Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

lunedì 24 agosto 2015

‘Quello solo è tapas’: i primi insegnamenti che Sri Ramana diede a Kavyakantha Ganapati Sastri

Michael James

22 Agosto 2015
‘That alone is tapas’: the first teachings that Sri Ramana gave to Kavyakantha Ganapati Sastri

Nei commenti ad uno dei miei recenti articoli, Possiamo sperimentare ciò che siamo realmente seguendo il sentiero della devozione (bhakti mārga)?, un amico ha argomentato che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è un processo a due stadi, e benché abbia cercato di spiegare nel mio ultimo articolo, Cercare di distinguere noi stessi dal nostro ego è ciò che è chiamata auto-investigazione (ātma-vicāra)​, che esso è realmente un singolo processo continuo senza stadi distinti, vari amici hanno continuato a discutere questa idea, e a un certo punto questa discussione si è ramificata in una discussione riguardo l’affidabilità di ciò che è registrato nella sezione ‘Discorsi’ di Sat-Darshana Bhashya, che mi ha indotto a spiegare (qui, qui e qui) perché generalmente non considero affidabile nessuna cosa scritta o registrata da Kavyakantha Ganapati Sastri.

Poiché le discussioni di questi due soggetti separati sono continuate fianco a fianco per un po’, in un commento un amico di nome Wittgenstein ha suggerito che sarebbe stato utile considerare il primo insegnamento che Bhagavan diede a Kavyakantha per vedere se in quel momento egli diede qualche indicazione del fatto che ātma-vicāra è un processo a due stadi. Wittgenstein ha concluso che una tale indicazione non c’era, ma mi ha chiesto di correggerlo se aveva tratto qualche conclusione errata da quell’insegnamento, così questo articolo è scritto in risposta alla sua richiesta.
  1. Le due risposte che Bhagavan diede a Kavyakantha
  2. Il significato della prima risposta di Bhagavan
  3. La pratica di auto-investigazione non comporta altro che l’osservare attentivamente noi stessi
  4. Il significato della seconda risposta di Bhagavan
  5. Upadēśa Undiyār verso 30: sperimentare ciò che rimane quando l’ego si dissolve è tapas
  6. Guru Vācaka Kōvai verso 706: una parafrasi della seconda risposta di Bhagavan
  7. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 14: il riassunto di Bhagavan del verso 706 di Guru Vācaka Kōvai

1. Le due risposte che Bhagavan diede a Kavyakantha

Kavyakantha Ganapati Sastri aveva vissuto saltuariamente a Tiruvannamalai fino dal 1903, così aveva saputo di Bhagavan da allora, ma non sentì qualche interesse particolare per lui fino a un giorno del 1907. Quel giorno, il 18 Novembre, egli si sentiva demoralizzato, perché nonostante la pratica di mantra-japa (ripetizione di parole sacre) e altre forme di tapas (austerità religiosa o pratica spirituale) per molti anni non aveva raggiunto nessuna delle sue ambizioni, così egli improvvisamente si sentì ispirato ad avvicinarsi a Bhagavan e a chiedere la sua guida. Trovandolo solo, seduto all’esterno della caverna Virupaksha, dove egli viveva allora, Kavyakantha si prostrò davanti a lui e disse qualcosa del genere: ‘Ho studiato tutti i Veda e numerosi altri libri; ho fatto innumerevoli crore (unità di misura sud-asiatica equivalente a dieci milioni) di mantra-japa; ho digiunato e mangiato molto poco; ciò nonostante ciò che s’intende con ‘tapas’ non mi è ancora chiaro. Spiegami benevolmente qual è realmente il significato di tapas’.

Inizialmente Bhagavan rimase semplicemente quieto e guardò fissò silenziosamente come Kavyakantha, ma dopo circa dieci minuti Kavyakantha disse: ‘Ho letto in libri riguardo questa cakṣu-dīkṣā [iniziazione con la vista] ma non posso afferrare la verità che è insegnata quindi, benevolmente spiegami verbalmente’. Bhagavan allora disse:
நான் என்பது எங்கேயிருந்து புறப்படுகிறதோ அதைக் கவனித்தால், மனம் அங்கே லீனமாகும்; அதுவே தபஸ்.

nāṉ eṉbadu eṅgēyirundu puṟappaḍugiṟadō adai-k gavaṉittāl, maṉam aṅgē līṉam-āhum; adu-v-ē tapas.

Se si osserva attentamente quello da dove esce fuori ciò che dice ‘io, io’, lì la mente sarà dissolta; quello solo è tapas.
Tuttavia Kavyakantha fu perplesso dalla stranezza di questi insegnamenti, così chiese, ‘Non è possibile ottenere quello stato anche con il mantra-japa?’, al che Bhagavan rispose:
ஒரு மந்திரத்தை ஜபம் பண்ணினால் அந்த மந்திரத்வனி எங்கேயிருந்து புறப்படுகிறது என்று கவனித்தால், மனம் அங்கே லீனமாகிறது; அதுதான் தபஸ்.

oru mantirattai japam paṇṇiṉāl anda mantira-dhvaṉi eṅgēyirundu puṟappaḍugiṟadu eṉḏṟu gavaṉittāl, maṉam aṅgē līṉam-āgiṟadu; adu-dāṉ tapas.

Se si fa japa di un mantra, se si osserva attentamente da dove esce fuori quel suono-mantra, lì la mente è dissolta; quello è tapas.
Consideriamo ora il significato e l’implicazione di queste due risposte in maggiore dettaglio.

2. Il significato della prima risposta di Bhagavan

Nella prima di queste due risposte la frase நான் நான் என்பது (nāṉ nāṉ eṉbadu), che significa ‘ciò che dice io io’, ‘ciò che è detto essere io io’ o ‘ciò che è chiamato io io’, indica l’ego, perché l’ego è la sola forma di ‘io’ che sorge o esce fuori. In questa frase la ripetizione di நான் (nāṉ), che significa ‘io’, si riferisce al fatto che sia nel pensiero che nella parola l’ego si riferisce ripetutamente a se stesso come ‘io, come Kavyakantha quando aveva detto ‘Io ho studiato tutti i Veda […] io ho fatto crore di mantra-japa; io ho digiunato […]’.

எங்கேயிருந்து (eṅgēyirundu) significa ‘esce fuori’ o ‘comincia’; அதை (adai) è la forma accusativa di அது (adu), che significa ‘quello’ o ‘esso’; e கவனித்தால் (gavaṉittāl) è una forma condizionale di கவனி (gavaṉi), che è un verbo transitivo che significa osservare o dare attenzione, così கவனித்தால் (gavaṉittāl) significa ‘se si osserva attentamente’. Dunque ‘நான் நான் என்பது எங்கேயிருந்து புறப்படுகிறதோ அதைக் கவனித்தால்’ (nāṉ nāṉ eṉbadu eṅgēyirundu puṟappaḍugiṟadō adai-k gavaṉittāl) è una proposizione condizionale che significa: ‘se si osserva attentamente quello da dove esce fuori ciò che dice io io’.

Questa proposizione condizionale è seguita dalla proposizione principale, ‘மனம் அங்கே லீனமாகும்’ (maṉam aṅgē līṉam-āhum), che significa ‘lì la mente sarà dissolta’. மனம் (maṉam) significa ‘mente’; அங்கே (aṅgē) è una forma intensificata di அங்கு (aṅgu), che significa ‘lì’, così essa implica ‘proprio in quel luogo’ o ‘proprio nella sorgente da cui l’ego sorge’; லீனமாகும் (līṉam-āhum) è un composto di due parole, லீனம் (līṉam), che significa ‘fuso’, ‘dissolto’, ‘assorbito’ o ‘fatto scomparire’, e ஆகும் (āhum), che significa ‘sarà’, così லீனமாகும் (līṉam-āhum) significa ‘sarà dissolto’.

Poiché quello da cui il nostro ego sorge o esce fuori è solo noi stessi, ciò che Bhagavan descrive nella proposizione condizionale di questa frase è solo la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), che è osservare attentivamente noi stessi, la sorgente da cui sorgiamo come questo ego, e ciò che descrive nella proposizione principale è il risultato di questa pratica, che è la completa dissoluzione della nostra mente insieme con la sua radice, il nostro ego, nella sua sorgente, che è noi stessi. Dunque nella frase conclusiva di questo verso egli dice ‘அதுவே தபஸ்’ (adu-v-ē tapas), che significa ‘quello solo è tapas’.

Benché tapas significa letteralmente ‘bruciare’ o ‘ardere’ ed è generalmente usato per intendere ogni tipo di severa austerità religiosa o pratica spirituale, ciò che ogni forma di tapas comporta essenzialmente è l’auto-negazione. Quindi secondo Bhagavan il vero tapas è solo la pratica di ātma-vicāra, perché questa è il solo mezzo con cui possiamo dissolvere il nostro ego, e senza la completa dissoluzione del nostro ego non possiamo realmente negare noi stessi. Ogni altra forma di auto-negazione è solo una negazione di ciò che sembra essere ‘mio’ ma non una negazione di ciò che ora sembra essere ‘io’, vale a dire il nostro ego.

Dunque in questa semplice risposta Bhagavan ha riassunto l’intera essenza dei suoi insegnamenti, indicando chiaramente che la semplice pratica di essere auto-attentivi o attentivamente auto-consapevoli è il solo mezzo con cui possiamo dissolvere il nostro ego in noi stessi, la sorgente da cui esso è sorto, e rimanere quindi come siamo realmente.

3. La pratica di auto-investigazione non comporta altro che l’osservare attentivamente noi stessi

Come Wittgenstein ha scritto nel suo commento, in questa risposta non c’è assolutamente nessun suggerimento che ātma-vicāra comporti più di uno stadio. Di fatto in questa risposta Bhagavan intende proprio il contrario, vale a dire che per dissolvere il nostro ego in noi stessi non abbiamo bisogno di fare altro che cercare di osservare attentivamente noi stessi.

Poiché ora ci sperimentiamo come questo ego, che è una mescolanza di noi stessi e varie aggiunte che attualmente confondiamo come noi stessi, quando iniziamo a cercare di osservare attentivamente noi stessi ci stiamo osservando come questo ego. Tuttavia, finché comprendiamo che ciò che siamo realmente è solo pura auto-consapevolezza, che è l’essenza di questo ego, ciò che cerchiamo di osservare attentivamente è solo la nostra auto-consapevolezza e non ogni aggiunta con cui ora è mischiata, come il nostro corpo, e cercando così di osservare solo la nostra auto-consapevolezza essenziale riusciremo gradualmente a separare questa auto-consapevolezza e a sperimentarla in completo isolamento (kaivalya) da tutte le nostre aggiunte.

Questa separazione e isolamento di noi stessi per mezzo di un’acuta e vigilante auto-attentività è il solo mezzo con cui il nostro ego e il resto della nostra mente può essere dissolto in noi stessi, perché sembriamo essere questo ego o mente solo finché sperimentiamo noi stessi mischiati con qualsiasi aggiunta. Quindi la semplice auto-attentività è tutto ciò che ātma-vicāra comporta dall’inizio alla fine, così in ātma-vicāra non c’è stadio eccetto che cercare di essere più possibile attentivamente auto-consapevoli.

Cioè, osservando semplicemente il nostro ego più attentivamente possibile riusciremo infine a dissolverlo in noi stessi, la sua sorgente. Nessun’altro sforzo è richiesto oltre a questo, e davvero ogni sforzo tranne questo ci distrarrà dall’osservare attentivamente soltanto noi stessi.

4. Il significato della seconda risposta di Bhagavan

Ciò che Bhagavan ha insegnato a Kavyakantha nella sua seconda risposta è essenzialmente lo stesso di ciò che ha insegnato nella prima risposta, perché proprio come noi stessi siamo la sorgente dalla quale sorgiamo come questo ‘io’ illusorio chiamato ego o mente, noi siamo anche la sorgente dalla quale ogni altra cosa sorge, incluso il suono di ogni mantra che possiamo ripetere, così osservare attentivamente la sorgente dalla quale un suono-mantra esce fuori è lo stesso di osservare attentivamente la sorgente dalla quale usciamo fuori come questo ego. Entrambi comportano solo l’essere vigilantemente auto-attentivi.

Nella seconda risposta ci sono due proposizioni condizionali, di cui la prima è una condizione per la seconda, e la seconda è una condizione per il risultato espresso nella proposizione principale (che è lo stesso risultato espresso nella proposizione principale della prima risposta). La prima proposizione condizionale è ‘ஒரு மந்திரத்தை ஜபம் பண்ணினால்’ (oru mantirattai japam paṇṇiṉāl), che significa ‘se si fa japa di un mantra', tranne மந்திரத்தை (mantirattai) che è la forma accusativa di மந்திரம் (mantiram), e la forma Tamil della parola Sanscrita मन्त्र (mantra), così è l’oggetto diretto della locuzione verbale condizionale ஜபம் பண்ணினால் (japam paṇṇiṉāl), che significa ‘se si fa japa’ o ‘se si fa ripetizione’. Tuttavia in Inglese la locuzione verbale ‘fare ripetizione’ non può prendere un oggetto diretto, così dobbiamo aggiungere la preposizione ‘di’. Quindi dobbiamo tradurre questa proposizione o come ‘se si fa japa di un mantra’, o per rendere ‘mantra’ un oggetto diretto, come è in Tamil, dobbiamo parafrasare il significato di questa proposizione semplicemente come ‘se si ripete un mantra’.

La seconda proposizione condizionale è ‘அந்த மந்திரத்வனி எங்கேயிருந்து புறப்படுகிறது என்று கவனித்தால்’ (anda mantira-dhvaṉi eṅgēyirundu puṟappaḍugiṟadu eṉḏṟu gavaṉittāl), che significa ‘se si osserva attentivamente da dove quel mantra-suono esce fuori’. In questo contesto il termine மந்திரத்வனி (mantira-dhvaṉi) o ‘mantra-suono’ non significa letteralmente un suono fisico, perché un tale significato letterale si applicherebbe solo nel caso di japa fatto a voce alta e non nel caso di japa fatto mentalmente, così lo dovremmo prendere figurativamente nel significato di ‘suono mentale’ o pensiero di un mantra. Cioè, se ripetiamo un mantra nella nostra mente stiamo pronunciando mentalmente il suono di quel mantra, così quel suono pronunciato mentalmente sorge solo nella nostra mente, e la sorgente da cui esso sorge è la stessa sorgente da cui sorge anche il nostro ego e ogni altra cosa, vale a dire noi stessi.

Quindi ciò che Bhagavan intende in questa proposizione è ‘se si osserva attentivamente se stessi, la sorgente da cui quel mantra-suono esce fuori’. Se cerchiamo di fare questo in pratica, ciò che prima o poi succederà è che il nostro japa mentale cesserà, perché possiamo fare tale japa solo dando attenzione al pensiero di qualunque mantra stiamo ripetendo mentalmente, così se cerchiamo di focalizzare la nostra intera attenzione su noi stessi, ovvero la sorgente di quel pensiero, il pensiero stesso sarà impedito nel sorgere.

Comunque, questa cessazione del nostro japa non importa, perché se stiamo seguendo correttamente l’istruzione di Bhagavan, ciò che è importante è solo che stiamo osservando attentivamente noi stessi. Così finché permettiamo a noi stessi di attaccarci al dare attenzione al mantra, non saremo in grado di osservare attentivamente la sua sorgente con fermezza, perché la nostra attenzione sarà divisa tra il mantra e noi stessi, fluttuando avanti e indietro tra l’uno e l’altro, così al massimo la nostra auto-attentività sarà solo parziale. Quindi se vogliamo approfondire questa pratica di osservare attentivamente da dove il suono-mantra esce fuori, dobbiamo essere pronti a rinunciare al suono-mantra per focalizzare la nostra intera attenzione su noi stessi, la sua sorgente.

Cosa succede se osserviamo attentivamente da dove il suono-mantra esce fuori è espresso da Bhagavan nella proposizione principale di questa frase, ‘மனம் அங்கே லீனமாகிறது’ (maṉam aṅgē līṉam-āgiṟadu), che significa, ‘lì la mente è dissolta’. Questa è una prova ulteriore del fatto che egli non intendeva che dovremmo continuare ad aggrapparci al mantra o al suono-mantra, perché finché permettiamo alla nostra mente di aggrapparsi a qualsiasi cosa le staremo impedendo di dissolversi. E’ solo dando attenzione a noi stessi e noi stessi soltanto che la nostra mente si dissolverà in noi stessi, la sua sorgente.

In questa risposta, come nel caso della prima, dopo aver detto che la nostra mente si dissolverà in noi stessi se diamo attenzione a noi stessi, egli termina dicendo, ‘அதுதான் தபஸ்’ (adu-dāṉ tapas) che significa, ‘quello stesso è tapas’ o ‘quello solo è tapas’. Dunque ciò che intende in entrambe le risposte è che il vero tapas è solo la dissoluzione della nostra mente, che può essere realizzata solo osservando attentivamente noi stessi, la sorgente da cui il nostro ego e tutti i suoi pensieri sorgono.

5. Upadēśa Undiyār verso 30: sperimentare ciò che rimane quando l’ego si dissolve è tapas

Questa idea è anche espressa da lui nel verso 30 di Upadēśa Undiyār:
யானற் றியல்வது தேரி னெதுவது
தானற் றவமென்றா னுந்தீபற
தானாம் ரமணேச னுந்தீபற.

yāṉaṯ ṟiyalvadu tēri ṉeduvadu
dāṉaṯ ṟavameṉḏṟā ṉundīpaṟa
tāṉām ramaṇēśa ṉundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: ‘யான் அற்று இயல்வது தேரின் எது, அது தான் நல் தவம்’ என்றான் தான் ஆம் ரமணேசன்

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘yāṉ aṯṟu iyalvadu tēriṉ edu, adu-dāṉ nal tavam’ eṉḏṟāṉ tāṉ ām ramaṇēśaṉ.

Traduzione: Quale [stato di assenza di ego è sperimentato] se si conosce ciò che rimane dopo che ‘io’ ha cessato di esistere, quello solo è buon tapas’: così disse il Signore Ramana, che è il nostro sé.
In questo verso la frase யான் அற்று இயல்வது (yāṉ aṯṟu iyalvadu), che significa letteralmente ‘cessando l’io ciò che rimane’ o ‘essendo cessato l’io ciò che rimane’, e che quindi implica ‘ciò che rimane dopo che l’io ha cessato di esistere’, indica noi stessi (ciò che siamo realmente), perché noi solo rimarremo quando il nostro ego si sarà dissolto e avrà quindi cessato di esistere. தேரின் (tēriṉ) significa ‘se si conosce’, e poiché conoscere il nostro sé, che solo rimarrà dopo che il nostro ego ha cessato di esistere, è lo stato di vera auto-conoscenza o pura auto-consapevolezza, ciò che è indicato da entrambi i pronomi எது (edu, che significa ‘quale’) e அது (adu, che significa ‘quello’) è quella pura auto-consapevolezza.

Il suffisso தான் (dāṉ) che è apposto a அது (adu) è un intensificatore, così அதுதான் (adu-dāṉ) significa ‘quello stesso’ o ‘quello solo’, che si riferisce all’auto-consapevolezza senza ego intesa nella proposizione precedente, ‘யான் அற்று இயல்வது தேரின்’ (yāṉ aṯṟu iyalvadu tēriṉ), ‘se si conosce ciò che rimane dopo che l’io ha cessato di esistere’. நற்றவம் (ṉaṯṟavam) o நல் தவம் (nal tavam) significa letteralmente ‘buon tapas’, ma poiché ‘buono’ in questo contesto è uno sminuente, ciò che s’intende con நல் (nal) o ‘buono’ è eccellente, genuino o reale. Quindi ciò che è inteso dalla proposizione principale, ‘அது தான் நல் தவம்’ (adu-dāṉ nal tavam) o ‘quello solo è buon tapas', è che il tapas reale è solo l’auto-consapevolezza senza ego che sola rimarrà e sarà sperimentata dopo l’annientamento del nostro ego.

Dunque la definizione di tapas che Bhagavan da in questo verso corrisponde strettamente alle definizioni di esso che ha dato nelle sue due risposte a Kavyakantha, perché in tutti questi tre casi egli intende chiaramente che il vero tapas è solo lo stato in cui il nostro ego o mente è stato completamente dissolto e sradicato.

Come Kavyakantha, i così detti ‘rishis’ (ṛṣis) nella foresta Daruka, ai quali gli insegnamenti in Upadēśa Undiyār erano indirizzati, stavano facendo tapas per la realizzazione delle loro ambizioni personali, così dopo averli distolti dai loro kāmya karma (azioni motivate da desiderio) dicendo loro che tali azioni non possono dare la liberazione, poi spiegando loro l’efficacia relativa di un’ampia gamma di altre pratiche, e poi insegnando loro che la migliore di tutte le pratiche è solo l’auto-investigazione (ātma-vicāra), perché essa solo è il sentiero diretto alla liberazione, Bhagavan infine dice loro che il vero tapas è solo lo stato senza ego di pura auto-consapevolezza che solo rimarrà come risultato dell’annientamento dell’ego per mezzo di ātma-vicāra. Tuttavia mentre questo fu l’insegnamento finale (upadēśa) che egli, come Signore Siva, diede nei tempi antichi ai ṛṣis nella foresta Daruka, esso è stato il primo insegnamento che egli ha dato a Kavyakantha Ganapati Sastri, indicandoci che nella sua manifestazione come Sadguru Ramana non avrebbe aggirato il punto ma dall’inizio avrebbe guidato i suoi devoti sul sentiero diretto di ātma-vicāra.

Sebbene sia i ṛṣis nella foresta Daruka sia Kavyakantha stavano facendo tapas per la realizzazione delle loro ambizioni personali, non dovremmo pensare che essi sono molti diversi da noi, perché come loro ciascuno di noi ha i propri desideri personali e banali aspirazioni che speriamo di realizzare. Finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, non possiamo evitare completamente di avere desideri, perché il desiderio e l’attaccamento a cose diverse da noi stessi sono la vera natura dell’ego. Se aspiriamo a sperimentare noi stessi come siamo realmente, abbiamo ovviamente bisogno di cercare di minimizzare più possibile i nostri altri desideri e aspirazioni, ma non possiamo sradicarli interamente per mezzo di qualche mezzo diverso dalla persistente auto-attentività.

Cioè, la radice di tutti i desideri e le ambizioni è solo il nostro ego, così anche se riusciamo a tenere a freno o a ridurre l’intensità di alcuni dei nostri desideri, altri desideri (forse più sottili e apparentemente altruistici) continueranno a spuntare finché questo ego sopravvive. Quindi il solo modo effettivo di tenere a freno tutti i desideri, sia quelli stabiliti da lungo tempo sia quelli spuntati di recente, è di tenere a freno il sorgere del nostro ego, cosa che possiamo fare solo osservandolo più attentivamente possibile. Finché permettiamo a noi stessi di essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, stiamo dando al nostro ego la libertà di sorgere, così possiamo limitare la sua libertà solo cercando il più possibile di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Possiamo considerare i nostri desideri come altruistici, come fece senza dubbio Kavyakantha, ma non importa quanto essi possano essere altruistici, i desideri sono desideri, ed essi ci legano al nostro ego e a tutte le sue aggiunte. Quindi se siamo intenti nello sradicare il nostro ego, non abbiamo altre opzioni che cercare di mettere a freno tutti i nostri desideri, anche quelli apparentemente più altruistici, perseverando nel nostro sforzo di osservare attentivamente noi stessi, la sorgente da cui il nostro ego sorge insieme con tutti suoi desideri. Dunque in ogni momento della nostra vita siamo di fronte a una scelta: permettere a noi stessi di essere attratti lontano dal flusso esteriorizzante dei nostri desideri, o aggrapparci fermamente all’auto-attentività. La misura in cui scegliamo la seconda opzione indica la misura in cui abbiamo genuino amore per sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Posso solo parlare per me stesso quando dico che il mio amore per sperimentare me stesso come sono realmente è tristemente inadeguato, così sono costantemente trasportato lontano dal flusso dei miei desideri per sperimentare cose diverse da me stesso soltanto, ma sospetto che la maggior parte di noi senta più o meno la stessa cosa. Tuttavia, non dovremmo disperare, perché per quanto poco sforzo possiamo fare per essere auto-attentivi, ogni tentativo che facciamo è un piccolo passo nella giusta direzione, e Bhagavan ci ha assicurato (nel dodicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? e altrove) che se perseveriamo più possibile, prima o poi certamente riusciremo. Egli ci ha dato il rimedio aureo, così se ci abbandoniamo a lui cercando di giovarci più possibile di esso, possiamo essere sicuri che i nostri piccoli sforzi di fare questo ci condurranno infallibilmente alla nostra destinazione. Quindi ciascuno di noi continui a cercare di fare il proprio poco di tapas osservando attentivamente noi stessi, la sorgente da cui siamo sorti come questo ego diabolico e auto-ingannevole.

6. Guru Vācaka Kōvai verso 706: una parafrasi della seconda risposta di Bhagavan

In molte biografie di Bhagavan, come Self-Realisation (che fu pubblicata per la prima volta nel 1931 e che essendo la prima biografia dettagliata divenne la base per molte di quelle successive), il motivo per cui egli diede la sua seconda risposta a Kavyakantha non è indicato chiaramente, così spesso devoti gli chiesero perché aveva fatto questo, ed egli spiegò allora che fece così perché dopo aver sentito la sua prima risposta Kavyakantha gli aveva chiesto se non fosse possibile realizzare lo stesso stato facendo mantra-japa. In una di queste occasioni egli elaborò sul significato interno e l’implicazione della sua seconda risposta, e ciò che disse allora fu riassunto da Sri Muruganar nel verso 706 di ​Guru Vācaka Kōvai:
யானென் றெழுமிடமே தென்னத்தந் நுண்ணறிவாம்
மோனத்தா லுண்மூழ்க மாட்டாதார் — மானதத்தாற்
பண்ணுஞ் செபத்திற் பராவாக்கு யாண்டிருந்து
நண்ணுமென் றாய்த னலம்.

yāṉeṉ ḏṟeṙumiḍamē deṉṉattan nuṇṇaṟivām
mōṉattā luṇmūṙka māṭṭādār — māṉadattāṟ
paṇṇuñ jepattiṯ parāvākku yāṇḍirundu
naṇṇumeṉ ḏṟāyda ṉalam
.

பதச்சேதம்: யான் என்று எழும் இடம் ஏது என்ன தம் நுண் அறிவு ஆம் மோனத்தால் உள் மூழ்க மாட்டாதர் மானதத்தால் பண்ணும் செபத்தில் பராவாக்கு யாண்டு இருந்து நண்ணும் என்று ஆய்தல் நலம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): yāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉṉa tam nuṇ aṟivu ām mōṉattāl uḷ mūṙka māṭṭādar māṉadattāl paṇṇum jepattil parāvākku yāṇḍu irundu naṇṇum eṉḏṟu āydal nalam.

அன்வயம்: தம் நுண் அறிவு ஆம் மோனத்தால் யான் என்று எழும் இடம் ஏது என்ன உள் மூழ்க மாட்டாதர் மானதத்தால் பண்ணும் செபத்தில் பராவாக்கு யாண்டு இருந்து நண்ணும் என்று ஆய்தல் நலம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tam nuṇ aṟivu ām mōṉattāl yāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉṉa uḷ mūṙka māṭṭādar māṉadattāl paṇṇum jepattil parāvākku yāṇḍu irundu naṇṇum eṉḏṟu āydal nalam.

Traduzione: [Per] coloro che non sono in grado di immergersi all’interno [investigando] per mezzo del silenzio, che è la loro consapevolezza acuta [aguzza, raffinata o sottile], qual è il luogo da cui esso [l’ego] sorge come ‘io’, durante il japa fatto con la mente, investigare da dove sorge parāvāk [il suono o parola suprema] è buono.
Trasmettere con precisione in Inglese la struttura grammaticale di questo verso e la relazione tra le due metà di esso è quasi impossibile, perché è una singola frase in cui il sostantivo verbale ஆய்தல் (āydal), che significa ‘investigando’, insieme a tutto quello che lo precede è il soggetto della proposizione principale, così l’intero verso tranne la parola finale, நலம் (nalam), che significa ‘buono’, è un singolo sintagma nominale con ஆய்தல் (āydal) come sua testa. All’interno di questo sintagma nominale, l’intera parte fino a உள் மூழ்க மாட்டாதர் (uḷ mūṙka māṭṭādar) incluso, che significa ‘coloro che non sono in grado di immergersi all’interno’, è un altro sintagma nominale ed è il soggetto del sostantivo verbale ஆய்தல் (āydal), così la struttura basilare di questa frase equivale a dire in Inglese ‘la loro investigazione è buona’, dove il ‘loro’ rappresenta il sintagma nominale che termina con மாட்டாதர் (māṭṭādar), ‘coloro che non sono in grado’, e ‘investigando’ rappresenta il resto del sintagma nominale principale che termina con ஆய்தல் (āydal). Quindi benché la struttura basilare sia abbastanza semplice, tutte le altre parole che formano sia il sintagma nominale principale sia quello all’interno di esso lo rendono troppo complesso per essere tradotto in Inglese, così per rendere il senso di esso in una frase Inglese ho dovuto aggiungere la parola ‘per’ tra parentesi quadra prima del primo sintagma nominale, vale a dire ‘coloro che non sono in grado di immergersi all’interno [investigando] per mezzo del silenzio, che è la loro acuta consapevolezza, qual è il luogo da cui esso sorge come ‘io’.

Ci sono diverse idee utili in questo verso che erano esplicite nella seconda risposta che Bhagavan ha dato a Kavyakantha. In primo luogo, il primo sintagma nominale, ‘யான் என்று எழும் இடம் ஏது என்ன தம் நுண் அறிவு ஆம் மோனத்தால் உள் மூழ்க மாட்டாதர்’ (yāṉ eṉḏṟu eṙum iḍam ēdu eṉṉa tam nuṇ aṟivu ām mōṉattāl uḷ mūṙka māṭṭādar), che significa ‘coloro che non sono in grado di immergersi all’interno [investigando] per mezzo del silenzio, che è la loro acuta consapevolezza, qual è il luogo dal quale esso sorge come io’, indica che ciò che Bhagavan ha suggerito nella sua seconda risposta è un’opzione che necessita di essere offerta solo a coloro che sentono di non essere in grado di fondersi silenziosamente all’interno investigando qual è la sorgente da cui l’ego sorge.

Un altro punto importante in questa frase complessa è la più semplice frase strumentale ‘தம் நுண் அறிவு ஆம் மோனத்தால்’ (tam nuṇ aṟivu ām mōṉattāl), che significa ‘per mezzo del silenzio, che è la loro acuta [aguzza, raffinata o sottile] consapevolezza’ e che quindi implica che lo strumento con cui possiamo investigare la nostra sorgente è l’auto-consapevolezza o auto-attentività silente e acutamente focalizzata.

Nella sua seconda risposta a Kavyakantha, Bhagavan lo ha consigliato di osservare attentivamente da dove il mantra-dhvaṉi o suono del mantra sorge, ma in questo verso egli esprime la stessa idea in un modo leggermente differente dicendo ‘பராவாக்கு யாண்டு இருந்து நண்ணும் என்று ஆய்தல்’ (parāvākku yāṇḍu irundu naṇṇum eṉḏṟu āydal), che significa ‘investigare da dove sorge parāvāk’. பராவாக்கு (parāvākku) significa letteralmente ‘parola suprema’ o ‘suono supremo’, e nel verso 715 di Guru Vācaka Kōvai egli indica che ciò che intende con questo termine è ‘io’ o ‘io sono io’, che non è ovviamente la stessa cosa del mantra-dhvaṉi, ma poiché la sorgente da cui il mantra-dhvaṉi sorge è la stessa sorgente da cui l’ ‘io’ sorge, vale a dire noi stessi, l’istruzione di Bhagavan in entrambi i casi equivale a dire che dovremmo osservare attentivamente noi stessi anche mentre facciamo mantra-japa. Quindi il suo uso di questo termine பராவாக்கு (parāvākku) in questo verso è una prova ulteriore che ciò che egli intendeva con osservare attentivamente da dove sorge il mantra-dhvaṉi è solo osservare attentivamente noi stessi.

Ovviamente per osservare attentivamente noi stessi non abbiamo bisogno di fare alcun japa, ma se, come Kavyakantha, siamo così abituati a fare japa da non essere disposti a lasciarlo, Bhagavan ha suggerito che anche facendo japa dovremmo osservare attentivamente noi stessi, da cui sorge il suono-mantra, e da cui sorge anche il parāvāk o parola suprema ‘io’. Quindi il significato essenziale delle due risposte che Bhagavan ha dato a Kavyakantha è che sia che facciamo japa o meno, ciò a cui dovremmo cercare di dare attenzione è solo noi stessi e niente altro.

Un’altra idea utile in questo verso è espressa dalle parole ‘மானதத்தால் பண்ணும் செபத்தில்’ (māṉadattāl paṇṇum jepattil), che significano ‘nel [o durante il] japa fatto con la mente’. Nella sua seconda risposta Bhagavan ha detto ‘ஒரு மந்திரத்தை ஜபம் பண்ணினால்’ (oru mantirattai japam paṇṇiṉāl), che significa ‘se si fa japa di un mantra’, senza specificare se si stava riferendo a japa orale o japa mentale, ma in questo verso egli indica che è preferibile interpretare ciò che ha risposto a Kavyakantha come riferito a japa mentale piuttosto che a japa orale. Naturalmente possiamo anche applicare ciò che ha suggerito in quella risposta al fare japa orale, ma poiché nel verso 6 di Upadēśa Undiyār egli ha detto che il japa mentale è più benefico del japa orale, possiamo dedurre che ciò che ha risposto a Kavyakantha può essere applicato più efficacemente al fare japa mentale.

7. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 14: il riassunto di Bhagavan del verso 706 di Guru Vācaka Kōvai

Dopo aver composto il verso suddetto di Guru Vācaka Kōvai Muruganar l’ha mostrato a Bhagavan, come sempre faceva ogni volta che componeva un verso, in modo particolare un verso di Guru Vācaka Kōvai, e invece di suggerire qualche correzione o miglioramento, come qualche volta faceva, Bhagavan ha composto un altro verso in cui ha espresso la stessa idea in un modo più sintetico. Il suo verso è ora incluso in Guru Vācaka Kōvai come il verso B12 e in Upadēśa Taṉippākkaḷ come il verso 14:
ஞானத்து ணானாருந் தானமுறார் வாக்பரையார்
தானந்தேர் தல்சபத்திற் சால்பு.

ñāṉattu ṇāṉārun thāṉamuṟār vākparaiyār
thāṉandēr taljapattiṯ cālpu
.

பதச்சேதம்: ஞானத்துள் ‘நான்’ ஆரும் தானம் உறார் வாக் பரை ஆர் தானம் தேர்தல் சபத்தில் சால்பு.

Padacchēdam (separazione delle parole): ñāṉattuḷ ‘nāṉ’ ārum thāṉam uṟār vāk-parai ār thāṉam tērdal japattil sālbu.

அன்வயம்: ‘நான்’ ஆரும் தானம் ஞானத்துள் உறார் சபத்தில் வாக் பரை ஆர் தானம் தேர்தல் சால்பு.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ’ ārum thāṉam ñāṉattuḷ uṟār japattil vāk-parai ār thāṉam tērdal sālbu.

Traduzione: [Per] coloro che nella [pratica di] jñāna non possono dimorare come [sperimentare o realizzare intimamente] il luogo dove ‘io’ si diffonde, nella [pratica di] japa investigare il luogo dove si diffonde vāk-parai è appropriato.
La struttura grammaticale di questo verso è fondamentalmente la stessa di quella del verso di Guru Vācaka Kōvai che Bhagavan ha riassunto in esso, così il sintagma nominale ‘ஞானத்துள் நான் ஆரும் தானம் உறார்’ (ñāṉattuḷ nāṉ ārum thāṉam uṟār), che significa ‘coloro che in jñāna non possono dimorare come [sperimentare o realizzare intimamente] il luogo dove ‘io’ si diffonde’, è il soggetto del sintagma nominale che termina con il sostantivo verbale தேர்தல் (tērdal), che significa ‘investigare’ o ‘conoscere’ e che è a sua volta il soggetto della proposizione principale. Poiché in una frase Inglese non possiamo esprimente un sintagma nominale complesso come il soggetto di un sostantivo verbale, ho dovuto modificare in Inglese la struttura grammaticale di questa frase aggiungendo la parola ‘per’ in parentesi quadre davanti al primo sintagma nominale.

உறார் (uṟār) è un sostantivo personale formato dal negativo del verbo உறு (uṟu), che ha una ricca gamma di significati inclusi essere, esistere, accadere, avvenire, dimorare, risiedere, essere permanente, essere stabile, essere attaccato a, essere devoto a, amare, unirsi, associarsi con, toccare, contattare, muoversi verso, avvicinare, accedere, raggiungere, ottenere, percepire con il tocco, sperimentare, soffrire, pensare e riassumere. Il significato di உறு (uṟu) o உறார் (uṟār) è quindi determinato in ciascun caso dal contesto in cui l’uno o l’altro è usato. In questo contesto உறார் (uṟār) significa coloro che non sono, non saranno o non possono fermamente essere, dimorare come, sperimentare intimamente, muoversi verso, avvicinarsi, accedere a, raggiungere o ottenere, così ஞானத்துள் நான் ஆரும் தானம் உறார் (ñāṉattuḷ nāṉ ārum thāṉam uṟār) significa ‘coloro che in jñāna non possono fermamente essere [dimorare come, sperimentare intimamente, avvicinarsi a, raggiungere o ottenere] il luogo dove ‘io’ si diffonde’.

ஆர் (ār) è un verbo che significa diventare pieno, stendersi, diffondersi, essere soddisfatti, dimorare, stare, sperimentare o ottenere, e ஆரும் (ārum) è un participio relativo di esso, così நான் ஆரும் தானம் (nāṉ ārum thāṉam) significa il luogo dove (o in cui) ‘io’ si diffonde, dimora o è sperimentato. தானம் (thānam) è una forma Tamil della parola Sanscrita स्थान (sthāna), che significa letteralmente un luogo (in modo particolare un luogo sacro) o uno stato di essere fisso e stazionario (essendo affine a parole Inglesi come stare, stato e statico), ma che è usata qui in un senso metaforico per riferirsi a noi stessi, la dimora o lo stato statico che è riempito solo da ‘io’.

Nello stesso modo, வாக் பரை ஆர் தானம் (vāk-parai ār thāṉam) significa il luogo dove vāk-parai si diffonde, dimora o è sperimentato, perché ஆர் (ār) è usato qui per rappresentare il suo participio relativo, ஆரும் (ārum). வாக் பரை (vāk-parai) è una forma alternativa del termine பராவாக்கு (parāvākku), che Muruganar ha usato nel suo verso, così esso significa letteralmente la ‘parola suprema’ o ‘suprema parola’, e come abbiamo visto nella sezione precedente, questo è un termine che Bhagavan ha usato per descrivere ‘io’, il nome naturale di noi stessi, la suprema e sola realtà. Quindi, poiché வாக் பரை (vāk-parai) significa நான் (nāṉ) o ‘io’, e poiché in pratica investigare ‘io’ comporta solo sperimentare e dimorare come ‘io’ senza sorgere per dare attenzione a qualsiasi altra cosa, ‘வாக் பரை ஆர் தானம் தேர்தல்’ (vāk-parai ār thāṉam tērdal) o ‘investigare [o conoscere] il luogo dove vāk-parai si diffonde [dimora o è sperimentato]’ ha esattamente lo stesso significato di ‘நான் ஆரும் தானம் உறுதல்’ (nāṉ ārum thāṉam uṟudal) o ‘dimorare come [o sperimentare intimamente] il luogo dove ‘io’ si diffonde [dimora o è sperimentato]’.

Quindi la sola differenza tra la pratica che Bhagavan descrive in ciascuno di questi due sintagmi nominali sta nelle due parole ஞானத்துள் (ñāṉattuḷ) e சபத்தில் (japattil). ஞானத்துள் (ñāṉattuḷ) significa letteralmente ‘all’interno di jñāna’ o ‘dentro jñāna’, ma in questo contesto significa mente si pratica auto-investigazione (ātma-vicāra), che sola è il sentiero di jñāna, come insegnato da Bhagavan nel verso 29 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui dice ‘உள் ஆழ் மனத்தால் நான் என்று எங்கு உந்தும் என நாடுதலே ஞான நெறி ஆம்’ (uḷ āṙ maṉattāl nāṉ eṉḏṟu eṅgu undum eṉa nāḍudalē ñāṉa-neṟi ām), che significa ‘investigare per mezzo di una mente sprofondata all’interno dove essa sorge come io è il sentiero di jñāna’. Ugualmente சபத்தில் (japattil) significa ‘nel japa’ che in questo contesto significa mente si pratica japa, così ciò che Bhagavan intende in questo verso è semplicemente che per coloro che pensano di non poter praticare l’auto-investigazione in sé, è appropriato praticare l’auto-investigazione mentre si fa japa.

Cioè, per coloro che sono abituati a compiere qualche azione (karma) come japa nel nome della pratica spirituale, solo essere silenziosamente e attentivamente auto-consapevoli può sembrare troppo astratto e può quindi non sembrare affatto una pratica spirituale, così per tali persone può essere utile continuare a fare japa (o qualunque altra azione che essi usano fare) ma allo stesso tempo cercando di osservare attentivamente se stessi, la sorgente da cui il japa o altre azioni sorgono. Continuando a fare qualunque cosa essi usano fare, manterranno l’impressione di star facendo una pratica spirituale, mentre allo stesso tempo, cercando di essere attentivamente auto-consapevoli, inizieranno a fare una pratica spirituale che è realmente più benefica ed efficace di ogni altra azione che possano fare.

Dunque in questo verso Bhagavan indica chiaramente che la pratica che ha insegnato a Kavyakantha nella sua seconda risposta è essenzialmente la stessa pratica di auto-attentività che gli ha insegnato nella sua prima risposta. La sola ragione per cui ha espresso la sua seconda risposta è perché Kavyakantha gli aveva chiesto se non avesse potuto ottenere lo stesso stato facendo mantra-japa, così ciò che Bhagavan ha inteso in questa seconda risposta è che avrebbe potuto farlo purché avesse cercato di essere auto-attentivo facendo il suo japa.

In altre parole, benché sia nella sua seconda risposta che in questo verso Bhagavan cita il fare japa come un’opzione supplementare, egli rende chiaro che sia che si faccia japa o meno, ciò che è essenziale è solo che dovremmo cercare più possibile di essere auto-attentivi. Per illustrare come possiamo mettere questo in pratica senza essere distratti dal nostro fine principale, che è solo essere auto-attentivi, terminerò mettendolo in relazione alla mia esperienza.

Cioè, occasionalmente trovo utile mettere in pratica ciò che ha suggerito in questo verso nel modo seguente: qualche volta quando la mia mente è assorbita in altri pensieri e sembra non aver interesse o inclinazione a cercare di essere auto-attentiva, per ristabilire il mio interesse inizio mentalmente a ripetere il suo nome, ‘Ramana, Ramana, Ramana, Ramana’ (spesso in una delle tonalità in cui Sadhu Om era solito cantarlo, che implica l’allungamento della ‘a’ finale per renderlo una forma vocativa, un richiamo devoto a lui, proprio come egli stesso allungava la ‘a’ finale in ‘Arunachala’ alla fine di ciascun verso e del ritornello di Akṣaramaṇamālai), e mentre faccio questo cerco di essere auto-attentivo. Usare il suo nome (o quello di Arunachala) per questo scopo è particolarmente appropriato ed efficace, perche egli ci ha insegnato che di fatto è il nostro sé e quindi risplende eternamente all’interno di noi come ‘io’, così il suo nome non solo riaccende la nostra devozione a lui ma anche attira la nostra attenzione all’interno per sperimentare lui come è realmente. Quando riesco a ristabilire il mio interesse ad essere auto-attentivo con questo mezzo, la ripetizione del suo nome sprofonda naturalmente, perché più fortemente la nostra attenzione è attirata a noi stessi meno abbiamo bisogno o siamo in grado di dare attenzione a fare japa.

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