuk kiḍaṉāhu — meṉṉai
taṉaiviḍaya mākkaviru tāṉuṇḍō voṉḏṟā
yaṉaivaraṉu bhūtiyuṇmai yāl
.

பதச்சேதம்: ‘என்னை அறியேன் நான்’, ‘என்னை அறிந்தேன் நான்’ என்னல் நகைப்புக்கு இடன் ஆகும். என்னை? தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? ஒன்று ஆய் அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஆல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘eṉṉai aṟiyēṉ nāṉ’, ‘eṉṉai aṟindēṉ nāṉ’ eṉṉal nahaippukku iḍaṉ āhum. eṉṉai? taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? oṉḏṟu āy aṉaivar aṉubhūti uṇmai āl.

அன்வயம்: ‘நான் என்னை அறியேன்’, ‘நான் என்னை அறிந்தேன்’ என்னல் நகைப்புக்கு இடன் ஆகும். என்னை? தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஒன்றாய்; ஆல்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ eṉṉai aṟiyēṉ’, ‘nāṉ eṉṉai aṟindēṉ’ eṉṉal nahaippukku iḍaṉ āhum. eṉṉai? taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? aṉaivar aṉubhūti uṇmai oṉḏṟu āy; āl.

Traduzione: Dire ‘Io non conosco me stesso’ [o] ‘Io ho conosciuto me stesso’ è motivo di ridicolo. Perché? Per rendere sé stessi un oggetto conosciuto, ci sono forse due sé? Perché essere uno è la verità dell’esperienza di tutti.
Poi ho concluso:
Quindi dovremmo essere molto scettici riguardo chiunque affermi ‘io ho conosciuto me stesso’ o ‘io ho sperimentato ciò che rimane dopo che l’ego è annientato’. Come tu giustamente indichi, se l’ego è stato sradicato, chi rimane lì a dire ‘io’ ho sperimentato qualcosa? Qualunque ‘io’ faccia tali affermazioni può solo essere l’ego, perché ciò che noi siamo realmente è infinita auto-consapevolezza, oltre alla quale niente esiste realmente, così come potrebbe esso fare tali affermazioni, e a chi le potrebbe fare? Quindi come Bhagavan dice, tutte queste affermazioni sono ‘motivo di ridicolo’.

Riferendosi a questo, un amico mi ha scritto: ‘sebbene presumo totalmente vero il detto in Tamil che citi, nondimeno penso a Bhagavan che racconta la sua prima e definitiva esperienza all’età di 16 anni, o a Sri Muruganar nel suo Sri Ramana Anubhuti, dove afferma senza alcun dubbio il totale annientamento del suo ego ai misericordiosi piedi di Bhagavan. Se l’ego è stato sradicato, chi rimane lì a dire ‘io’ ho sperimentato qualcosa? Si, nessuno, ma possiamo concepire il jnani, o meglio, la sua forma umana nel nostro sogno, usare parole, cioè dualismo, per descrivere alla nostra mente dualistica, l’esperienza che la sua forma umana ha avuto di annientamento del suo ego illusorio? Penso di sì, ma in questo caso, nessun ego sorge in lui a dire ‘io ho visto’, così quell’ego che sorge e che dice non appartiene al jnani ma a noi, che proiettiamo e vediamo la sua forma umana. Poiché il jnani è ciascuno di noi, e la sua grazia ci sta sempre chiamando per riconoscere noi stessi. Ma qui mi fermo, e ti chiedo soccorso per la mia mente annaspante’, e poi in una seconda email ha scritto: ‘Così esprimo una domanda precisa: cosa ha spinto Sri Muruganar a scrivere il suo Sri Ramana Anubhuti, dove afferma senza alcun dubbio il totale annientamento del suo ego ai misericordiosi piedi di Bhagavan?’ Ciò che segue è adattato dalla risposta che gli ho dato.
  1. Poiché in Muruganar non c’era ego, ciò che lo ha spinto a comporre in lode della grazia di Bhagavan è stata solo la sua grazia
  2. Quando Bhagavan ha parlato della sua esperienza di morte, lo ha fatto senza usare la parola ‘io’ in un senso personale
  3. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam versi 1 e 2: quando l’ego che vede ha cessato di esistere, la mente non sorge a dire ‘io ho visto’
  4. Upadēśa Undiyār verso 28: la nostra reale natura è indivisa ed infinita, così niente altro esiste per conoscerla
  5. Śrī Ramaṇa Sahasram verso 960: quando mi ha preso nelle tue fauci, cosa è successo? Solo tu puoi dire
  6. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 31: l’assenza di ego è uno stato privo di consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da sé stessi, così come può la mente comprendere ciò?


1. Poiché in Muruganar non c’era ego, ciò che lo ha spinto a comporre in lode della grazia di Bhagavan è stata solo la sua grazia

Qualunque cosa Muruganar ha scritto in ognuno dei suoi versi non è stato scritto con alcun egotismo ma solo indirizzato a Bhagavan ed è stato composto in lode della sua grazia, che aveva fatto scomparire l’ego che precedentemente aveva identificato la persona Muruganar come ‘io’. Non so con precisione come ciascuno dei suoi versi è stato tradotto in Inglese, ma nell’originale Tamil in essi non c’è traccia di ego.

Inoltre, nella sua vita personale egli è stato l’incarnazione della perfetta umiltà, e non ha mai affermato di essere qualcosa o di aver raggiunto qualcosa. Ogni volta che qualcuno gli ha detto di considerarlo il suo guru, egli ha reagito con forza, dicendo che egli non è niente e solo Bhagavan è il guru.

Quindi ciò che lo ha spinto a scrivere così tanti versi in lode della grazia di Bhagavan è stata solo la sua grazia, che è l’infinito amore che noi, come siamo realmente, abbiamo per noi stessi come realmente siamo. Poiché in Muruganar l’ego era stato interamente consumato da quella grazia, la persona che egli sembrava essere era solo un guscio vuoto attraverso il quale la grazia ha composto in lode di sé stessa a sé stessa.

Che necessità aveva la grazia di comporre in questo modo? Poiché tale comporre sembra esistere solo nella visione esteriorizzata di noi stessi come questo ego, essa ha fatto questo per il nostro beneficio, come parte della sua strategia per attirarci all’interno per vedere noi stessi come siamo realmente.

2. Quando Bhagavan ha parlato della sua esperienza di morte, lo ha fatto senza usare la parola ‘io’ in un senso personale

Riguardo a qualunque cosa Bhagavan ha detto della sua esperienza di morte, non è stata tradotta o registrata in Inglese in modo preciso, e le persone hanno aggiunto le loro interpretazioni e abbellimenti di ciò che egli aveva detto. Ciò che egli ha detto era sfumato in modo molto attento e detto in un modo completamente impersonale senza usare il pronome ‘io’ o la forma di prima persona di ogni verbo (che è possibile fare in Tamil ma impossibile in molti altri linguaggi, tranne che usando la forma passiva), eccetto quando si è riferito all’unica e infinita auto-consapevolezza (e quindi assolutamente impersonale) che noi siamo realmente, così non c’è traccia di ego nelle reali parole che egli ha usato, ma ciò che ha detto è stato tradotto in Inglese usando la parola ‘io’ in senso personale, che cambia radicalmente l’aroma e il significato sfumato di ciò che egli ha realmente detto.

3. Śrī Aruṇācala Aṣṭakam versi 1 e 2: quando l’ego che vede ha cessato di esistere, la mente non sorge a dire ‘io ho visto’

In breve, né Bhagavan né Muruganar hanno mai detto direttamente ‘io ho conosciuto me stesso’, ‘io ho perduto il mio ego’ o una cosa del genere, ma hanno parlato o scritto in un modo che ci permette di dedurre che è così. Per esempio considera ciò che Bhagavan ha scritto della sua esperienza nei primi due versi di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, che contiene il racconto più affidabile del suo viaggio spirituale fino all’età di sedici anni, quando ha raggiunto la sua destinazione finale, cessando di essere qualcosa diversa da Arunachala, l’unico spazio infinito di pura auto-consapevolezza. Sebbene nella maggior parte delle traduzioni Inglesi ‘io’ è usato diverse volte, esso non appare affatto in Tamil, ed egli ha usato verbi in prima persona solo due volte nel verso 1 e tre volte nel verso 2.

Nel verso 1 ha composto:
அறிவறு கிரியென வமர்தரு மம்மா
வதிசய மிதன்செய லறிவரி தார்க்கு
மறிவறு சிறுவய ததுமுத லருணா
சலமிகப் பெரிதென வறிவினி லங்க
வறிகில னதன்பொரு ளதுதிரு வண்ணா
மலையென வொருவரா லறிவுறப் பெற்று
மறிவினை மருளுறுத் தருகினி லீர்க்க
வருகுறு மமயமி தசலமாக் கண்டேன்.

aṟivaṟu giriyeṉa vamardaru mammā
vatiśaya midaṉceya laṟivari dārkku
maṟivaṟu siṟuvaya dadumuda laruṇā
calamihap perideṉa vaṟiviṉi laṅga
vaṟihila ṉadaṉporu ḷadutiru vaṇṇā
malaiyeṉa voruvarā laṟivuṟap peṯṟu
maṟiviṉai maruḷuṟut taruhiṉi līrkka
varuhuṟu mamayami dacalamāk kaṇḍēṉ
.

பதச்சேதம்: அறிவு அறு கிரி என அமர்தரும். அம்மா, அதிசயம் இதன் செயல் அறி அரிது ஆர்க்கும். அறிவு அறு சிறு வயது அது முதல் அருணாசலம் மிக பெரிது என அறிவின் இலங்க, அறிகிலன் அதன் பொருள் அது திருவண்ணாமலை என ஒருவரால் அறிவு உற பெற்றும். அறிவினை மருள் உறுத்து அருகினில் ஈர்க்க, அருகு உறும் அமயம் இது அசலம் ஆ கண்டேன்.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṟivu aṟu giri eṉa amardarum. ammā, atiśayam idaṉ seyal aṟi aridu ārkkum. aṟivu aṟu siṟu vayadu adu mudal aruṇācalam miha peridu eṉa aṟiviṉ ilaṅga, aṟihilaṉ adaṉ poruḷ adu tiruvaṇṇāmalai eṉa oruvarāl aṟivu uṟa peṯṟum. aṟiviṉai maruḷ uṟuttu aruhiṉil īrkka, aruhu uṟum amayam idu acalam ā kaṇḍēṉ.

அன்வயம்: அறிவு அறு கிரி என அமர்தரும். அம்மா, அதிசயம் இதன் செயல் அறி அரிது ஆர்க்கும். அறிவு அறு சிறு வயது அது முதல் அருணாசலம் மிக பெரிது என அறிவின் இலங்க, அது திருவண்ணாமலை என ஒருவரால் அறிவு உற பெற்றும் அதன் பொருள் அறிகிலன். அறிவினை மருள் உறுத்து அருகினில் ஈர்க்க, அருகு உறும் அமயம் இது அசலம் ஆ கண்டேன்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): aṟivu aṟu giri eṉa amardarum. ammā, atiśayam idaṉ seyal aṟi aridu ārkkum. aṟivu aṟu siṟu vayadu adu mudal aruṇācalam miha peridu eṉa aṟiviṉ ilaṅga, adu tiruvaṇṇāmalai eṉa oruvarāl aṟivu uṟa peṯṟum adaṉ poruḷ aṟihilaṉ. aṟiviṉai maruḷ uṟuttu aruhiṉil īrkka, aruhu uṟum amayam idu acalam ā kaṇḍēṉ.

Traduzione: Essa se ne sta quietamente come una collina [apparentemente] priva di conoscenza [o consapevolezza], [ma] ah, la sua azione è preminente [o meravigliosa], difficile da comprendere per chiunque. Sebbene Arunachalam risplendeva nella mente come qualcosa di estremamente grande dall’età giovanile priva di conoscenza, anche [dopo] venendo a sapere da qualcuno che è Tiruvannamalai non conoscevo il suo poruḷ [sostanza, realtà, verità, significato, fine o senso]. Quando essa ha incantato la mente ed attirato [il corpo] vicino, al momento opportuno di avvicinarsi l’ho vista essere acalam [una collina o ciò che è immobile].
In questo verso i soli due verbi in prima persona sono ‘அறிகிலன்’ (aṟihilaṉ), ‘io non sapevo’ o ‘io non comprendevo’, all’inizio della terza riga, e ‘கண்டேன்’ (kaṇḍēṉ), ‘io ho visto’, alla fine dell’ultima riga. Nella terza riga egli dice che non conosceva il poruḷ (sostanza, realtà o significato) di Arunachala anche quando venne a sapere che era Tiruvannamalai, così, non c’è qui implicita traccia di alcun egotismo o affermazione di conoscere, e nell’ultima riga egli dice che l’ha vista essere una collina (o ciò che è immobile), così nuovamente questo è non fare pretesa di alcuna speciale conoscenza.

Nel verso 2 egli compone:
கண்டவ னெவனெனக் கருத்தினு ணாடக்
கண்டவ னின்றிட நின்றது கண்டேன்
கண்டன னென்றிடக் கருத்தெழ வில்லை
கண்டில னென்றிடக் கருத்தெழு மாறென்
விண்டிது விளக்கிடு விறலுறு வோனார்
விண்டிலை பண்டுநீ விளக்கினை யென்றால்
விண்டிடா துன்னிலை விளக்கிட வென்றே
விண்டல மசலமா விளங்கிட நின்றாய்.

kaṇḍava ṉevaṉeṉak karuttiṉu ṇāḍak
kaṇḍava ṉiṉḏṟiḍa niṉḏṟadu kaṇḍēṉ
kaṇḍaṉa ṉeṉḏṟiḍak karutteṙa villai
kaṇḍila ṉeṉḏṟiḍak karutteṙu māṟeṉ
viṇḍidu viḷakkiḍu viṟaluṟu vōṉār
viṇḍilai paṇḍunī viḷakkiṉai yeṉḏṟāl
viṇḍiṭā duṉṉilai viḷakkiḍa veṉḏṟē
viṇḍala macalamā viḷaṅgiḍa niṉḏṟāy
.

பதச்சேதம்: கண்டவன் எவன் என கருத்தின் உள் நாட, கண்டவன் இன்றிட நின்றது கண்டேன். ‘கண்டனன்’ என்றிட கருத்து எழ இல்லை; ‘கண்டிலன்’ என்றிட கருத்து எழுமாறு என்? விண்டு இது விளக்கிடு விறல் உறுவோன் ஆர், விண்டு இலை பண்டு நீ விளக்கினை என்றால்? விண்டிடாது உன் நிலை விளக்கிட என்றே விண் தலம் அசலமா விளங்கிட நின்றாய்.

Padacchēdam (separazione delle parole): kaṇḍavaṉ evaṉ eṉa karuttiṉ uḷ nāḍa, kaṇḍavaṉ iṉḏṟiḍa niṉḏṟadu kaṇḍēṉ. ‘kaṇḍaṉaṉ’ eṉḏṟiḍa karuttu eṙa illai; ‘kaṇḍilaṉ’ eṉḏṟiḍa karuttu eṙum-āṟu eṉ? viṇḍu idu viḷakkiḍu viṟal uṟuvōṉ ār, viṇḍu ilai paṇḍu nī viḷakkiṉai eṉḏṟāl? viṇḍiḍādu uṉ nilai viḷakkiḍa eṉḏṟē viṇ ṭalam acalamā viḷaṅgiḍa niṉḏṟāy.

அன்வயம்: கண்டவன் எவன் என கருத்தின் உள் நாட, கண்டவன் இன்றிட நின்றது கண்டேன். ‘கண்டனன்’ என்றிட கருத்து எழ இல்லை; ‘கண்டிலன்’ என்றிட கருத்து எழுமாறு என்? பண்டு நீ விண்டு இலை விளக்கினை என்றால், விண்டு இது விளக்கிடு விறல் உறுவோன் ஆர்? விண்டிடாது உன் நிலை விளக்கிட என்றே விண் தலம் அசலமா விளங்கிட நின்றாய்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): kaṇḍavaṉ evaṉ eṉa karuttiṉ uḷ nāḍa, kaṇḍavaṉ iṉḏṟiḍa niṉḏṟadu kaṇḍēṉ. ‘kaṇḍaṉaṉ’ eṉḏṟiḍa karuttu eṙa illai; ‘kaṇḍilaṉ’ eṉḏṟiḍa karuttu eṙum-āṟu eṉ? paṇḍu nī viṇḍu ilai viḷakkiṉai eṉḏṟāl, viṇḍu idu viḷakkiḍu viṟal uṟuvōṉ ār? viṇḍiḍādu uṉ nilai viḷakkiḍa eṉḏṟē viṇ ṭalam acalamā viḷaṅgiḍa niṉḏṟāy.

Traduzione: Quando [colui che vede] investigò all’interno della mente chi è colui che vede, vidi ciò che rimaneva quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente. La mente non sorgeva a dire ‘io ho visto’, [così] in quale modo la mente potrebbe sorgere a dire ‘io non ho visto’? Chi ha il potere di spiegare questo parlando, quando nei tempi antichi [anche] tu [come Dakshinamurti] hai spiegato [ciò] senza parlare? Solo per spiegare il tuo stato senza parlare, tu sei rimasto fermo come una collina [o immobilmente] risplendendo [dalla] terra [al] cielo.
In questo verso i soli tre verbi di prima persona sono ‘கண்டேன்’ (kaṇḍēṉ), ‘vidi’, alla fine della prima riga, ‘கண்டனன்’ (kaṇḍaṉaṉ), ‘io ho visto’, all’inizio della seconda riga, e ‘கண்டிலன்’ (kaṇḍilaṉ), ‘io non ho visto’, nel mezzo della seconda riga. Nella prima riga egli dice che quando colui che vede (l’ego) ha investigato all’interno della mente per vedere chi è colui che vede e quando a causa di ciò colui che vede è divenuto non-esistente, egli ha visto ciò che rimaneva. Questo è il punto più vicino in cui è giunto a dire che aveva visto ciò che realmente è, ma nella frase successiva chiarisce questo dicendo che la mente non sorgeva a dire ‘io ho visto’, così come poteva sorgere a dire ‘io non ho visto’?

Cioè, sebbene è detto ‘கண்டவன் இன்றிட நின்றது கண்டேன்’ (kaṇḍavaṉ iṉḏṟiḍa niṉḏṟadu kaṇḍēṉ), che significa ‘ho visto ciò che rimane quando colui che vede ha cessato di esistere’, l’’io’ che ha visto ciò che rimaneva non era la mente ma solo ciò che rimaneva, che è la pura, infinita e indivisibile auto-consapevolezza che sempre siamo realmente. La mente o ego è colui che vede, che è ciò che cessa di esistere quando investiga sé stesso per vedere chi o cosa esso è realmente, così quando esso ha cessato di esistere quello che vede ciò che rimane è solo ciò che rimane.

La prima riga di questo verso, ‘கண்டவன் எவன் என கருத்தின் உள் நாட, கண்டவன் இன்றிட நின்றது கண்டேன்’ (kaṇḍavaṉ evaṉ eṉa karuttiṉ uḷ nāḍa, kaṇḍavaṉ iṉḏṟiḍa niṉḏṟadu kaṇḍēṉ), ‘Quando [colui che vede] investigò all’interno della mente chi è colui che vede, vidi ciò che rimaneva quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente’, è una singola frase, e in Tamil ciascuna frase può avere solo un verbo finito (un verbo il cui termine esprime tempo, persona, numero e in alcuni casi genere), a meno che qualcuna delle proposizioni subordinate sia di citazione, nel qual caso ciascuna proposizione può avere il proprio verbo finito. In questa frase il verbo finito è கண்டேன் (kaṇḍēṉ), che è la prima persona singolare del passato di காண் (kāṇ), così significa ‘vidi’, e quindi sebbene il soggetto di questo verbo non è dichiarato esplicitamente, è inteso non ambiguamente dal termine della prima persona singolare, ஏன் (ēṉ).

Ci sono altri due verbi in questa frase, ciascuno dei quali è non-finito, vale a dire நாட (nāḍa) e இன்றிட (iṉḏṟiḍa), entrambi i quali sono infiniti usati per esprimere condizioni simili a quelle espresse da ‘quando’ in Inglese. Il soggetto di இன்றிட (iṉḏṟiḍa), che significa ‘quando [il soggetto] cessa [o ha cessato] di esistere’, è கண்டவன் (kaṇḍavaṉ), che significa ‘colui che vede’, così ‘கண்டவன் இன்றிட’ (kaṇḍavaṉ iṉḏṟiḍa) significa ‘quando colui che vede ha cessato di esistere’. Tuttavia non c’è soggetto esplicito per நாட (nāḍa), che significa ‘quando [il soggetto] investiga [o investigò]’, così in questi casi il soggetto implicato sarebbe normalmente il soggetto del verbo principale della frase (il verbo finito), che in questo caso sarebbe l’’io’ implicato in கண்டேன் (kaṇḍēṉ), ‘vidi’. Quindi questa frase sarebbe normalmente interpretata nel significato di ‘Quando [io] investigai all’interno della mente chi è colui che vede, vidi ciò che rimaneva quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente’ (o ‘Quando [io] investigai all’interno della mente chi è colui che vede, [e] quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente, vidi ciò che rimaneva’).

Tuttavia, poiché l’’io’ che investigò chi è colui che vede è ‘io’ come colui che vede (l’ego o mente), mentre l’’io’ che vide ciò che rimaneva quando colui che vede a causa di ciò divenne non-esistente è ‘io’ come ciò che rimaneva, in questa traduzione ho preso il soggetto della prima proposizione subordinata, ‘கண்டவன் எவன் என கருத்தின் உள் நாட’ (kaṇḍavaṉ evaṉ eṉa karuttiṉ uḷ nāḍa), ‘Quando [il soggetto] investigò all’interno della mente chi è colui che vede’, come lo stesso soggetto della seconda proposizione subordinata ‘கண்டவன் இன்றிட’ (kaṇḍavaṉ iṉḏṟiḍa), ‘quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente’, così ho tradotto l’intera frase come ‘Quando [colui che vede] investigò all’interno della mente chi è colui che vede, vidi ciò che rimaneva quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente’ (o avrei potuto tradurla come ‘Quando [colui che vede] investigò all’interno della mente chi è colui che vede, [e] quando colui che vede [a causa di ciò] divenne non-esistente, vidi ciò che rimaneva’).

C’è realmente solo un ‘io’, che è la pura, infinita e indivisibile auto-consapevolezza che siamo realmente, ma da questo unico ‘io’ un ego sembra avere origine, sebbene sembra farlo solo nella sua visione auto-ignorante, e finché esso sembra esistere sembra essere ‘io’. Poiché questo ego è ciò che vede, percepisce o è consapevole di ogni cosa diversa da sé stesso, Bhagavan si riferisce ad esso qui come ‘கண்டவன்’ (kaṇḍavaṉ), ‘colui che vede’, ma sebbene può vedere ogni altra cosa, non può vedere ciò che esso stesso è realmente, perché esso sembra solo essere l’ego o colui che vede finché è consapevole di sé stesso come ‘io sono questa persona’, che non è ciò che è realmente.

L’ego (che è ciò a cui egli si riferisce qui non solo come ‘கண்டவன்’ (kaṇḍavaṉ), ‘colui che vede’, ma anche come ‘கருத்து’ (karuttu), ‘la mente’) è ciò che è consapevole di sé stesso come ‘io sono questa persona’, mentre ciò che rimane quando questo ego cessa di esistere è ciò che è consapevole di sé stesso solo come ‘io sono’ o ‘io sono io’. Poiché qualunque persona l’ego confonde come sé stesso è solo uno dei numerosi fenomeni illusori che esso proietta e percepisce, non è reale, così l’ego è una combinazione di due elementi, uno che è reale, vale a dire l’auto-consapevolezza fondamentale ‘io sono’, e l’altra che è irreale, vale a dire l’aggiunta temporanea ‘questa persona’.

Così finché l’ego è consapevole di sé stesso come ‘io sono questa persona’, non può essere consapevole di sé stesso come è realmente, perché esso è realmente solo pura auto-consapevolezza, che risplende solo come ‘io sono’ senza alcuna aggiunta. Quindi quando esso investiga cosa è realmente e di conseguenza vede che è realmente solo pura auto-consapevolezza, ‘io sono’, cesserà di esistere come la falsa auto-consapevolezza legata ad aggiunte ‘io sono questa persona’, e ciò che allora rimarrà sarà solo la pura auto-consapevolezza che sempre è realmente. Quindi sebbene sia l’ego che deve investigare sé stesso per vedere ciò che è realmente, quando esso vede ciò che è realmente non è più l’ego ma solo pura auto-consapevolezza, che è tutto ciò che rimane, e dunque ciò che vede la pura auto-consapevolezza non è l’ego ma solo la stessa pura auto-consapevolezza.

Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto nella seconda riga di questo verso, ‘‘கண்டனன்’ என்றிட கருத்து எழ இல்லை; ‘கண்டிலன்’ என்றிட கருத்து எழுமாறு என்?’ (‘kaṇḍaṉaṉ’ eṉḏṟiḍa karuttu eṙa illai; ‘kaṇḍilaṉ’ eṉḏṟiḍa karuttu eṙum-āṟu eṉ?), che significa ‘La mente non sorgeva a dire ‘io ho visto’, [così] in quale modo la mente poteva sorgere a dire ‘io non ho visto’?’ Cioè, poiché கருத்து (karuttu), ‘la mente’, è கண்டவன் (kaṇḍavaṉ), ‘colui che vede’, e poiché egli ha detto nella frase precedente che colui che vede aveva cessato di esistere quando investigò sé stesso per vedere chi è realmente, la mente non esisteva più e quindi non poteva sorgere a dire ‘io ho visto’ o ‘io non ho visto’. Quindi l’’io’ che vide ciò che rimaneva quando colui che vede aveva cessato di esistere non era la mente o l’ego ma solo ciò che rimaneva, vale a dire la pura auto-consapevolezza senza aggiunte ‘io sono’.

Tuttavia, poiché la parola è uno strumento progettato ed usato dalla mente per esprimere ed interpretare la sua esperienza dei fenomeni, non è uno strumento adeguato per esprimere o spiegare ciò che rimane quando la mente ha cessato di esistere, così nella terza riga di questo verso egli chiede, ‘விண்டு இது விளக்கிடு விறல் உறுவோன் ஆர், விண்டு இலை பண்டு நீ விளக்கினை என்றால்?’ (viṇḍu idu viḷakkiḍu viṟal uṟuvōṉ ār, viṇḍu ilai paṇḍu nī viḷakkiṉai eṉḏṟāl?), che significa, ‘Chi ha il potere di spiegare questo parlando, quando nei tempi antichi [anche] tu [come Dakshinamurti] hai spiegato [ciò] senza parlare?’ Riferendosi qui indirettamente a Dakshinamurti, il guru originale (ādi-guru), che insegnò attraverso il silenzio, egli intendeva che ciò che rimane quando colui che vede (l’ego o mente) cessa di esistere può essere reso chiaro solo nell’assoluto silenzio, lo stato in cui la mente non sorge affatto.

Per enfatizzare questa implicazione, nella riga finale egli ha scritto, ‘விண்டிடாது உன் நிலை விளக்கிட என்றே விண் தலம் அசலமா விளங்கிட நின்றாய்’ (viṇḍiḍādu uṉ nilai viḷakkiḍa eṉḏṟē viṇ ṭalam acalamā viḷaṅgiḍa niṉḏṟāy), ‘Solo per spiegare il tuo stato senza parlare, tu sei rimasto fermo come una collina [o immobilmente] risplendendo [dalla] terra [al] cielo’. அசலம் (acalam) è una forma Tamil della parola Sanscrita अचल (acala), che significa fermo, fisso o immobile, e che è quindi usato frequentemente per riferirsi a una collina o montagna, e dunque il nome அருணாசலம் (aruṇācalam) o ‘Arunachala’, che significa ‘Collina Aruna’ o ‘l’immobile Aruna’. In questa frase அசலம் (acalam) si presenta con un suffisso avverbiale come அசலமா (acalamā), che quindi significa ‘immobilmente’ o ‘come una collina’. Quindi ciò che Bhagavan intende dicendo che Arunachala rimane immobilmente come una collina solo per spiegare il suo stato senza parlare è ancora una volta che lo stato di pura auto-consapevolezza può essere reso chiaro solo in assoluto silenzio.

Quindi ciò che egli intende in questo verso è che sebbene egli ha detto che quando investigò chi è colui che vede, esso scomparve ed egli vide ciò che allora rimaneva, ciò che vide quello non era l’ego, la mente o colui che vede ma solo quello stesso. Cioè, ciò che rimaneva è solo Arunachala, che è pura auto-consapevolezza e quindi sempre consapevole di sé stessa come è realmente, e poiché essa solo esiste realmente, non c’è niente altro che essa che potrebbe mai conoscerla. Quindi come, da chi e a chi questo potrebbe mai essere spiegato?

Questi due versi di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam furono rivolti primariamente ad Arunachala (proprio come i versi di Muruganar furono rivolti primariamente a Bhagavan), ma anche allora egli ha espresso in modo molto sfumato e impersonale ciò che accade quando l’ego (colui che vede) è dissolto. Quindi questo è completamente diverso da tutte quelle persone che si rivolgono al mondo e affermano (esplicitamente o solo implicitamente) che essi sono senza ego o ‘auto-realizzati’.

4. Upadēśa Undiyār verso 28: la nostra reale natura è indivisa ed infinita, così niente altro esiste per conoscerla

Ciò che rimane quando investighiamo e vediamo cosa è la nostra vera natura, perciò annientando l’ego, che solo è ciò che vede l’apparenza di ogni altra cosa, è chiarito da Bhagavan nel verso 28 di Upadēśa Undiyār:
தனாதியல் யாதெனத் தான்றெரி கிற்பின்
னனாதி யனந்தசத் துந்தீபற
வகண்ட சிதானந்த முந்தீபற.

taṉādiyal yādeṉat tāṉḏṟeri hiṟpiṉ
ṉaṉādi yaṉantasat tundīpaṟa
vakhaṇḍa cidāṉanda mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தனாது இயல் யாது என தான் தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த சத்து அகண்ட சித் ஆனந்தம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉādu iyal yādu eṉa tāṉ terihil, piṉ aṉādi aṉanta sattu akhaṇḍa cit āṉandam.

அன்வயம்: தான் தனாது இயல் யாது என தெரிகில், பின் அனாதி அனந்த அகண்ட சத்து சித் ஆனந்தம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ taṉādu iyal yādu eṉa terihil, piṉ aṉādi aṉanta akhaṇḍa sattu cit āṉandam.

Traduzione: Se uno conosce cosa è la natura di sé stesso, allora [ciò che esisterà e risplenderà sarà solo] anādi [senza inizio], ananta [senza fine, illimitata o infinita] e akhaṇḍa [ininterrotta, indivisa o non frammentata] sat-cit-ānanda [essere-consapevolezza-beatitudine].
Poiché la nostra reale natura è sat-cit-ānanda, che è senza inizio, senza fine e indivisa, niente altro che essa può realmente esistere (perché se qualsiasi altra cosa esistesse, sat-cit-ānanda sarebbe perciò limitata e quindi non infinita, e non potrebbe consistere di parti (perché se lo fosse, a causa di ciò sarebbe divisa), così ciò che ‘vede’ o è consapevole di essa è solo sé stessa e non qualsiasi altra cosa. Quindi se qualche persona afferma ‘io ho visto la mia reale natura’ o ‘io ho sperimentato sat-cit-ānanda’, questo è ovviamente falso, perché come potrebbe sat-cit-ānanda sorgere ad affermare qualcosa, e a chi essa potrebbe fare qualsiasi dichiarazione?

Quindi quando saggi come Bhagavan e Muruganar compongono in versi riguardo l’esperienza di sat-cit-ānanda, i loro corpi e le loro menti sono usati dalla grazia per comporre in questo modo per il nostro beneficio. Tuttavia, questi corpi e menti che sono usati in questo modo sono molto rari, mentre gli ego che voglio affermare ‘io conosco me stesso’ o ‘io ho visto cosa rimane dopo che l’ego è morto’ sono molto comuni, così dovremmo essere cautamente scettici riguardo chiunque fa queste affermazioni.

5. Śrī Ramaṇa Sahasram verso 960: quando mi hai preso nelle tue fauci, cosa è successo? Solo tu puoi dire

Quando l’ego è stato sradicato, nessuno rimarrà a dire ‘io ho sperimentato questo’ o ‘io ho visto quello’, come è stato meravigliosamente espresso da Sadhu Om nel verso 960 di Śrī Ramaṇa Sahasram (un migliaio di versi di supplica per jñāna):
இறந்தேனா வின்னு மிருந்தேனா வுன்னை
மறந்தேனா வொன்று மறியேன் — றிறந்துவா
யென்னைப் பிடித்த விறைவேங்கை யேரமணா
பின்னை நடந்ததென்ன பேசு.

iṟandēṉā viṉṉu mirundēṉā vuṉṉai
maṟandēṉā voṉḏṟu maṟiyēṉ — ṟiṟanduvā
yeṉṉaip piḍitta viṟaivēṅgai yēramaṇā
piṉṉai naḍandadeṉṉa pēsu
.

பதச்சேதம்: இறந்தேனா? இன்னும் இருந்தேனா? உன்னை மறந்தேனா? ஒன்றும் அறியேன். திறந்து வாய் என்னை பிடித்த இறை வேங்கையே ரமணா, பின்னை நடந்தது என்ன? பேசு.

Padacchēdam (separazione delle parole): iṟandēṉā? iṉṉum irundēṉā? uṉṉai maṟandēṉā? oṉḏṟum aṟiyēṉ. tiṟandu vāy eṉṉai piḍitta iṟai vēṅgaiyē ramaṇā, piṉṉai naḍandadu eṉṉa? pēsu.

அன்வயம்: வாய் திறந்து என்னை பிடித்த வேங்கையே, இறை ரமணா, இறந்தேனா? இன்னும் இருந்தேனா? உன்னை மறந்தேனா? ஒன்றும் அறியேன். [வாய் திறந்து என்னை பிடித்த] பின்னை நடந்தது என்ன? பேசு.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vāy tiṟandu eṉṉai piḍitta vēṅgaiyē, iṟai ramaṇā, iṟandēṉā? iṉṉum irundēṉā? uṉṉai maṟandēṉā? oṉḏṟum aṟiyēṉ. [vāy tiṟandu eṉṉai piḍitta] piṉṉai naḍandadu eṉṉa? pēsu.

Traduzione: Signore Ramana, O tigre che aprendo la [tua] bocca mi hai afferrato, sono morto? [O] ancora sono esistito? Mi sono dimenticato di te? Non so nulla. Dopo [che hai aperto la tua bocca e mi hai afferrato] cosa è successo? [Solo tu puoi] dire.
Sebbene la parola finale di questo verso è solo ‘பேசு’ (pēsu), che è un imperativo che significa ‘dì’, nella sua parafrasi esplicativa Sadhu Om ha indicato che questo implica ‘நீதான் சொல்ல முடியும்’ (nī-tāṉ solla muḍiyum), che significa ‘Solo tu puoi dire’, intendendo quindi che solo la nostra reale natura (ātma-svarūpa), che è ciò che Bhagavan è realmente, può sapere cosa rimane quando l’ego ed ogni altra cosa ha cessato di esistere. L’ego che investiga sé stesso, essendo stato preso sotto il potere della sua grazia, non può sapere cosa succede quando esso stesso è dissolto, essendo consumato dall’assoluta chiarezza della pura auto-consapevolezza. Esso non può neppure sapere che ha cessato di esistere, o che mai è esistito, così come potrebbe conoscere qualsiasi altra cosa, o affermare di aver sperimentato o realizzato qualunque cosa?

6. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 31: l’assenza di ego è uno stato privo di consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da sé stessi, così come può la mente comprendere ciò?

Riguardo la tua domanda, ‘ma possiamo concepire il jnani, o meglio, la sua forma umana nel nostro sogno, usare parole, cioè dualismo, per descrivere alla nostra mente dualistica, l’esperienza che la sua forma umana ha avuto di annientamento del suo ego illusorio?’, la sua forma umana esiste solo nella nostra visione esteriorizzata, così essa non sperimenta nulla. Quando l’ego è annientato, ciò che rimane è solo l’eterna e sempre immutabile ātma-svarūpa (la ‘propria forma’ o reale natura di noi stessi), che sempre sperimenta sé stessa come è e niente altro, così dalla sua prospettiva non accade mai alcun cambiamento. Quindi la nostra mente finita e sempre mutevole non può concepire ciò che lo stato infinito ed immutabile di assenza di ego è realmente, come Bhagavan intende nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
தன்னை யழித்தெழுந்த தன்மயா னந்தருக்
கென்னை யுளதொன் றியற்றுதற்குத் — தன்னையலா
தன்னிய மொன்று மறியா ரவர்நிலைமை
யின்னதென் றுன்ன லெவன்.

taṉṉai yaṙitteṙunda taṉmayā ṉandaruk
keṉṉai yuḷadoṉ ḏṟiyaṯṟudaṟkut — taṉṉaiyalā
taṉṉiya moṉḏṟu maṟiyā ravarnilaimai
yiṉṉadeṉ ḏṟuṉṉa levaṉ
.

பதச்சேதம்: தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தருக்கு என்னை உளது ஒன்று இயற்றுதற்கு? தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்; அவர் நிலைமை இன்னது என்று உன்னல் எவன்?

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmaya-āṉandarukku eṉṉai uḷadu oṉḏṟu iyaṯṟudaṟku? taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār; avar nilaimai iṉṉadu eṉḏṟu uṉṉal evaṉ?

அன்வயம்: தன்னை அழித்து எழுந்த தன்மயானந்தருக்கு இயற்றுதற்கு என்னை ஒன்று உளது? தன்னை அலாது அன்னியம் ஒன்றும் அறியார்; அவர் நிலைமை இன்னது என்று உன்னல் எவன்?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): taṉṉai aṙittu eṙunda taṉmaya-āṉandarukku iyaṯṟudaṟku eṉṉai oṉḏṟu uḷadu? taṉṉai alādu aṉṉiyam oṉḏṟum aṟiyār; avar nilaimai iṉṉadu eṉḏṟu uṉṉal evaṉ?

Traduzione: Per coloro che sono [beatamente immersi in e come] tanmayānanda [‘felicità composta di quello’, vale a dire il nostro sé reale], che è sorto [come ‘io sono io’] distruggendo loro stessi [l’ego], quale [azione] esiste da fare? Essi non conoscono [o non sono consapevoli di] qualsiasi cosa diversa da loro stessi; [così] chi può [o come] concepire il loro stato come ‘esso è tale’?
Quindi è inutile per noi cercare di comprendere lo stato di Bhagavan con la nostra mente. Per comprenderlo dobbiamo sperimentarlo, e per sperimentarlo dobbiamo cessare di sorgere come questo ego. E se cessiamo di sorgere come questo ego, non ci sarà nessuno a dire che abbiamo compreso qualcosa.


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