Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 27 gennaio 2016

Perché credo che ātma-vicāra sia il solo mezzo diretto con cui possiamo sradicare l’illusione di essere questo ego?

Michael James

6 Gennaio 2016
Why do I believe that ātma-vicāra is the only direct means by which we can eradicate the illusion that we are this ego?


In un commento al mio articolo precedente, Il pensiero di sé stessi distruggerà tutti gli altri pensieri, un amico anonimo mi ha chiesto ‘un paio di domande schiette e dirette’, così questo articolo è la mia risposta a queste domande e anche ad alcuni altri commenti a quell’articolo.
  1. Porre domande è il mezzo per sviluppare chiarezza di comprensione e profondità di convinzione
  2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 33: è ridicolo dire ‘io non conosco me stesso’ o ‘io ho conosciuto me stesso’
  3. Quale tipo di sat-saṅga è più efficace: fisico o mentale?
  4. Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai verso 44: per vedere noi stessi, dobbiamo voltarci indietro e guardare noi stessi
  5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 22: se non ci rivolgiamo all’interno per guardare noi stessi, come possiamo vedere ciò che siamo realmente?
  6. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: finché siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, sembriamo essere questo ego
  7. Distinguere ciò che è necessariamente vero da ciò che è contingentemente vero
  8. ātma-vicāra funzionerà per tutti?
  9. ātma-vicāra è un mezzo garantito per indebolire le nostre viṣaya-vāsanā ed infine annientare il nostro ego
  10. Ciò che Bhagavan ha detto riguardo i termini Inglesi ‘realizzare’ e ‘realizzazione’
  11. Come mi sono convinto della necessità imperativa di ātma-vicāra
  12. Come possiamo ridurre ed infine distruggere tutto il desiderio di lode
  13. Perché considero necessario respingere i concetti che deviano dai reali insegnamenti di Bhagavan?
  14. Come possiamo praticare ātma-vicāra nel pieno di altre attività
  15. Perché Bhagavan ci insegna che manōlaya non è uno stato spiritualmente benefico?

1. Porre domande è il mezzo per sviluppare chiarezza di comprensione e profondità di convinzione

Prima di porre le sue domande, questo amico anonimo (al quale da qui in avanti mi riferirò come Maya, poiché questo è lo pseudonimo che ha usato in molti dei suoi ultimi commenti, e che presumerò essere un maschio, poiché per qualche ragione la maggior parte degli amici che scrivono commenti su questo blog accade che lo siano) le ha precedute con alcune osservazioni introduttive, una delle quali era che egli ha cercato di praticare auto-indagine da qualche anno, e un’altra era assicurarmi che la sua intenzione nel porre le sue domande non era quella di essere presuntuoso o irrispettoso, a cui ha aggiunto: ‘Non essere d’accordo o porre domande a qualcuno non è mancanza di rispetto. Se fosse così la persona che avrebbe maggiormente mancato di rispetto a Ramakrisna sarebbe stato Swami Vivekananda. In anni avanzati Vivekananda disse che nessuno pose domande a Ramakrisna come lui aveva fatto e per ognuna delle sue domande, Ramakrisna fece molto più che rispondergli’.

Poiché non mi aspetto o merito che mi sia mostrato qualche rispetto particolare (tranne che il normale livello di rispetto che credo dovremmo mostrare a tutti, non importa quanto possiamo essere in disaccordo con loro o quanto possiamo considerare sbagliato il loro comportamento), generalmente non considero presuntuosa o irrispettosa nessuna domanda che mi viene posta. Purché esse siamo poste con un’intenzione sincera di imparare o almeno di considerare imparzialmente punti di vista alternativi, sono felice di cercare di rispondere ad ogni domanda relativa agli insegnamenti di Bhagavan che chiunque vuole chiedermi.

Durante gli anni trascorsi in compagnia di Sadhu Om, ero solito porgli incessantemente domande riguardo ogni aspetto degli insegnamenti di Bhagavan per comprendere più chiaramente ciò che egli aveva inteso e perché aveva detto così. Sadhu Om qualche volta mi ha detto che nessuno dei suoi amici Indiani gli avrebbe posto domande in quel modo, e che sebbene erano troppo educati per dirlo, alcuni di essi sentivano che discutere costantemente gli insegnamenti di Bhagavan come facevo io era presuntuoso e irrispettoso, perché erano stati educati in una cultura in cui gli insegnamenti di un saggio come Bhagavan sono generalmente accettati con fede e senza discutere, ma che egli era felice che io ponevo così tante domande, perché questo è il modo per fare manana (riflessione profonda sugli insegnamenti del guru) e quindi ottenere chiarezza di comprensione e profondità di convinzione.

Naturalmente per ottenere chiarezza di comprensione e profondità di convinzione abbiamo bisogno di porre domande non solo esteriormente ad altri ma anche interiormente a noi stessi (che è dove la vera manana deve continuare costantemente), e soprattutto abbiamo bisogno di cercare più possibile di praticare ciò che Bhagavan ci ha insegnato, perché un’abbondante chiarezza è sempre disponibile all’interno di noi come la nostra pura auto-consapevolezza, così essendo auto-attentivi stiamo assorbendo direttamente la chiarezza dalla sua sorgente originale. Tuttavia, finché riusciamo a fonderci e ad unirci completamente nell’assoluta chiarezza della pura auto-consapevolezza, possiamo continuare a nutrire il nostro sviluppo di chiarezza e di convinzione interiore considerando costantemente e riflettendo profondamente sui suoi insegnamenti con un’attitudine mentale indagatrice. A livello di manana la nostra indagine deve prendere la forma di profonda discussione del significato, dello scopo e delle implicazioni dei suoi insegnamenti, mentre a livello di nididhyāsana (contemplazione) deve prendere la forma di acuta auto-investigazione (ātma-vicāra), che è la pratica di essere vigilantemente auto-attentivi.

2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 33: è ridicolo dire ‘io non conosco me stesso’ o ‘io ho conosciuto me stesso’

Un’altra osservazione introduttiva con cui Maya ha preceduto la sua domanda è stata: ‘Non so se tu hai realizzato te stesso. Se lo hai fatto, […] le mie domande sono un punto discutibile’. Comprendo perché ha fatto questa osservazione nel contesto delle domande che mi ha posto successivamente, ma questo sembra implicare che solo coloro che hanno ‘realizzato’ o sperimentato ciò che sono realmente sono qualificati per fare qualche affermazione riguardo il mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente. Se questo fosse il caso, sarebbe allora necessario chiederci come possiamo conoscere se qualche altra persona ha realmente sperimentato ciò che è realmente.

Poiché non ci sono segni esteriori con cui possiamo conoscere con certezza cos’è realmente l’esperienza interiore di qualche altra persona, dobbiamo presumibilmente dipendere dalla descrizione che egli può dare della sua esperienza, ma secondo Bhagavan se qualche persona afferma di aver sperimentato ciò che realmente è, questo è ‘motivo di ridicolo’, come dice nel verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
என்னை யறியேனா னென்னை யறிந்தேனா
னென்ன னகைப்புக் கிடனாகு — மென்னை
தனைவிடய மாக்கவிரு தானுண்டோ வொன்றா
யனைவரனு பூதியுண்மை யால்.

eṉṉai yaṟiyēṉā ṉeṉṉai yaṟindēṉā
ṉeṉṉa ṉahaippuk kiḍaṉāhu — meṉṉai
taṉaiviḍaya mākkaviru tāṉuṇḍō voṉḏṟā
yaṉaivaraṉu bhūtiyuṇmai yāl
.

பதச்சேதம்: ‘என்னை அறியேன் நான்’, ‘என்னை அறிந்தேன் நான்’ என்னல் நகைப்புக்கு இடன் ஆகும். என்னை? தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? ஒன்று ஆய் அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஆல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ‘eṉṉai aṟiyēṉ nāṉ’, ‘eṉṉai aṟindēṉ nāṉ’ eṉṉal nahaippukku iḍaṉ āhum. eṉṉai? taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? oṉḏṟu āy aṉaivar aṉubhūti uṇmai āl.

அன்வயம்: ‘நான் என்னை அறியேன்’, ‘நான் என்னை அறிந்தேன்’ என்னல் நகைப்புக்கு இடன் ஆகும். என்னை? தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஒன்றாய்; ஆல்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ‘nāṉ eṉṉai aṟiyēṉ’, ‘nāṉ eṉṉai aṟindēṉ’ eṉṉal nahaippukku iḍaṉ āhum. eṉṉai? taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? aṉaivar aṉubhūti uṇmai oṉḏṟu āy; āl.

Traduzione: Dire ‘io non conosco me stesso’ [o] ‘io ho conosciuto me stesso’ è motivo di ridicolo [o derisione]. Perché? Per rendere se stessi un oggetto conosciuto, ci sono forse due sé? Perché essere uno è la verità dell’esperienza di tutti.
Ciò che Bhagavan intende chiaramente in questo verso è che se chiunque dice ‘io ho conosciuto me stesso’ o ‘io ho realizzato me stesso’, sta mostrando la propria auto-ignoranza non meno di altri che dicono ‘io non conosco me stesso’. Infatti, chiunque afferma ‘io ho realizzato me stesso’ è senza dubbio più auto-illuso di coloro che hanno l’umiltà di ammettere ‘io non ho realizzato me stesso’, perché ciò che può fare un’affermazione come ‘io ho realizzato me stesso’ è solo un ego e non ciò che siamo realmente (il nostro sé reale), poiché nella visione di ciò che siamo realmente quello che esiste è solo noi stessi.

Il motivo per cui è ridicolo dire ‘io non conosco me stesso’ o ‘io ho conosciuto me stesso’ è spiegato da Bhagavan nella seconda metà di questo verso. Poiché noi siamo solo uno, non possiamo mai diventare un விடயம் (viḍayam) — un viṣaya o oggetto – conosciuto da noi stessi, così ciò che è chiamata ātma-jñāna (auto-conoscenza o ‘auto-realizzazione’) è semplicemente auto-consapevolezza, e dunque poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi, sempre conosciamo noi stessi. Quindi l’auto-conoscenza non è qualcosa che possiamo ottenere in modo nuovo o ottenere solo nel futuro, ma è ciò che sperimentiamo sempre.

Tuttavia, anche se sempre sperimentiamo auto-consapevolezza o auto-conoscenza (ātma-jñāna), ora siamo consapevoli di noi stessi come un corpo e di conseguenza come una persona, e questa consapevolezza di noi stessi come un corpo è ciò che è chiamato ‘ego’. Poiché questo ego è un fenomeno temporaneo che sperimentiamo solo nella veglia e nel sogno ma non nel sonno, non è ciò che siamo realmente, così finché siamo consapevoli di noi stessi come questo ego non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente abbiamo bisogno di sradicare l’illusione di essere questo ego, e poiché questo ego è una confusa consapevolezza di noi stessi (una consapevolezza di noi stessi confusa con un corpo), possiamo sradicarla solo essendo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, in completo isolamento anche dalla minima consapevolezza di un corpo o di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi.

Quindi quando conosciamo, sperimentiamo o ‘realizziamo’ noi stessi come siamo realmente, non siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi (come Bhagavan dice nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu), così non ci sarà nessun ‘io’ a dire ‘io ho conosciuto me stesso’ o ‘io ho realizzato me stesso’, né ci sarà qualche altra persona a cui potremmo dire questo. Quindi se qualcuno afferma ‘io ho realizzato me stesso’, starà dimostrando la propria auto-ignoranza, perché nella visione del nostro sé reale (ātma-svarūpa), che solo sperimenta noi stessi come siamo realmente, non è mai esistito e mai potrebbe esistere niente altro che pura auto-consapevolezza o auto-conoscenza (ātma-jñāna).

L’ātma-jñāni non è altro che la stessa ātma-jñāna, ciò che solo esiste realmente, così nella visione dell’ātma-jñāni non c’è una cosa come ajñāna o auto-ignoranza, né c’è qualcun altro che possa essere auto-ignorante. Questo è il motivo per cui quando una volta un devoto ha lodato Bhagavan dicendo che la sua realizzazione era ineguagliata nella storia spirituale del mondo, egli ha risposto: ‘Ciò che è reale in me è reale in te e in chiunque altro. Dov’è lo spazio per qualsiasi differenza o distinzione?’

Quindi, poiché l’ātma-jñāni non dirà ‘io ho realizzato me stesso’, come possiamo riconoscere chi è un ātma-jñāni? Finché non siamo in grado di riconoscere l’ātma-jñāna che sempre risplende dentro di noi come il nostro sé, non saremo in grado di riconoscere ātma-jñāna in chiunque altro, così non c’è un mezzo infallibile con cui possiamo riconoscere chi è o non è un ātma-jñāni. Questo è spiegato chiaramente da Sadhu Om nel suo poema யார் ஞானி? (yār jñāni?: Chi è un Jñāni?), di cui ho fornito una traduzione in uno dei miei primi articoli, C’è qualcosa come una persona ‘auto-realizzata’?(nel quale ho anche citato il verso 28 di Upadēśa Undiyār, i versi 13, 26, 31 e 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu, e i versi 31 e 38 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham).

Quando devoti chiedevano a Bhagavan come si può riconoscere chi è un ātma-jñāni, qualche volta avrebbe risposto: ‘C’è solo un ātma-jñāni, e quello sei tu’ (alludendo al mahāvākya o grande affermazione ‘tat tvam asi’ che significa ‘quello sei tu’). Egli avrebbe anche spiegato che se non si può riconoscere sé stessi come l’ātma-jñāni, non si può riconoscere qualcun altro come un ātma-jñāni, e che quando si riconosce sé stessi come l’ātma-jñāni, si scoprirà che non ci sono altri, perché ciò che esiste realmente è solo noi stessi.

Questo allora significa che finché sembriamo essere auto-ignoranti non c’è modo in cui possiamo riconoscere chi è un ātma-jñāni? Non siamo quindi giustificati a credere che Bhagavan è un ātma-jñāni? Ovviamente non c’è un mezzo infallibile con cui possiamo riconoscere chi è un ātma-jñāni, ma c’è un mezzo con cui possiamo dedurre che qualcuno come Bhagavan è un ātma-jñāni, ed è dai suoi insegnamenti. Quando leggiamo gli insegnamenti di Bhagavan, molti di noi si convincono molto velocemente che egli ha sperimentato tutto ciò che ha insegnato e che quindi era un ātma-jñāni, e quando studiamo i suoi insegnamenti più in profondità e cerchiamo di praticarli la nostra convinzione diviene progressivamente più forte, non lasciando in noi alcun dubbio che almeno lui è un ātma-jñāni e quindi un guru perfettamente affidabile, del quale possiamo seguire gli insegnamenti con completa fiducia.

Se egli non avesse dato alcun insegnamento, orale o scritto, la maggior parte di noi non avrebbe mai sentito parlare di lui, e anche se avessimo sentito parlare di lui, quello che sapremmo sarebbe che egli era una persona mite e gentile che visse una vita pia. Da quello non potremmo dedurre con certezza che egli era un ātma-jñāni, perché essere mite e gentile e vivere una vita pia non significa necessariamente essere un ātma-jñāni, poiché anche un ajñāni (una persona ignorante) può essere mite e gentile e vivere una vita pia. Quindi è solo per i suoi insegnamenti che siamo in grado di essere ragionevolmente sicuri che Bhagavan è un ātma-jñāni.

Tuttavia Maya non stava discutendo se Bhagavan è un ātma-jñāni o no, ma se io lo sono o no. Anche se posso essere in grado di scrivere riguardo i suoi insegnamenti e spiegarli abbastanza chiaramente (sia che gli altri siano d’accordo con le mie spiegazioni o meno), questo ovviamente non significa che io sia un ātma-jñāni, perché ciò che spiego è basato ampiamente su ciò che ho imparato studiando i suoi insegnamenti, riflettendo su di essi e cercando di praticarli.

Ogni volta che qualcuno mi chiede se sono auto-realizzato, o dice di credere che sono auto-realizzato, non esito a rispondere che io sono solo un ordinario aspirante che cerca di seguire gli insegnamenti di Bhagavan per quanto può, e che solo perché sono in quale misura in grado di spiegare i suoi insegnamenti, nessuno dovrebbe dedurre che nella mia pratica sono in qualche modo più avanzato di chiunque altro che nello stesso modo sta cercando di seguire i suoi insegnamenti. Ammetto anche che ancora sembro avere viṣaya-vāsanā molto forti (inclinazioni o desideri a sperimentare cose diverse da me stesso), così non ho ancora amore o bhakti sufficiente per aggrapparmi fermamente all’essere attentivamente auto-consapevole quanto dovrei, e dunque come molti altri aspiranti sto lottando per mettere in pratica effettivamente tutto ciò che ho imparato dagli insegnamenti di Bhagavan. Questo non significa che non stia tentando (sebbene non abbastanza tenacemente), ma solo che non sono ancora riuscito ad arrendere interamente me stesso, e non ho idea di quando sorgerà in me l’amore sufficiente per farlo.

Ammettere che – dalla prospettiva di me stesso come questo ego che ora sembro essere – non ho ancora sperimentato ciò che sono realmente è senza dubbio ‘நகைப்புக்கு இடன்’ (nahaippukku iḍaṉ) o un ‘motivo di ridicolo [o derisione]’, come Bhagavan dice nel verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu (che ho citato sopra all’inizio di questa sezione), ma di fronte alla scelta tra l’essere onestamente ridicolo ammettendo ‘io non conosco me stesso’ o disonestamente ridicolo affermando io ho conosciuto me stesso’, preferisco essere ridicolizzato per essere onesto. Sono sufficientemente auto-illuso e già disonesto, perché come un ego sono un impostore auto-illuso (un impostore che pretende di essere ciò che non sono), così non voglio essere ancor più auto-illuso e disonesto affermando ‘io sono auto-realizzato’.

Se ammettere la mia auto-ignoranza mi squalifica dal fare qualsiasi affermazione riguardo l’efficacia unica del sentiero di auto-investigazione (ātma-vicāra) che Bhagavan ci ha insegnato, come Maya sembra pensare, così sia. Tuttavia, come spiegherò in maggiore dettaglio nella risposta alla sua prima domanda (nella quarta, quinta, sesta e settima sezione), credo di essere giustificato nell’affermare che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo sradicare l’illusione di essere questo ego, non solo perché questo è ciò che Bhagavan ci ha insegnato, ma anche perché egli ci ha spiegato in termini chiari, semplici e impeccabilmente logici perché è così. Quindi a meno che qualcuno di noi possa trovare da ridire alla sua logica, cosa che certamente io non posso fare, non sembra esserci alcuna alternativa se non accettare ciò che egli ci ha insegnato al riguardo.

3. Quale tipo di sat-saṅga è più efficace: fisico o mentale?

Poiché ho discusso il soggetto di come si può riconoscere chi è un ātma-jñāni, in questo contesto mi piacerebbe citare un altro soggetto connesso che è stato discusso nei commenti al mio articolo precedente, vale a dire il potere della presenza di un ātma-jñāni (che è generalmente inteso nel significato della sua presenza fisica piuttosto che la sua eterna presenza all’interno di noi come il nostro sé reale) e più generalmente del sat-saṅga. Molti commenti si riferivano direttamente o indirettamente all’efficacia di essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni (come può essere capito cercando in quell’articolo la parola ‘presenza’), e in diversi commenti era implicito che essere ad una tale presenza è un mezzo più efficace per annientare il proprio ego che praticare auto-investigazione (ātma-vicāra).

In risposta a un commento del genere un amico di nome Sanjay ha scritto un commento in cui ha detto che una volta ha chiesto a David Godman, ‘Tu scrivi che per annientare il proprio ego è necessaria la presenza fisica di un jnani, quindi conosci un jnani alla cui presenta mi posso recare?’, a questa domanda David ha risposto, ‘Sfortunatamente non conosco alcun jnani che sia disposto ad incontrare persone’. Se la presenza fisica di un jñāni è necessaria per annientare il proprio ego, o se è almeno un aiuto potente, ci si dovrebbe aspettare che ogni vero jñāni – essendo privo di ego e dunque un’incarnazione di amore infinito e incondizionato – fosse disposto a incontrare chiunque in ogni momento, come Bhagavan fu sempre, così sembra strano che qualche persona che non è disposta ad incontrare persone sia nondimeno considerata un ātma-jñāni.

Sanjay ha terminato il suo commento dicendo, ‘Inoltre come fece Bhagavan ad ottenere l’annientamento del suo ego? Sicuramente non era alla presenza fisica del suo sadguru o della collina di Arunachala quando egli ha ottenuto atma-jnana. Inoltre Bhagavan non ha mai detto che la presenza fisica di un jnani è una necessità per ottenere il nostro fine’, a cui l’amico anonimo al quale egli aveva risposto ha scritto un altro commento dicendo che Bhagavan è una rarità, così non dovremmo generalizzare il suo caso. Ho quindi scritto il seguente commento in risposta a entrambi i commenti scritti da questo amico anonimo:
Anonimo, il sat-saṅga è senza dubbio necessario, ma può prendere molte forme diverse, che non sono tutte ugualmente efficaci. Come Bhagavan indica nel verso 4 di Upadēśa Undiyār, ciò che è fatto dalla mente è più efficace di ciò che è fatto dal corpo, così possiamo dedurre da questo (e da molti dei suoi altri insegnamenti) che ogni forma di sat-saṅga mentale è più efficace del sat-saṅga fisico.

Nel caso di Bhagavan, prima della sua esperienza di morte a Madurai, egli non aveva mai avuto sat-saṅga con Arunachala in senso fisico, ma lo ebbe nel senso mentale, e come ha indicato nel verso 1 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam, quel sat-saṅga mentale con Arunachala nella sua giovinezza ebbe su di lui un’influenza profonda.

Soltanto pensare ad Arunachala o a Bhagavan è una forma molto potente di sat-saṅga mentale, come lo è leggere e pensare profondamente riguardo i suoi insegnamenti, ma poiché sat-svarūpa (la ‘forma propria’ di sat, che è ciò che esiste realmente) è solo ātma-svarūpa (come Bhagavan dichiara esplicitamente nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār?), la più potente forma di sat-saṅga è solo ātma-vicāra, che è auto-attentività o ‘pensiero di se stessi’.

Quindi l’idea che il sat-saṅga è più potente di ātma-vicāra sembra molto dubbia, e non sembra essere in accordo con gli insegnamenti di Bhagavan. Come egli dichiara inequivocabilmente nel verso 17 di Upadēśa Undiyār, ātma-vicāra è ‘il sentiero diretto per tutti’, che implica che è la forma più diretta e potente di sat-saṅga.

Poiché Bhagavan ha insegnato questo sentiero di ātma-vicāra ‘per tutti’ coloro che cercano di sradicare il proprio ego, non dovremmo essere confusi o tratti in inganno da chiunque suggerisce che qualche forma di sat-saṅga è più potente o efficace di ātma-vicāra. Se prendiamo lui come nostro guru o cerchiamo di seguire questo sentiero che egli ci ha mostrato, non dovremmo scoraggiarci pensando che non abbiamo avuto il suo sat-saṅga o che abbiamo bisogno di cercare il sat-saṅga da qualche parte. Pensare a lui, ai suoi insegnamenti e al nostro sé, che come egli ci ha insegnato è il nostro supremo rifugio, è il vero sat-saṅga ed è più che sufficiente alle nostre necessità.
Sanjay ha risposto a questo in un altro commento, a cui ho risposto:
Sanjay, riguardo al commento in cui scrivi, ‘Molti di noi sono attratti dall’andare regolarmente alla presenza fisica di Arunachala, ma dopo aver letto Michael si può dedurre che soltanto pensare ad Arunachala potrebbe essere più efficace di andare alla sua presenza fisica’, la visione di Bhagavan dell’efficacia relativa del sat-saṅga mentale e del sat-saṅga fisico è illustrata dal caso seguente:

Una devota che viveva a Tiruvannamalai e faceva visita a Bhagavan ogni giorno, una volta non fu in grado di venire da lui per alcuni giorni perché i suoi genitori erano venuti a stare da lei, così doveva trascorrere del tempo a casa a cucinare per loro e ad attendere alle loro necessità. Dopo che essi partirono lei venne da Bhagavan e si lamentò del fatto che non era stata in grado di vederlo per diversi giorni, al che egli rispose: ‘Che tu sia stata a casa con i tuoi genitori pensando a me, è meglio di come sarebbe stato se tu fossi stata qui pensando a loro’.

Da ciò possiamo dedurre che è meglio essere lontani da Tiruvannamalai pensando ad Arunachala e a Bhagavan che essere a Tiruvannamalai pensando ad altre faccende mondane. Tuttavia, questo non significa che trascorrere del tempo a Tiruvannamalai non è benefico, ma che siamo in grado di essere lì o meno, ciò che è più benefico è pensare costantemente ad Arunachala, a Bhagavan ed ai suoi insegnamenti.

Il sat-saṅga fisico è certamente benefico, ma non è un sostituto adeguato al sat-saṅga mentale, e mentre la disponibilità del sat-saṅga fisico dipende dal proprio prārabdha [destino o fato] e dunque dalla volontà di Bhagavan, il sat-saṅga mentale è qualcosa di cui siamo sempre liberi di servirci in ogni momento, così la scelta è nostra. Come Bhagavan era solito dire, siamo sempre liberi di attendere a noi stessi o alle esperienze che vengono secondo il prārabdha, e il miglior uso che possiamo fare di questa libertà è cercare il più possibile di attendere a noi stessi.

Questa auto-attentività è la forma più benefica di sat-saṅga, ma questo non significa che altre forme di sat-saṅga non siano anche benefiche, sebbene in misura minore, così ogni volta che abbiamo l’opportunità di passare del tempo a Tiruvannamalai è buono dare a noi stessi questo beneficio, ma mentre siamo lì dovremmo cercare di passare il nostro tempo pensando utilmente ad Arunachala, a Bhagavan ed ai suoi insegnamenti e cercando di essere auto-attentivi piuttosto che pensare a qualsiasi altra cosa.
Se qualche devoto di Bhagavan sente la necessità di una forma fisica di sat-saṅga, egli ha chiaramente indicato che questo sat-saṅga ci è sempre disponibile nella presenza fisica di Arunachala, e per quelli fra noi che non sono in grado di essere a quella presenza, egli ha anche indicato (attraverso molti dei versi di Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam e altrove) che pensare ad Arunachala è un aiuto al nostro sforzo di annientare il nostro ego anche più potente di essere alla sua presenza fisica. Poiché egli si è riferito esplicitamente ad Arunachala come la forma del suo guru (nel verso 19 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai), e poiché (nel verso 10 di Śrī Aruṇācala Padikam) ha spiegato come essa opera nella mente di coloro che hanno pensato ad essa anche solo una volta attraendoli all’interno per guardare verso se stessi (chi esiste all’interno di ciascuno di noi come il nostro sé reale), quindi consumando il loro ego come un’offerta sacrificale, se ci fidiamo delle sue parole, comprendendole come un’espressione della sua esperienza, abbiamo bisogno di non dubitare della tremenda potenza di Arunachala, e non dovremmo immaginare che essere alla presenza fisica di Arunachala sia in qualche modo meno efficace di essere alla presenza fisica dello stesso Bhagavan.

Parlando del potere unico di Arunachala di rivolgere la nostra mente all’interno e quindi di annientare il nostro ego, Bhagavan spesso citava uno dei versi di Tirujnanasambandhar in cui egli loda Arunachala come ‘ஞானத் திரளாய் நின்ற பெருமான்’ (ñāṉa-t-tiraḷāy niṉḏṟa perumāṉ), che significa ‘il grande Signore che sta come una densa massa di jñāna’, così se sentiamo la necessità di essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni, non abbiamo bisogno di cercare nient'altro che Arunachala, che è jñāna-svarūpa (la ‘propria forma’ o incarnazione di jñāna). Se invece crediamo che essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni in forma umana sia in qualche modo più efficace di essere alla presenza fisica di Arunachala, dovremmo affrontare il problema di non avere un mezzo affidabile con cui possiamo riconoscere chi è realmente un ātma-jñāni.

Ci sono molte persone che affermano di essere un ātma-jñāni, inclusi diversi che affermano anche di essere discepoli di Bhagavan, ma secondo ciò che Bhagavan ci ha insegnato nel verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu (che ho citato e discusso nella sezione precedente) affermare di essere un ātma-jñāni è ‘நகைப்புக்கு இடன்’ (nahaippukku iḍaṉ), un ‘motivo di ridicolo [o derisione]’. Come dice un proverbio Tamil, ‘கண்டவர் விண்டில்லை; விண்டவர் கண்டில்லை’ (kaṇḍavar viṇḍillai; viṇḍavar kaṇḍillai), che significa ‘quelli che hanno visto non dicono [o aprono la bocca]; quello che dicono [o aprono la bocca] non hanno visto’. Quindi dovremmo essere scettici riguardo qualcuno che afferma ‘io ho conosciuto [o realizzato] me stesso’.

Come possiamo allora renderci conto esattamente di chi è un ātma-jñāni? Se non dovremmo fidarci di chiunque afferma di essere un ātma-jñāni, come possiamo fidarci di qualcuno che afferma che qualcun altro è un ātma-jñāni? Nella visione dell’ātma-jñāni non c’è una cosa come ajñāna (auto-ignoranza) e quindi non ci sono ajñānis (persone che sono auto-ignoranti), così un ātma-jñāni non direbbe, ‘Questa persona è un ātma-jñāni, e quelle persone sono ajñānis’. Quindi chiunque afferma che qualcun altro è un ātma-jñāni è presumibilmente un ajñāni, perché solo gli ajñāni vedono qualche differenza tra un ajñāni e un ātma-jñāni. Dunque, poiché nessun altro ajñāni può avere un mezzo migliore di quello che abbiamo per riconoscere chi è realmente un ātma-jñāni, ovviamente non possiamo fidarci di chiunque affermi che qualcun altro è un ātma-jñāni.

Quindi se iniziassimo a speculare su chi sia o non sia un ātma-jñāni, entreremmo in un territorio molto incerto, e dunque saremmo portati a illudere o ingannare noi stessi. Anche se essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni può essere molto benefico, è molto raro trovare un ātma-jñāni come Bhagavan del quale c’è poco spazio per dubitarne l’ ātma-jñāna. Come ho discusso nella sezione precedente, una sicura qualità unica ed originale dei suoi insegnamenti è per noi una ragione convincente per credere che egli ha sperimentato l’essenza di tutto ciò che ci ha insegnato e che quindi è un ātma-jñāni, ma è molto raro trovare un ātma-jñāni i cui insegnamenti hanno una tale qualità ed al cui ātma-jñāna abbiamo ragione di credere con tale convinzione.

Ci sono senza dubbio molti altri che forse possono essere ātma-jñāni, ma non abbiamo mezzi per sapere con certezza che lo siano realmente. Quindi anche se crediamo nell’efficacia di essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni, qualsiasi convinzione possiamo avere che una certa persona sia un ātma-jñāni non sarà generalmente molto affidabile e quindi potrebbe essere inesatta. Dunque, se vogliamo essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni, l’opzione più sicura e certa sarebbe passare del tempo alla presenza fisica di Arunachala e al santuario dove la forma umana di Bhagavan è seppellita.

Tuttavia, come ho discusso sopra, essere alla presenza fisica di un ātma-jñāni come Arunachala o Bhagavan non è la sola forma di sat-saṅga che ci è disponibile. सत् (sat) significa essere, esistere, esistenza, ciò che esiste, ciò che è reale, realtà o verità, e संग (saṁga) o सङ्ग (saṅga) significa attaccarsi a, unirsi, entrare in contatto, contatto, associazione o unione, così सत्संग (sat-saṁga) o सत्सङ्ग (sat-saṅga) significa attaccarsi a o entrare in contatto con ciò che esiste realmente o ciò che è reale. Poiché ciò che esiste realmente è solo il nostro sé (ātma-svarūpa), come Bhagavan dice nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār? (‘யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே’ (yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē): ‘ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa’), la forma migliore e più diretta di sat-saṅga è solo ātma-saṅga, che significa attaccarsi a sé stessi o essere tenacemente auto-attentivi.

Tuttavia, poiché un ātma-jñāni come Bhagavan è una persona che si è unita ed è divenuta uno con ātma-svarūpa, cessando quindi di essere una persona (anche se ancora sembrando una persona nella visione auto-ignorante di un ajñāni), egli o ella non è realmente la forma umana che sembra essere ma è solo lo stesso sat, e dunque la sua forma umana è un’incarnazione di sat. Quindi associarsi o avere in qualsiasi modo un contatto con un tale ātma-jñāni è anche una forma indiretta di sat-saṅga. Nello stesso modo, poiché Arunachala è un’incarnazione di sat nella forma di una collina, associarsi o avere in qualsiasi modo un contatto con Arunachala è un’altra forma di sat-saṅga.

L'associazione o contatto con Arunachala o con un ātma-jñāni in forma umana come Bhagavan può essere mentale o fisico. Quindi essere alla presenza fisica di Arunachala o di un ātma-jñāni è una forma fisica di sat-saṅga, mentre pensare ad essi o agli insegnamenti che essi ci hanno dato è una forma mentale di sat-saṅga. Di queste due forme di sat-saṅga qual'è la più efficace? Come Bhagavan ha indicato nel verso 4 di Upadēśa Undiyār, e come ha indicato ancora più direttamente nella sua risposta alla signora che si lamentava per non essere stata in grado di vederlo per diversi giorni, il sat-saṅga mentale è più efficace di quello fisico, perché possiamo essere alla presenza fisica di Arunachala o di un ātma-jñāni ma la nostra mente può soffermarsi su altre questioni, così come egli ha detto alla signora, è meglio essere lontani dalla sua presenza fisica ma pensare a lui che essere alla sua presenza fisica ma pensare ad altre cose non relative a lui o a ciò che ci ha insegnato.

Alcune persone immaginano che sia necessario essere alla presenza fisica di un ‘guru vivente’ o un ātma-jñāni in forma umana, perché solo allora egli o ella può trasmettere la sua grazia per mezzo del suo silenzio, del suo sguardo o del suo tocco, ma questa è una convinzione errata, perché la grazia, il potere e il silenzio di un ātma-jñāni non sono in alcun modo limitati dalla vita del suo corpo o dalla sua presenza fisica, dal suo sguardo o dal suo tocco, poiché l’ātma-jñāni non è proprio il corpo che temporaneamente sembra essere ma l’unica realtà eterna ed infinita, che sempre esiste e risplende all’interno di noi come il nostro sé reale. Quindi non possiamo mai essere lontani dalla presenza dell’ātma-jñāni, e la sua grazia, il suo potere e il suo silenzio mai sono per noi indisponibili. Quello che sembra separarci dall’ātma-jñāni, che è il nostro sé o ātma-svarūpa, è solo la nostra attenzione mentale esteriorizzata, e la nostra mente può essere (e quasi certamente lo sarà) esteriorizzata alla presenza fisica di un ātma-jñāni in forma umana, così per giovare pienamente del silenzio e della grazia dell’ātma-jñāni abbiamo bisogno di rivolgere la nostra attenzione all’interno, solo verso noi stessi, perché solo meditando su noi stessi stiamo meditando sulla vera forma dell’ātma-jñāni e ci stiamo immergendo nel reale sguardo della sua grazia silente.

Se mai o ogni volta che sarà per noi di beneficio essere alla presenza fisica di Arunachala o di un ātma-jñāni Bhagavan provvederà a quella necessità nel nostro destino (prārabdha), che egli ha assegnato secondo ciò che sarà più benefico per il nostro sviluppo spirituale. Nella nota che egli ha scritto a sua madre nel Dicembre del 1898 ha detto:
அவரவர் பிராரப்தப் பிரகாரம் அதற்கானவன் ஆங்காங்கிருந் தாட்டுவிப்பன். என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது; நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது. இதுவே திண்ணம். ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று.

avar-avar prārabdha-p prakāram adaṟkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ. eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. iduvē tiṇṇam. āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu.

Secondo il loro-loro prārabdha, egli che è per quell’essere lì-lì, lo farà agire [cioè, secondo il destino (prārabdha) di ciascuna persona, egli che è per quello (vale a dire Dio o guru, che ordina il loro destino) essendo nel cuore di ciascuno di essi li farà agire]. Ciò che non deve succedere non succederà quale che sia lo sforzo che [uno] compie [per farlo succedere]; ciò che deve succedere non si fermerà quale che sia l’ostacolo [o resistenza] che [uno] compie [per impedire che succeda]. Questo è certo davvero. Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono.
Poiché non possiamo alterare ciò che Bhagavan ci ha destinato di sperimentare in questa vita, non possiamo scegliere se o per quanto avremo l’opportunità di essere alla presenza fisica di Arunachala o di un ātma-jñāni, così come regola generale non dovremmo preoccuparci di tali questioni, ma dovremmo invece focalizzare il nostro interesse e l’attenzione su cercare di essere auto-attentivi (che è ciò che egli intendeva in questa nota con ‘மௌனமா யிருக்கை’ (mauṉamāy irukkai): ‘essere silenziosamente’ o ‘essere silenti’) o almeno pensare a lui ed ai suoi insegnamenti il più possibile. Se passiamo più tempo possibile a cercare di essere auto-attentivi o a pensare a lui ed ai suoi insegnamenti, avremo tutto il sat-saṅga di cui abbiamo bisogno, così non abbiamo bisogno di sprecare la nostra energia e l’attenzione cercando il sat-saṅga in qualche posto o speculando (senza garanzia di giudicare correttamente) riguardo a chi sia o no un ātma-jñāni alla cui presenza fisica potremmo avere il beneficio del sat-saṅga fisico.

4. Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai verso 44: per vedere noi stessi, dobbiamo voltarci indietro e guardare noi stessi

Dopo questa digressione inizierò a rispondere alle ‘domande schiette e dirette’ che mi sono state poste da Maya (l’amico anonimo ai cui commenti mi sono riferito all’inizio di questo articolo). La sua prima domanda era: ‘Tu affermi inequivocabilmente che l’auto indagine è il sentiero più diretto e più efficace superiore ad altri sentieri. Ma se tu non hai realizzato te stesso anche dopo così tante decadi di auto indagine, come puoi fare questa affermazione?’

L’affermazione che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è il sentiero diretto per tutti è stata fatta non da me ma dallo stesso Bhagavan nel verso 17 di Upadēśa Undiyār, nell’ultima riga del quale ha dichiarato, ‘மார்க்கம் நேர் ஆர்க்கும் இது’ (mārggam nēr ārkkum idu), che significa ‘Questo è il sentiero diretto [sicuro o appropriato] per tutti’. Nello stesso modo l’affermazione che esso è il migliore e il più efficace di tutti i sentieri non è stata fatta da me ma dallo stesso Bhagavan nel verso 8 di Upadēśa Undiyār, nell’ultima riga del quale egli ha dichiarato che è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), che significa ‘il migliore [principale, maggiore, più grande o più eccellente] fra tutti’.

Simili affermazioni inequivocabili riguardo l’efficacia unica di ātma-vicāra furono fatte da Adi Sankara. Per esempio, nei versi 11 e 13 di Vivēkacūḍāmaṇi ha spiegato che le azioni (karma) sono solo un mezzo per purificare la propria mente e non per ottenere (la conoscenza di) il vastu (la sostanza reale, che è solo il nostro sé), che può essere ottenuto solo per mezzo di vicāra (investigare, esaminare, ispezionare o osservare acutamente quel vastu), proprio come la paura causata da un serpente illusorio può essere annientata solo ispezionandolo e quindi vedendo che è solo una corda. Egli ha anche inteso lo stesso nei versi 31 e 32, nei quali ha detto che tra tutti i mezzi per mōkṣa (liberazione) solo bhakti (amore o devozione) è il principale, e che ciò che è chiamata bhakti è auto-investigazione (svasvarūpānusandhānam) o investigare la verità di se stessi (svātma-tattvānusandhānam).

Tuttavia, sebbene possiamo non aver ancora sperimentato il pieno beneficio di ātma-vicāra, al fine di accettare ciò che Bhagavan e Sankara ci hanno insegnato riguardo ad essa e per ripetere con fiducia ciò che essi hanno affermato riguardo al suo essere diretta e e di efficacia unica non dobbiamo dipendere solo dalla fiducia nelle loro parole, perché Bhagavan ci ha spiegato in termini chiari e logici perché tali affermazioni devono essere vere. In questa e in alcune delle sezioni successive indicherò e discuterò diverse delle convincenti spiegazioni che possiamo comprendere studiando i suoi insegnamenti.

Una delle spiegazioni più semplici e più convincenti che egli ci ha dato è questa: se non guardiamo noi stessi direttamente, non saremo in grado di vedere ciò che siamo realmente. Questa è un’espressione di un principio generale che tutti possiamo comprendere sia con la nostra esperienza sia con la semplice logica: per vedere qualcosa, dobbiamo guardare verso di essa.

Per esempio, sebbene ho visto molte immagini della Statua della Libertà, non ho mai visto la statua, perché non sono mai stato a New York. Anche se fossi a New York alla vista di essa, non sarei in grado di vederla se non guardassi verso di essa. Se guardassi altrove, o se tenessi i miei occhi chiusi, non la vedrei.

Essere alla vista della Statua della Libertà è come essere auto-consapevoli. Sebbene siamo sempre auto-consapevoli, non possiamo vedere ciò che siamo realmente se non guardiamo attentivamente noi stessi, Guardare altrove invece che la statua è come la nostra condizione abituale nella veglia e nel sogno: benché siamo consapevoli di noi stessi, generalmente non guardiamo o non attendiamo a noi stessi, perché siamo più interessati ad essere consapevoli di altre cose, così passiamo la maggior parte del nostro tempo guardando o attendendo a qualsiasi altra cosa a cui siamo interessati. Essere di fronte alla statua ma con gli occhi chiusi è come la nostra condizione nel sonno o in ogni altro stato di manōlaya (dissoluzione o sprofondamento temporaneo della mente): sebbene siamo ancora consapevoli di noi stessi, non stiamo guardando noi stessi attentivamente, perché l’occhio della nostra mente (la nostra attenzione o sguardo mentale) è in quel momento chiuso. Per vedere ciò che siamo realmente, dobbiamo rivolgere il nostro sguardo verso noi stessi nella veglia o nel sogno, quando l’occhio della nostra mente è del tutto aperto.

Un altro esempio è che sebbene sono stato spesso fuori all’aperto sotto il sole tropicale del mezzogiorno, non l’ho mai visto direttamente, perché non l’ho mai guardato direttamente. Posso averlo visto di sbieco, fuori dalla cornea del mio occhio, come quando si guarda in alto un uccello che vola nel cielo, ma non l’ho visto direttamente e chiaramente, perché ho sempre distolto i miei occhi lontano da esso. Nello stesso modo, non ho mai visto me stesso direttamente, perché ho sempre distolto l’occhio della mia mente lontano da me stesso. Ho spesso provato a guardare me stesso, ma l’ho sempre fatto più o meno di sbieco, perché non ho mai guardato me stesso così attentamente da essere stato consapevole solo di me stesso e di nessun’altra cosa.

Se avessi guardato il sole tropicale di mezzogiorno direttamente e attentamente, sarei stato accecato dalla sua luce intensamente brillante e non sarei in grado di vedere nuovamente nessun’altra cosa. Nello stesso modo, se avessi guardato me stesso direttamente e attentamente, l’occhio della mia mente sarebbe stato accecato dalla luce intensamente brillante della pura auto-consapevolezza, e in questo modo mi sarei dissolto in essa e non sorgerei più di nuovo come un ego (e dunque non sarei in grado di vedere nuovamente nessun’altra cosa tranne me stesso).

Finché continuiamo a distogliere il nostro sguardo (l’occhio della nostra mente o attenzione) lontano da noi stessi, non saremo in grado di vedere ciò che siamo realmente, e quindi continueremo a soffrire nell’illusione di essere questo ego. In qualsiasi altro tipo di pratica spirituale che possiamo fare, ancora manterremo questa illusione, perché ogni tipo di pratica spirituale diversa da ātma-vicāra comporta l’attendere a qualcosa diversa da noi stessi, e quindi richiede un ego (un ‘io’ separato) che attenda a quella cosa. Anche per praticare ātma-vicāra è richiesto un ego, ma mentre nell’ātma-vicāra stiamo cercando di attendere con attenzione solo a noi stessi e stiamo quindi indebolendo proprio il fondamento del nostro ego (poiché questo ego può reggersi solo dando attenzione a qualcosa diversa da noi stessi), in ogni altro tipo di pratica spirituale stiamo attendendo a qualcosa diversa da noi stessi e stiamo quindi sostenendo il nostro ego (poiché l’illusione di essere questo ego rimarrà finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e si dissolverà solo quando saremo attentivamente consapevoli solo di noi stessi).

Ciò non significa che praticare altri tipi di pratica spirituale non sia utile. Senza dubbio ci sono molti benefici che possiamo ottenere facendo queste pratiche, come la purificazione della nostra mente (cioè, ripulirla in qualche misura dei suoi desideri e attaccamenti più grossolani), ma in definitiva dobbiamo cercare di guardare solo noi stessi, perché solo guardando direttamente noi stessi, attentamente ed esclusivamente, saremo in grado di vedere ciò che siamo realmente e di dissolvere l’illusione di essere questo ego. Questo è ciò che Adi Sankara ha detto nel verso 11 del Vivēkacūḍāmaṇi, che le azioni (karma) sono solo un mezzo per purificare la propria mente, e che con nessuna quantità di azione ma solo con vicāra si può sperimentare ciò che è reale; e perché Bhagavan ha detto nei versi 2 e 3 di Upadēśa Undiyār, che il karma non darà la liberazione, ma se fatto per amore di Dio senza desiderio per alcun guadagno personale esso purificherà la propria mente e mostrerà (o permetterà di riconoscere) la via, il sentiero o il mezzo per la liberazione (che come ha spiegato altrove è solo ātma-vicāra).

Più accuratamente e attentamente attendiamo a noi stessi, più il nostro ego e la mente sprofonderanno, poiché essi possono sorgere ed essere attivi solo dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così ātma-vicāra non è un’attività o azione (karma), ma solo una cessazione o sprofondamento di tutta l'attività. D'altra parte, dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, è un'attività o azione (karma), perché comporta un movimento della nostra attenzione o mente lontano da noi stessi e verso qualche altra cosa. Quindi, poiché ogni genere di pratica spirituale diversa da ātma-vicāra comporta il dare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi, tutte queste pratiche sono karma, di mente, di parola o di corpo, e dunque secondo sia Bhagavan che Sankara esse possono essere un mezzo per purificare la propria mente e per preparare alla pratica di ātma-vicāra, ma nessuna di esse può essere un mezzo diretto con cui possiamo vedere ciò che siamo realmente.

Per vedere ciò che siamo realmente, abbiamo solo bisogno di guardare noi stessi, e guardare noi stessi è ciò che è chiamata ātma-vicāra: auto-investigazione o auto-attentività. Se la nostra mente è stata totalmente preparata, cercando con persistenza di praticare ātma-vicāra o per mezzo di qualsiasi altra pratica spirituale di purificazione mentale, come la bhakti nella forma di focalizzata devozione a Dio, saremo in grado di vedere ciò che siamo realmente guardando noi stessi attentamente anche solo per un singolo momento, come Bhagavan ha fatto quando fu sopraffatto da un’intensa paura della morte all’età di sedici anni e rivolse il sguardo interiormente per vedere se egli era qualcosa che poteva morire con l’inevitabile morte del corpo.

Avendo sperimentato ciò che realmente è per mezzo di un singolo momento di intensa ātma-vicāra, Bhagavan ha conosciuto che questo è il ‘sentiero diretto per tutti’ e che esso solo è sufficiente, e dunque ci ha insegnato che se cerchiamo con persistenza di praticare ātma-vicāra nessun’altra pratica spirituale è necessaria. Quindi, sebbene egli non abbia mai dissuaso qualcuno dal praticare qualsiasi altro tipo di pratica spirituale a cui si poteva sentire attratto, incoraggiò gentilmente chiunque gli chiedeva riguardo a questo di praticare ātma-vicāra, e ha spiegato in molti modi che essa è il solo mezzo diretto con cui possiamo vedere ciò che siamo realmente, e perciò che qualunque altra pratica spirituale possiamo fare, prima o poi, dobbiamo praticare ātma-vicāra rivolgendo la nostra attenzione soltanto verso noi stessi.

Nel verso 44 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai Bhagavan ha espresso ciò che gli era stato insegnato in silenzio dal suo guru, Arunachala, e le parole che ha usato per esprimere questo sono: ‘திரும்பி அகம் தனை தினம் அகக்கண் காண்; தெரியும்’ (tirumbi aham taṉai diṉam aha-k-kaṇ kāṇ; ṭeriyum), che significano letteralmente ‘Rivolgendoti all’interno, vedi te stesso quotidianamente con l’occhio interiore [o uno sguardo verso l’interno]; esso sarà conosciuto’, e che implica che per vedere noi stessi, dobbiamo voltarci indietro e guardare noi stessi con persistenza finché vediamo ciò che siamo realmente.

திரும்பி (tirumbi) significa rivolgersi o voltarsi indietro, e in questo contesto implica voltare il proprio sguardo interno o attenzione. அகம் (aham) ha due significati che possono entrambi essere appropriati in questo contesto perché è sia una parola di origine Tamil che significa dentro o all’interno e una parola di origine Sanscrita che significa ‘io’. Se la prendiamo nel significato di dentro o all’interno, திரும்பி அகம் (tirumbi aham) è una proposizione avverbiale che significa ‘rivolgersi all’interno’ o ‘voltarsi all’interno’, mentre se la prendiamo nel significato di ‘io’, è unita alla parola successiva, தனை (taṉai), per formare una parola composta, அகந்தனை (ahandaṉai), in cui il suffisso தனை (taṉai) serve come creatore di caso accusativo, così அகந்தனை (ahandaṉai) sarebbe un forma accusativa di ‘io’, e perciò starebbe grammaticalmente come l’oggetto diretto del verbo imperativo காண் (kāṇ), che significa ‘vedi’ o ‘guarda’.

Come abbiamo visto, se esso è unito a அகம் (aham), தனை (taṉai) è un creatore di caso accusativo, ma se அகம் (aham) è preso come una parola separata dal significato di dentro o all’interno, தனை (taṉai) è una forma accusativa di தான் (tāṉ), che è un pronome generico che significa ‘se stessi’ o in questo contesto ‘tu stesso’, poiché sarebbe l’oggetto diretto del verbo imperativo காண் (kāṇ). Quindi, proprio come ‘அகந்தனை காண்’ (ahandaṉai kāṇ) significa ‘guarda [o vedi] io’, ‘தனை காண்’ (taṉai kāṇ) significa ‘guarda [o vedi] te stesso’, così il senso in cui interpretiamo அகம் (aham) e தனை (taṉai) – come due parole separate o una singola parola composta – non altera in nessun modo il significato chiaramente inteso da Bhagavan, vale a dire che dovremmo guardare e vedere noi stessi o il nostro ‘io’, perché il pronome di prima persona ‘io’ si riferisce solo a noi stessi.

La parola successiva, தினம் (diṉam), in questo contesto è un avverbio che significa letteralmente ‘quotidianamente’, ma che qui significa incessantemente o perpetuamente, perché per riuscire a vedere ciò che siamo realmente dobbiamo cercare con persistenza di guardare noi stessi o essere auto-attentivi. அகக்கண் (aha-k-kaṇ) significa ‘occhio interiore’ o ‘occhio della mente’, di conseguenza significa ‘attenzione’, e dunque in questo contesto indica che il nostro occhio interiore o attenzione è lo strumento con cui dobbiamo guardare e vedere noi stessi. Nella sua parafrasi esplicativa (poṙippurai) di questo verso Sri Muruganar interpreta அகக்கண் (aha-k-kaṇ) come ‘அகமுகப் பார்வையால்’ (ahamukha-p-pārvaiyāl), che significa ‘con uno sguardo rivolto verso l’interno [o ‘io’-verso]’, che è un’interpretazione appropriata perché il nostro occhio interno deve ovviamente essere rivolto verso noi stessi perché possiamo vedere ciò che siamo realmente.

In questo modo ‘திரும்பி அகம் தனை தினம் அகக்கண் காண்’ (tirumbi aham taṉai diṉam aha-k-kaṇ kāṇ) significa ‘rivolgendoti all’interno [o voltandoti all’interno], guarda [o vedi] te stesso [o il tuo ‘io’] quotidianamente [o incessantemente] con [il tuo] occhio interiore [la tua attenzione o il tuo sguardo rivolto all’interno]’, e a questa affermazione imperativa Bhagavan aggiunge un’assicurazione, usando la proposizione a parola singola ‘தெரியும்’ (ṭeriyum), che significa ‘esso sarà noto’, ‘esso sarà visto’ o ‘esso sarà chiaramente conosciuto’, intendendo quindi che rivolgendoci all’interno con persistenza e cercando di guardare noi stessi infine riusciremo a vedere ciò che siamo realmente.

Poiché ciò che aspiriamo di vedere, conoscere o sperimentare direttamente è solo noi stessi come siamo realmente, la semplice logica richiede che il solo mezzo diretto con cui possiamo vedere noi stessi è tentare con persistenza di guardare noi stessi finché riusciamo a vedere chiaramente ciò che siamo realmente. Se invece guardiamo in qualche altra direzione, possiamo certamente ottenere altri benefici come la purificazione della mente, ma non saremo in grado di vedere direttamente noi stessi se non guarderemo direttamente noi stessi, così Bhagavan molto gentilmente e compassionevolmente ci ha consigliato che piuttosto che praticare guardando in qualche altra direzione, dovremmo invece praticare guardando direttamente noi stessi fin dall’inizio.

Essendo un’incarnazione di amore e compassione infiniti (karuṇā), egli non imponeva questo consiglio a nessuno che non volesse ascoltarlo, ma a tutti coloro che erano disposti ad ascoltare egli ripeteva frequentemente questo consiglio (come possiamo vedere leggendo qualcuno dei libri che più o meno precisamente riportano conversazioni che egli ha avuto con devoti e visitatori, come Maharshi’s Gospel, Talks with Sri Ramana Maharshi e Day by Day with Bhagavan), e nei suoi scritti originali come Nāṉ Yār?, Upadēśa Undiyār, Uḷḷadu Nāṟpadu e molti dei suoi altri versi, inclusi alcuni in Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam, non solo ha espresso questo consiglio in molti modi ma ha anche spiegato chiaramente perché ha dato questo consiglio.

Avendo studiato con grande attenzione i suoi scritti originali e la maggior parte delle registrazioni disponibili di ciò che ha insegnato oralmente, e avendo riflettuto su di essi attentamente e profondamente per molti anni cercando anche di fare il mio debole meglio per praticare ciò che egli ha consigliato, sono così fermamente convinto dalla sua spiegazione logica chiara ed impeccabile, da ritenermi giustificato nell’affermare che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo vedere o sperimentare ciò che siamo realmente. Nell’affermare questo, non intendo che nessun’altro tipo di pratica spirituale sia in qualche modo benefica, e certamente non ho mai detto questo, ma sebbene accetti che uno possa ricavare molti benefici importanti facendo altre forme di pratica spirituale, credo fermamente e quindi affermo che tutti questi reali benefici possono essere ottenuti ugualmente bene praticando ātma-vicāra (come Bhagavan sottolinea, per esempio, nel verso 10 di Upadēśa Undiyār e nel verso 14 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham), e che il massimo beneficio di praticare ātma-vicāra (vale a dire vedere ciò che siamo realmente) non può essere ottenuto direttamente con qualche altro mezzo, perché per vedere ciò che siamo realmente dobbiamo prima o poi guardare con attenzione noi stessi.

5. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 22: se non ci rivolgiamo all’interno per guardare noi stessi, come possiamo vedere ciò che siamo realmente?

Mentre nel verso 44 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai Bhagavan ci assicura che se cerchiamo con persistenza di rivolgermi all’interno e di guardare noi stessi con il nostro occhio interiore vedremo o conosceremo ciò che siamo realmente, nel verso 22 di Uḷḷadu Nāṟpadu egli chiede retoricamente come possiamo conoscere il nostro sé reale (che egli descrive come il Signore che risplende dentro la nostra mente dando ad essa luce) tranne che rivolgendo la nostra mente all’interno ed immergendola in noi stessi, intendendo quindi che non saremo in grado di vedere ciò che siamo realmente se non ci voltiamo e guardiamo noi stessi. In altre parole, se leggiamo insieme questi due versi, possiamo vedere che egli non solo ci assicura che cercando con persistenza di rivolgerci all’interno per guardare noi stessi alla fine vedremo ciò che siamo realmente, ma anche intende che non possiamo vedere ciò che siamo realmente con qualche mezzo tranne che rivolgendoci all’interno per guardare noi stessi, e dissolvendo il nostro ego nel nostro sé reale come il ghiaccio nell’acqua o una bambola di sale nell’oceano.

Ciò che egli dice nel verso 22 di Uḷḷadu Nāṟpadu è:
மதிக்கொளி தந்தம் மதிக்கு ளொளிரு
மதியினை யுள்ளே மடக்கிப் — பதியிற்
பதித்திடுத லன்றிப் பதியை மதியான்
மதித்திடுக லெங்ஙன் மதி.

matikkoḷi tandam matikku ḷoḷiru
matiyiṉai yuḷḷē maḍakkip — patiyiṯ
padittiḍuda laṉḏṟip patiyai matiyāṉ
matittiḍuda leṅṅaṉ mati
.

பதச்சேதம்: மதிக்கு ஒளி தந்து, அம் மதிக்குள் ஒளிரும் மதியினை உள்ளே மடக்கி பதியில் பதித்திடுதல் அன்றி, பதியை மதியால் மதித்திடுதல் எங்ஙன்? மதி.

Padacchēdam (separazione delle parole): matikku oḷi tandu, am-matikkuḷ oḷirum matiyiṉai uḷḷē maḍakki patiyil padittiḍudal aṉḏṟi, patiyai matiyāl matittiḍudal eṅṅaṉ? mati.

அன்வயம்: மதிக்கு ஒளி தந்து, அம் மதிக்குள் ஒளிரும் பதியில் மதியினை உள்ளே மடக்கி பதித்திடுதல் அன்றி, பதியை மதியால் மதித்திடுதல் எங்ஙன்? மதி.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): matikku oḷi tandu, am-matikkuḷ oḷirum patiyil matiyiṉai uḷḷē maḍakki padittiḍudal aṉḏṟi, patiyai matiyāl matittiḍudal eṅṅaṉ? mati.

Traduzione: Rifletti, tranne che rivolgendo la mente all’interno [e quindi] immergendola completamente in Dio, che risplende dentro quella mente dando luce alla mente, come conoscere Dio con la mente?
மதி (mati) significa ‘mente’ e பதி (pati) in questo contesto significa letteralmente ‘Signore’ o ‘Dio’, ma poiché Bhagavan lo descrive usando la proposizione relativa ‘மதிக்கு ஒளி தந்து, அம் மதிக்குள் ஒளிரும்’ (matikku oḷi tandu, am-matikkuḷ oḷirum), che significa ‘chi risplende all’interno quella mente dando luce alla mente’, la chiara implicazione è che பதி (pati) è il nostro sé reale (ātma-svarūpa) o pura auto-consapevolezza, che risplende dentro la nostra mente come ‘io’ e così la illumina con la luce di consapevolezza, permettendole di essere consapevole sia di sé stessa che di altre cose. Così finché noi come questa mente siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, stiamo guardando verso l’esterno, lontano da noi stessi, e quindi non possiamo conoscere ciò che siamo realmente. Per conoscere ciò che siamo realmente, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione all’interno per guardare soltanto noi stessi.

Questo rivolgere la nostra mente o attenzione all’interno per guardare soltanto noi stessi è ciò che Bhagavan descrive qui come ‘மதியினை உள்ளே மடக்கி’ (matiyiṉai uḷḷē maḍakki), che significa ‘rivolgere la mente all’interno’. மடக்கி (maḍakki) è un participio di மடக்கு (maḍakku), che significa curvarsi, ripiegarsi, girare intorno o voltarsi indietro, e che è anche usato qualche volta nel senso di sottomettere, conquistare, trattenere, domare, fermare o distruggere, così in questo contesto மடக்கி (maḍakki) non solo significa girare intorno ma anche sottomettere, trattenere e fermare le tendenze esteriorizzanti della nostra mente. Rivolgendo la nostra mente all’interno la faremo sprofondare, affondare, precipitare o essere immersa in noi stessi, che Bhagavan esprime con la frase ‘பதியில் பதித்திடுதல்’ (patiyil padittiḍudal), che significa ‘immergendo [essa] in Dio’. பதியில் (patiyil) è una forma locativa di பதி (pati), che significa essere la causa di affondare, precipitare, scendere, penetrare, inserirsi, piantare, fissare, immergere o essere assorbiti o avvinti, così significa rendere la propria mente o attenzione così completamente assorbita o avvinta nel proprio sé reale che essa affonda, penetra e diviene stabilita fermamente in sé stessa come sé stessa.

Poiché மடக்கி (maḍakki) è un participio verbale (che significa ‘volgendosi indietro’) e பதித்திடுதல் (padittiḍudal) è un sostantivo verbale (che significa ‘immergendosi completamente’), il primo è subordinato al secondo, così l’implicazione è che è voltando la propria mente all’interno che la si farà sprofondare ed essere immersa in Dio, che risplende all’interno come il proprio sé reale. Quindi questa intera proposizione, ‘மதியினை உள்ளே மடக்கி பதியில் பதித்திடுதல்’ (matiyiṉai uḷḷē maḍakki patiyil padittiḍudal), significa ‘rivolgendo la mente all’interno [e quindi] immergendola completamente in Dio’ o ‘immergendo completamente la mente in Dio rivolgendola all’interno’.

La parola successiva, அன்றி (aṉḏṟi), è una congiunzione subordinante che significa ‘tranne’ o in questo caso ‘tranne con’, così essa subordina la proposizione precedente, ‘மதியினை உள்ளே மடக்கி பதியில் பதித்திடுதல்’ (matiyiṉai uḷḷē maḍakki patiyil padittiḍudal), ‘rivolgere la mente all’interno [e quindi] immergerla completamente in Dio’, alla proposizione interrogativa che la segue, vale a dire ‘பதியை மதியால் மதித்திடுதல் எங்ஙன்?’ (patiyai matiyāl matittiḍudal eṅṅaṉ?), che significa, ‘come conoscere Dio con la mente?’. Come பதித்திடுதல் (padittiḍudal), மதித்திடுதல் (madittiḍudal) è un sostantivo verbale formato da una forma intensificata di un verbo, vale a dire மதி (madi), che significa misurare, sondare, accertarsi o conoscere, così ‘மதித்திடுதல் எங்ஙன்?’ (matittiḍudal eṅṅaṉ) significa ‘come sondare completamente o conoscere totalmente?’.

Dunque in congiunzione queste due proposizioni, ‘மதியினை உள்ளே மடக்கி பதியில் பதித்திடுதல் அன்றி, பதியை மதியால் மதித்திடுதல் எங்ஙன்?’ (matiyiṉai uḷḷē maḍakki patiyil padittiḍudal aṉḏṟi, patiyai matiyāl matittiḍudal eṅṅaṉ?), significano ‘tranne che rivolgendo la mente all’interno [e quindi] immergendola completamente in Dio, come conoscere Dio con la mente?’ Questa è ovviamente una domanda retorica, il cui chiaro significato è che non possiamo conoscere Dio (che è il nostro sé reale o ātma-svarūpa) tranne che rivolgendo la nostra mente o attenzione all’interno e dissolvendola interamente in lui.

Quindi in questo verso Bhagavan ci insegna enfaticamente ed inequivocabilmente che possiamo sperimentare ciò che siamo realmente solo rivolgendo la nostra attenzione all’interno e dissolvendo interamente la nostra mente nel nostro sé reale (ātma-svarūpa). In altre parole, in definitiva possiamo ottenere la vera auto-conoscenza solo per mezzo di ātma-vicāra.

Come abbiamo visto nella sezione precedente, questa è non solo un’affermazione perfettamente ragionevole ma afferma realmente ciò che è logicamente necessario, vale a dire che per vedere noi stessi dobbiamo guardare noi stessi. Se non rivolgiamo la nostra attenzione o sguardo mentale all’interno per guardare soltanto verso noi stessi, come possiamo vedere direttamente ciò che siamo realmente? Quindi possiamo fare qualsiasi altra pratica spirituale, prima o poi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione soltanto verso noi stessi, perché se non facciamo questo non saremo in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente.

6. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: finché siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, sembriamo essere questo ego

Strettamente collegata a ciò che abbiamo considerato nelle due sezioni precedenti è un’altra ragione logicamente convincente, che Bhagavan ci ha dato per spiegare perché dobbiamo attendere soltanto a noi stessi per sperimentarci come siamo realmente, vale a dire che ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, siamo consapevoli di noi stessi come se fossimo un’entità separata e limitata, ed essere consapevoli di noi stessi in questo modo è chiamato ‘ego’, così non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Inoltre il fatto che questa è la nostra esperienza, perché ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi (come siamo nella veglia e nel sogno) siamo consapevoli di noi stessi come questo ego, e ogni volta che non siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi (come siamo nel sonno) non siamo consapevoli di noi stessi come questo ego, è anche una necessità logica e quindi non potrebbe essere altrimenti, perché ovviamente non possiamo essere consapevoli di cose diverse da noi stessi senza essere consapevoli di noi stessi come qualcosa che è separata da quelle altre cose (tra altre ragioni perche noi siamo uno ed esse sono molte, e perché noi esistiamo e siamo consapevoli di noi stessi sia che esse appaiano o scompaiano), e finché sembriamo essere separati da qualche altra cosa sembriamo essere limitati e quindi non infiniti, così se non siamo realmente questo ego limitato (che non possiamo essere, perché noi esistiamo e siamo consapevoli di noi stessi sia che siamo consapevoli di noi stessi come questo ego o no) non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente finché siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi. Quindi per accertarci tramite la nostra esperienza (piuttosto che la pura analisi logica, o la pura fede nelle parole di Bhagavan) che siamo o meno questo ego limitato che ora sembriamo essere, abbiamo bisogno di investigare noi stessi cercando di essere consapevoli soltanto di noi stessi, senza la minima consapevolezza di qualcos’altro, e quindi abbiamo bisogno di cercare di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi.

Questo principio fondamentale è stato spiegato spesso da Bhagavan, ed è da lui espresso chiaramente nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma sorge in essere; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si distende, si espande, aumenta, si innalza o fiorisce] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], esso prende il volo. Investiga [o conosci di conseguenza].
In questo contesto உரு (uru) o ‘forma’ significa ogni fenomeno (sia apparentemente fisico o ovviamente mentale), e la ragione per cui Bhagavan descrive i fenomeni come ‘forme’ è che ciascun fenomeno è formato e caratterizzato da certe caratteristiche che lo distinguono sia dagli altri fenomeni che dall’ego che è consapevole di esso. Poiché egli descrive l’ego come un ‘உருவற்ற பேய்’ (uru-v-aṯṟa pēy) o ‘fantasma senza forma’, egli intende chiaramente che ciò a cui si riferisce qui come உரு (uru) o ‘forma’ è qualcosa diversa da questo ego.

உரு பற்றி (uru paṯṟi) significa ‘afferrando [prendendo, trattenendo, abbracciando, aggrappandosi a, aderendo a, attaccandosi a o fissando sé stessi a] la forma’, ma poiché questo ego è senza forma e quindi non ha mani o arti con cui potrebbe afferrare qualsiasi cosa, in questo contesto பற்றி (paṯṟi) significa ‘afferrando’ nel senso metaforico di attendere a ed essere consapevole di. Cioè, essendo senza forma, questo ego è qualcosa che è solo consapevole, così esso afferra forme o fenomeni afferrandoli nella propria consapevolezza, e lo strumento o arto con cui esso li afferra è la sua attenzione. Quindi உரு பற்றி (uru paṯṟi) o ‘afferrando la forma’ significa attendere a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, che ora sembriamo essere questo ego.

Le forme che questo ego afferra non esistono indipendentemente da esso, come Bhagavan ha chiarito nel verso successivo, in cui dice ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandaiyē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego viene in esistenza, ogni cosa viene in esistenza; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Perciò] l’ego è ogni cosa’. Quindi, poiché nessuna forma può esistere se il nostro ego non esiste, il nostro ego è in grado di afferrare ogni forma solo creandola o proiettandola e simultaneamente dando ad essa attenzione. Di fatto l’attenzione non è solo il mezzo con cui il nostro ego afferra le forme ma anche il mezzo con cui esso le crea o proietta, perché creare e afferrare sono lo stesso processo, poiché il nostro ego crea forme solo divenendo consapevole di esse, così quando esso cessa di essere consapevole di qualche forma quella cessa di esistere.

La prima proposizione finita di questo verso, ‘உரு பற்றி உண்டாம்’ (uru paṯṟi uṇḍām), significa ‘afferrando la forma esso sorge in essere [o viene in esistenza]’, e in questo caso உரு (uru) o la ‘forma’ che esso afferra è un corpo, perché come Bhagavan ha spiegato spesso e come ciascuno di noi sperimenta, sembriamo essere questo ego solo quando afferriamo un corpo e lo sperimentiamo come noi stessi, così sorgiamo come questo ego solo afferrando un corpo come se fosse noi stessi. Il corpo che afferriamo non è sempre lo stesso corpo, come sappiamo dalla nostra esperienza in qualsiasi sogno, quando afferriamo e sperimentiamo come noi stessi un corpo che è diverso dal corpo che sperimentiamo abitualmente come noi stessi. Tuttavia, come ogni altra forma che afferriamo come questo ego, qualunque corpo possiamo afferrare come noi stessi è qualcosa che noi stessi abbiamo creato e proiettato dall’interno di noi (proprio come in un sogno proiettiamo un corpo dall’interno di noi e simultaneamente lo sperimentiamo come se fosse noi stessi), così sebbene questo ego è sempre dipendente da qualunque corpo afferra come se stesso, non ha bisogno sempre di dipendere dallo stesso corpo, perché ogni volta esso sorge all’esistenza lo fa proiettando e afferrando simultaneamente un corpo come se stesso.

Quindi, sebbene questo ego è உருவற்ற (uru-v-aṯṟa) o ‘senza forma’, appena esso sorge proietta e afferra la forma di un corpo come sé stesso, così sperimenta sempre sé stesso come se fosse una forma. È solo per mezzo di questo afferrare la forma di un corpo come sé stesso che il nostro ego è in grado di essere consapevole di qualsiasi altra forma, come Bhagavan spiega chiaramente nel verso 4 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui dice, ‘உருவம் தான் ஆயின், உலகு பரம் அற்று ஆம்; உருவம் தான் அன்றேல், உவற்றின் உருவத்தை கண் உறுதல் யாவன்? எவன்? கண் அலால் காட்சி உண்டோ?’ (uruvam tāṉ āyiṉ, ulahu param aṯṟu ām; uruvam tāṉ aṉḏṟēl, uvaṯṟiṉ uruvattai kaṇ uṟudal yāvaṉ? evaṉ? kaṇ alāl kāṭci uṇḍō?), che significa, ‘Se sé stesso è una forma, il mondo e Dio lo saranno ugualmente; se sé stesso non è una forma, chi può vedere la loro forma, e come [farlo]? Può ciò che è visto [o conosciuto] essere diversamente [in natura] che l’occhio [la consapevolezza che lo vede o conosce]?’

Avendo proiettato e afferrato la forma di un corpo come sé stesso, l’ego poi proietta e afferra altre forme, inclusi sia i fenomeni che sembrano esistere solo nella sua mente siani fenomeni che proietta e afferra per mezzo dei cinque sensi di quel corpo, che quindi sembrano essere fenomeni fisici che esistono esternamente e indipendentemente da sé stesso. Tuttavia, sebbene i fenomeni fisici sembrano esistere esternamente e indipendentemente da noi stessi, li sperimentiamo realmente solo all’interno della nostra mente o consapevolezza, così essi sono realmente solo fenomeni mentali e quindi la loro esistenza apparente è del tutto dipendente dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego, che siamo ciò che solo li percepisce o sperimenta.

Proprio come l’esistenza apparente di tutti i fenomeni è del tutto dipendente dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego, la nostra esistenza apparente come questo ego è ugualmente del tutto dipendente dall’esistenza apparente di qualunque fenomeno di cui siamo attualmente consapevoli, e diveniamo consapevoli di essi solo proiettandoli ed afferrandoli. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto nel quarto paragrafo di Nāṉ Yār?: ‘மனம் எப்போதும் ஒரு ஸ்தூலத்தை யனுசரித்தே நிற்கும்; தனியாய் நில்லாது’ (maṉam eppōdum oru sthūlattai y-aṉusarittē niṟkum; taṉiyāy nillādu), che significa ‘La mente si regge solo cercando sempre [afferrando o attaccando sé stessa a] un oggetto grossolano; da sola essa non si regge’. In questo contesto con il termine ‘மனம்’ (maṉam) o ‘mente’ intende l’ego, che è il solo aspetto essenziale della mente e la radice da cui germogliano tutti i suoi altri aspetti, e ‘ஒரு ஸ்தூலத்தை’, che significa ‘una cosa [o oggetto] grossolana’, intende ogni forma o fenomeno, poiché in confronto all’ego o mente sottile tutti i fenomeni solo relativamente grossolani.

Ciò che Bhagavan esprime in queste due frasi di Nāṉ Yār? è da lui espresso anche più sinteticamente nella seconda proposizione finita di questo verso, vale a dire ‘உரு பற்றி நிற்கும்’ (uru paṯṟi uṇḍām), che significa ‘afferrando la forma esso si regge [o resiste]’. Cioè, non solo questo ego ha origine solo afferrando la forma di un corpo come sé stesso, ma anche si regge o resiste solo continuando a mantenere quel corpo come sé stesso e simultaneamente afferrando altre forme. Poiché egli qui dice che esso si regge afferrando le forme, intende indirettamente ciò che ha affermato esplicitamente nella seconda di queste due frasi di Nāṉ Yār?, vale a dire ‘தனியாய் நில்லாது’ (taṉiyāy nillādu), che significa ‘da solo [separatamente, soltanto, solo, in solitudine o in isolamento] esso non si regge’.

Questa implicazione è la ragione logica per cui ciò che egli dice nella frase conclusiva di questo verso, vale a dire ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo', deve necessariamente essere vero. Cioè, poiché questo ego può sorgere e reggersi solo afferrando forme (qualsiasi cosa diversa da sé stesso), e poiché non può reggersi da solo, logicamente ne consegue che se questo ego cerca di afferrare, vedere, dare attenzione a o essere consapevole di niente altro che solo sé stesso, sprofonderà e scomparirà. Esso sembra essere una forma solo quando afferra la forma di un corpo come sé stesso, ma quando si separata o si isola da quel corpo e da tutte le altre forme cercando di essere attentivamente consapevole soltanto di sé stesso, allora è senza forma, e dunque non può reggersi come un’entità separata, così sprofonda e si fonde nel nostro sé reale (ātma-svarūpa), che è la sorgente senza forma dalla quale è sorto originariamente.

Quindi il fatto che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo distruggere o dissolvere permanentemente questo ego-illusione e possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente non è stata solo l’esperienza di Bhagavan, ma è anche ciò che deve necessariamente essere vero, come ha chiaramente spiegato con logica impeccabile sia in questo verso che in numerosi altri modi. Dunque, anche se non siamo ancora riusciti ad attendere a noi stessi in modo sufficientemente accurato da isolare completamente la nostra auto-consapevolezza anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa e quindi da essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, possiamo nondimeno essere perfettamente sicuri che cercare di attendere a noi stessi così accuratamente è il solo mezzo diretto con cui possiamo distruggere questo ego, cosa che dobbiamo fare per sperimentare ciò che siamo realmente. Per avere questa sicurezza, non abbiamo bisogno di avere una fede completa della testimonianza di Bhagavan, perche egli ci ha spiegato così chiaramente e logicamente perché ciò che ci ha insegnato a questo proposito deve necessariamente essere vero. A meno che troviamo da ridire con le sue premesse o con la sua logica, cosa che non credo qualcuno di noi possa fare, non abbiamo alcun motivo razionale per discutere, dubitare o non credere ai semplici argomenti che egli ci ha fornito per dimostrare la necessaria verità di ciò che ci ha insegnato.

La connessione logica tra le prime due frasi di questo verso e la conclusione espressa nella sua frase finale è anche rinforzata nella sua terza e quarta frase. Nella terza frase Bhagavan dice, ‘உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்’ (uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum), che significa ‘afferrando e nutrendosi di forma esso cresce [si distende, si espande, aumenta, si innalza o fiorisce] abbondantemente’, e che quindi rinforza ciò che ha detto nella seconda frase. Cioè, afferrando forme non solo l’ego sorge e resiste ma anche è nutrito e cresce fortemente. Afferrare la forma dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi e il mezzo con cui il nostro ego nutre e sostiene se stesso, così finché continuiamo a nutrirlo in questo modo non saremo in grado di distruggerlo. Per liberarci completamente di esso, abbiamo bisogno di farlo morire di fame in sottomissione, cosa che possiamo fare completamente solo cercando di attendere soltanto a noi stessi.

Altri tipi di pratica spirituale (che tutte comportano il dare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi) può essere un mezzo efficace con cui possiamo parzialmente affamare il nostro ego e dunque indebolire la sua presa su altre cose, ma per farlo morire completamente di fame e perciò rompere la sua presa su ogni cosa dobbiamo prima o poi cercare di attenere soltanto a noi stessi. Tuttavia, quando parliamo di far morire di fame il nostro ego, non dovremmo immaginare che abbiamo bisogno di affamarlo per un lungo periodo di tempo. Finché il nostro desiderio e l’attaccamento a sperimentare altre cose è forte, abbiamo bisogno di cercare con persistenza, e per tutto il tempo che ci vuole, di indebolire i suoi desideri e gli attaccamenti affamandolo più che possiamo, ma una volta che i suoi desideri e gli attaccamenti sono sufficientemente indeboliti (praticando ātma-vicāra soltanto o per mezzo di ogni altro tipo di pratica spirituale), solo un singolo momento di auto-attentività focalizzata è sufficiente per farlo morire completamente di fame e quindi annientarlo per sempre.

Sebbene possiamo aver praticato l’auto-attentività per lungo tempo, se non siamo ancora riusciti a distruggere il nostro ego, significa che fino ad ora abbiamo guardato noi stessi solo di sbieco, per così dire, e non abbiamo ancora guardato noi stessi direttamente, con la nostra intera attenzione focalizzata accuratamente soltanto su noi stessi. Secondo il principio che Bhagavan ha espresso nella frase conclusiva di questo verso, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), ‘Se cercato, esso prenderà il volo’, più guardiamo il nostro ego direttamente e attentamente più esso sprofonderà e si dissolverà, ma per farlo sprofondare e fondersi completamente nel nostro sé reale, abbiamo bisogno di guardarlo in un modo assolutamente diretto, non dando anche il minimo spazio alla comparsa nella nostra consapevolezza di qualsiasi altra cosa. Per guardare noi stessi così direttamente, abbiamo bisogno di bhakti travolgente o amore per essere consapevoli soltanto di noi stessi, e otterremo tale amore solo nella misura in cui la nostra attrazione ad essere consapevoli di qualsiasi altra cosa sarà indebolito dalla pratica persistente di auto-attentività (o più indirettamente per mezzo di altre forme di pratica spirituale che ci distolgono dagli attaccamenti più grossolani ad altre cose).

Nella quarta frase di questo verso Bhagavan dice, ‘உரு விட்டு, உரு பற்றும்’ (uru viṭṭu, uru paṯṟum), che significa ‘lasciando [una] forma, esso afferra [un’altra] forma’, e che di nuovo rinforza ciò che ha detto nella seconda frase, vale a dire che esso può reggersi solo afferrando la forma. Durante gli stati di veglia o di sogno il nostro ego muove costantemente la sua attenzione da una cosa a un'altra, così questo è un modo in cui possiamo vederlo lasciare una forma e afferrarne un’altra. Ugualmente, quando un periodo di veglia o di sogno giunge al termine, il nostro ego lascia qualunque corpo stava afferrando come se stesso, e allora o afferra un altro corpo come se stesso, saltando immediatamente in un altro stato di sogno (nel quale può sperimentarsi più o meno come la stessa persona, come fa generalmente nei sogni che ha ogni giorno, o nel quale può dimenticarsi della sua vita precedente e può quindi ricominciare una nuova vita come un’altra persona), oppure farà questo dopo essere rimasto per qualche tempo in uno stato simile al sonno.

Nella frase conclusiva di questo verso, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), தேடினால் (tēḍiṉāl) è una forma condizionale del verbo தேடு (tēḍu), che significa cercare o ricercare, così தேடினால் (tēḍiṉāl) significa letteralmente ‘se cercato’ o ‘se uno cerca’, e in questo contesto significa ‘se uno cerca di vedere il proprio ego’; ஓட்டம் (ōṭṭam) è un sostantivo verbale che significa ‘corsa’ o ‘volo’ nel senso di ‘fuggire’, e பிடிக்கும் (piḍikkum) significa ‘esso prenderà [acciufferà, afferrerà o si appiglierà]’, così ‘ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (ōṭṭam piḍikkum) è un modo di dire che ha esattamente lo stesso significato del modo di dire Inglese ‘esso prenderà il volo’, e dunque significa ‘esso volerà’ o ‘esso correrà lontano’. Cioè, poiché sembriamo essere questo ego (e quindi esso sembra esistere) solo finché siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, se cerchiamo attentamente di vedere ciò che esso è (in altre parole, se cerchiamo di essere consapevoli soltanto di noi stessi), esso svanirà, perché è solo un’illusione, come un fantasma che sembra esistere nell'ombra solo quando non lo guardiamo direttamente.

Sebbene possiamo e dovremmo cercare di vedere, guardare, osservare o attendere a questo ego, non saremo mai in grado di vederlo chiaramente, perché come un fantasma che sembra nascondersi nell’ombra o come un serpente illusorio che è di fatto solo una corda, esso non esiste realmente, e dunque esiste e crea paura solo quando non lo guardiamo con sufficiente attenzione. Se lo guardiamo attentamente, esso inizierà a sprofondare e a dissolversi, come una nebbia tropicale del mattino di fronte al sorgere del sole, e se lo guardiamo abbastanza attentamente, esso svanirà completamente, lasciandoci solo come pura auto-consapevolezza, che è la sola cosa che esiste realmente.

Quindi la conclusione di questo verso è che ogni volta che questo ego sorge e si regge, lo fa solo ‘afferrando la forma’ o attendendo a cose diverse da se stesso, e che facendo questo nutre e sostiene se stesso, così ogni volta che lascia una forma afferrerà immediatamente un’altra forma oppure sprofonderà nel sonno o in qualche altro simile stato di manōlaya (dissoluzione o sospensione temporanea), dal quale prima o poi sorgerà nuovamente afferrando un’altra forma, e dunque il solo mezzo con cui possiamo scacciarlo per sempre è attendere solo a noi stessi. Più cerchiamo di attendere solo a noi stessi, chi ora sembra essere questo ego, più sprofonderemo in ciò che siamo realmente, finché alla fine riusciremo a focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi, al che questo ego ‘prenderà il volo’ e svanirà per sempre, e ciò che allora rimarrà sarà solo noi stessi come sempre siamo realmente.

7. Distinguere ciò che è necessariamente vero da ciò che è contingentemente vero

Dopo aver posto la sua prima domanda, vale a dire ‘Tu dici alquanto inequivocabilmente che l’auto indagine è il sentiero più diretto ed efficace superiore agli altri sentieri. Ma se non hai realizzato te stesso anche dopo così molte decadi di auto indagine, come puoi fare questa affermazione?’, alla quale mi sono riferito all’inizio della quarta sezione e alla quale ho cercato di rispondere in quella e nelle due sezioni successive, Maya ha scritto, ‘Nessuno dubiterebbe della tua conoscenza dell’auto indagine e della sua pratica. Così nonostante questo e dopo averla pratica così a lungo, perché non è stata efficace per te e se essa non ha funzionato con te come puoi affermare che è superiore agli altri sentieri? Al massimo puoi dire che credi nelle parole di Bhagavan e hai fede in lui, cosa che potrebbe essere vera per un praticante di ogni sentiero in relazione al proprio Guru’.

Dico di credere e di avere fede nelle parole di Bhagavan, ma la mia fede nelle sue parole non è una fede cieca, perché come ho spiegato sopra (nelle tre sezioni precedenti) egli ci ha dato argomenti logici convincenti che dimostrano che ciò che ci ha insegnato riguardo l’efficacia unica di ātma-vicāra deve necessariamente essere vero. Gli argomenti che ho spiegato nelle tre precedenti sezioni non sono i soli argomenti convincenti che egli ci ha dato riguardo a questo, ma spero che siano sufficienti per spiegare a Maya e ad altri lettori perché credo di essere giustificato nel reiterare le affermazioni che egli ha fatto riguardo ātma-vicāra, e per chiunque vuole comprendere molti degli argomenti che egli ci ha dato riguardo a questo, come anche i suoi vari argomenti di sfondo (come quelli che spiegano perché non possiamo essere ciò che ora sembriamo essere, e perché è quindi necessario cercare di sperimentare noi stessi come siamo realmente), ho scritto ampiamente riguardo ad essi in numerosi altri articoli di questo blog.

Riguardo alla domanda di Maya del perché nel mio caso ātma-vicāra non è stata efficace, sebbene ammetto liberamente che non sono riuscito a sperimentare ciò che sono realmente, che è il beneficio supremo da ottenere da ātma-vicāra, non ho mai detto che non è stato affatto efficace, perché mentre compio incerti tentativi di essere attentivamente auto-consapevole, divengo sempre più fermamente convinto dell’efficacia di questo sentiero, e sebbene è difficile esprimere in pensieri o parole quale beneficio ho ottenuto da essa, in definitiva direi che mi ha dato una certa chiarezza interiore di auto-consapevolezza, così sebbene spesso dimentico o tralascio tale chiarezza, essa è disponibile ogni volta che ho sufficiente attrazione ad attendere ad essa.

Se Maya intendeva chiedermi perché se ātma-vicāra è così efficace io non sono ancora riuscito a sperimentare ciò che sono realmente nonostante l'abbia praticata per molto tempo, la semplice risposta è che non ho ancora amore sufficiente per riuscirci – cioè, non ho ancora l’ardente amore per essere consapevole soltanto di me stesso, che è tutto ciò che è richiesto per riuscire in questo sentiero. Tuttavia ho fiducia che come Bhagavan ha detto spesso se perseveriamo il più possibile cercando di praticare ātma-vicāra, certamente coltiveremo e nutriremo quell’amore nel nostro cuore, finché un giorno saremo infine pronti ad arrendere completamente noi stessi (questo ego) e quindi a dissolverci senza sforzo nel nostro sé reale.

Per spiegare ciò che egli intendeva quando ha scritto, ‘Al massimo puoi dire che credi nelle parole di Bhagavan e hai fede in lui, cosa che potrebbe essere vera per un praticante di ogni sentiero in relazione al proprio Guru’, Maya ha aggiunto: ‘Anche nella scienza sentiamo di così tante costanti scientifiche come la costante di gravitazione, il numero di Avogadro eccetera, e di teorie, ma molti studenti di scienze possono al massimo dire di credere nelle parole di Newton o di Einstein perché la maggioranza di essi non ha personalmente testato e provato qualcosa. Essi si fidano semplicemente delle parole di chi, o dei testi di studio, che hanno detto che ciò è vero’.

La scienza è uno sforzo collettivo, perché nessuno scienziato può testare e verificare personalmente tutte le osservazioni scientifiche e le teorie, così ogni scienziato deve credere all’opinione generale corrente della comunità scientifica riguardo tutte le teorie tranne quelle relative al campo specifico in cui egli o ella ha specializzato la ricerca, e dunque la scienza è ampiamente costruita sulla fiducia o fede. Questo è il motivo per cui la scienza è primariamente interessata alla verità contingente (cioè, ciò che accade essere vero) piuttosto che alla verità necessaria (cioè, ciò che è necessariamente vero). La filosofia, d’altra parte, è primariamente interessare a ciò che è necessariamente vero piuttosto che a ciò che è solo contingentemente vero.

Per esempio, il fatto che l’acqua si espande quando si ghiaccia (mentre la maggior parte degli altri liquidi si contrae quando si solidificano) è una verità contingente ma non necessaria. Non c’è una necessaria ragione logica per cui l’acqua si espanda quando si congela, ma questo accade essere vero (e il fatto che ciò è vero rende la vita come la conosciamo possibile su questo pianeta, perché se l’acqua si contraesse come gli altri liquidi, il ghiaccio affonderebbe nell’acqua, nel qual caso la superficie dell’acqua nelle regioni fredde ghiaccerebbe e affonderebbe di continuo, finché in definitiva tutti gli oceani si ghiaccerebbero, abbassando quindi la temperatura dell’intera superficie di questo pianeta). Poiché non c’è ragione logica perché l’acqua debba espandersi quando si congela, possiamo conoscere che essa si comporta in questo modo solo con l’osservazione.

Tuttavia non tutte le verità sono contingenti, perché alcune sono necessarie. Per esempio, il fatto che non ci siano cerchi quadrati non solo è contingentemente vero ma è necessariamente vero, così non abbiamo bisogno di osservare tutti i cerchi (o qualsiasi cerchio) per sapere che nessuno di essi è quadrato, perché la semplice logica richiede che nessun cerchio possa essere quadrato. Le rispettive definizioni dei due termini ‘quadrato’ e ‘cerchio’ rendono necessariamente vero che nessun quadrato può essere un cerchio e nessun cerchio può essere un quadrato.

Se lanciassimo la sfida a qualcuno che afferma che non ci sono cerchi quadrati, dicendo che egli non ha visto tutti i cerchi e non è quindi giustificato a fare tale affermazione, egli potrebbe facilmente vincere la nostra sfida spiegando perché è necessariamente vero che nessun cerchio può essere quadrato. Nello stesso modo, se lanciamo la sfida a qualcuno che afferma che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, dicendo che egli non è giustificato a fare tale affermazione a meno che egli stesso non abbia sperimentato ciò che è realmente per mezzo di ātma-vicāra, egli potrebbero facilmente vincere la nostra sfida spiegando perché è necessariamente vero che non possiamo vedere ciò che siamo realmente se non guardiamo noi stessi, o spiegando qualche altra ragione logica che Bhagavan ci ha dato per mostrare che ātma-vicāra deve necessariamente essere il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Mentre per conoscere ciò che è contingentemente vero è richiesta osservazione o esperienza, nessuna osservazione o esperienza è richiesta per conoscere ciò che è necessariamente vero, perché ciò che è necessariamente vero può essere conosciuto semplicemente per mezzo del ragionamento logico. I benefici che possono essere ottenuti da altri tipi di pratica spirituale possono essere contingentemente veri senza essere necessariamente veri, nel qual caso possono essere conosciuti solo con l’osservazione o l’esperienza e non solamente per mezzo del ragionamento logico, mentre il fatto che non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente senza attendere a noi stessi è necessariamente vero, così non si richiede osservazione o esperienza ma solo ragionamento logico per poter riconoscere che questo deve necessariamente essere vero.

Sebbene soltanto la logica non può ovviamente permetterci di sperimentare noi stessi come siamo realmente, può permetterci di sapere che il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente deve necessariamente essere ātma-vicāra, perché ‘ātma-vicāra’ è il nome dato alla pratica di osservare attentamente, guardare, attendere a o essere attentivamente consapevoli soltanto di se stessi, escludendo quindi ogni altra cosa dalla propria consapevolezza, e se non siamo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi non possiamo dissolvere l’illusione di essere questo ego (che sorge ogni volta diveniamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e resiste finché cessiamo di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa) e quindi sperimentiamo noi stessi come siamo realmente.

Quando comprendiamo perché è necessariamente vero che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, ci sembrerà ovvio che è vero, ma una verità necessaria come questa non necessariamente sembrerà ovvia a tutti, perché diviene ovvia per noi solo dopo che abbiamo considerato attentamente la ragione per cui è necessariamente vera. Come i vari argomenti che Bhagavan ci ha dato per convincerci che questa unica efficacia di ātma-vicāra è necessariamente vera, egli ci ha dato molti argomenti per convincerci che quegli altri aspetti collegati dei suoi insegnamenti sono anche necessariamente veri: per esempio, egli ci ha dato molti argomenti convincenti per persuaderci che non possiamo essere l’ego, la mente o il corpo che ora sembriamo essere, e che dovremmo quindi cercare di sperimentare noi stessi come siamo realmente. Quindi uno dei miei scopi principali rispondendo a domande che mi sono poste riguardo i suoi insegnamenti o scrivendo articoli per questo blog, è spiegare quanti degli argomenti che egli ci ha dato (che spesso ha espresso solo nella forma di un seme o un abbozzo, come un sūtra o aforisma, come quello che ha dato nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu) mostrano quegli aspetti particolati dei suoi insegnamenti sono necessariamente veri, perché solo quando comprendiamo chiaramente perché essi sono necessariamente veri, ci sembreranno ovvi e quindi saremo fermamente convinti di essi.

Essere fermamente convinti dai suoi insegnamenti e comprendere chiaramente perché gli aspetti più importanti di essi sono necessariamente veri non solo ci incoraggerà a praticarli con più diligenza e con concentrazione focalizzata ma ci aiuterà anche a impedire alla nostra mente di essere deviata in un’altra direzione. Questo è perché una profonda e attenta riflessione (manana) sui suoi insegnamenti è così importante, e perché tutti i più importanti principi che egli ci ha insegnato in testi come Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār siano sempre freschi e chiari nella nostra mente.

8. ātma-vicāra funzionerà per tutti?

Maya ha concluso il paragrafo in cui ha scritto la sua prima domanda (a cui ho risposto dalla sezione 4 alla sezione 6) e i brani a cui ho risposto nella sezione 7 dicendo ‘anche se realizzassi me stesso usando questo metodo [ātma-vicāra], so che ognuno di noi è differente e solo perché essa ha funzionato per me non significa che essa funzioni per tutti’. Tuttavia, poiché Bhagavan ci ha assicurato nel verso 17 di Upadēśa Undiyār che ātma-vicāra è ‘il sentiero diretto per tutti’ (மார்க்கம் நேர் ஆர்க்கும்: mārggam nēr ārkkum), egli intendeva che è il mezzo diretto – e quindi ‘funzionerà’ – per tutti coloro che vogliono sinceramente e con tutto il cuore sperimentare ciò che sono realmente e quindi annientare il loro ego.

È vero che ‘ognuno di noi è differente’, come dice Maya, ma sebbene siamo tutti differenti in certi punti, ci sono altri punti in cui non siamo affatto differenti. Uno di questi punti è che ciascuno di noi è un ego, così siamo legati dalla natura fondamentale di ogni ego, che è quella di sorgere, reggersi ed essere nutrito da ‘afferrare la forma’ (cioè, dare attenzione o essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi) e sprofondare e svanire attendendo soltanto a noi stessi, come Bhagavan spiega nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, così se ognuno di noi attende realmente solo a noi stessi (che è tutto quello che comporta la pratica di ātma-vicāra), il nostro ego certamente ‘prenderà il volo’ dissolvendosi per sempre nel nostro sé reale.

Tuttavia, un punto in cui siamo differenti è che ciascuno di noi ha differenti desideri, aspirazioni e propositi, così molti di noi non vogliono ancora arrendere interamente il proprio ego, e dunque non siamo attualmente disposti ad attendere solo a noi stessi. Quindi nessuno di noi sarà disposto persino a cercare di praticare ātma-vicāra finché non abbiamo almeno compreso che dovremmo cercare di liberarci da questo ego, ma finché i nostri desideri di sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi sono ancora forti, non saremo in grado di arrendere interamente il nostro ego e quindi di sperimentare ciò che siamo realmente, così abbiamo bisogno di perseverare nella nostra pratica di ātma-vicāra finché i nostri desideri e gli attaccamenti sono sufficientemente indeboliti per infine arrendere completamente il nostro ego nella luce perfettamente chiara della pura auto-consapevolezza.

Secondo Bhagavan, il mezzo più efficace con cui possiamo purificare la nostra mente (che significa indebolire tutti i suoi desideri e attaccamenti esteriorizzanti) è solo ātma-vicāra (come ha indicato chiaramente nei versi 3,4,5,6,7 e 8 di Upadēśa Undiyār), ma ci sono anche altri mezzi meno efficaci con cui possiamo in una certa misura purificare la nostra mente, così se qualcuno si sentiva più incline a praticare qualche mezzo diverso da ātma-vicāra, egli lo avrebbe incoraggiato a farlo, ma a chiunque era disposto a seguire il suo consiglio egli avrebbe spiegato perché ātma-vicāra è non solo ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), il più efficace di tutti i mezzi per purificare la mente, ma anche il solo mezzo diretto per annientarla completamente. Egli ha anche chiarito che qualunque altro sentiero si possa seguire e per quanto si possa purificare la propria mente di conseguenza, essa non sarà annientata con nessun mezzo diverso da ātma-vicāra – cioè, rivolgerla all’interno per attendere soltanto a noi stessi e quindi affogandola nella luce della pura auto-consapevolezza.

9. ātma-vicāra è un mezzo garantito per indebolire le nostre viṣaya-vāsanā ed infine annientare il nostro ego

La seconda ‘domanda schietta e diretta’ che Maya mi ha posto era nel suo paragrafo successivo, in cui ha scritto: ‘Se tu mi dici che il motivo per cui non hai ancora realizzato te stesso anche dopo tutti questi anni, è perché ci sono tanti altri fattori come le proprie vasana, samskara (tendenze), Grazia, ecc. questo non significa che la tecnica soltanto non è una garanzia? Dopo tutto ci sono stati molti che seguendo altri sentieri hanno realizzato il sé più velocemente e alcuni di essi sono devoti di Bhagavan. E così come puoi fare questa affermazione se l’auto indagine non è abbastanza potente da vincere le tue vasana dopo decadi di pratica?’

Ci sono qui diversi punti di confusione. Prima di tutto, la grazia non è semplicemente un altro fattore ma l’unico e solo fattore essenziale, perché secondo Bhagavan la grazia è semplicemente l’amore che abbiamo per il nostro sé, così senza tale grazia nessuno mai inizierebbe a praticare ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine). La più alta manifestazione di grazia in una persona è il suo praticare ātma-vicāra essendo accuratamente auto-attentivi, e la massima fruizione di grazia è l’esperienza di vera auto-conoscenza, che è ciò che rimane dopo che l’ego è stato completamente dissolto e annientato da tale auto-attentività. Quindi ātma-vicāra è inseparabile dalla grazia. È guidata solo dalla grazia, ed ha come risultato l’esperienza che soltanto la grazia esiste, perché la grazia è ciò che siamo realmente.

In secondo luogo, se le proprie viṣaya-vāsanā (inclinazioni o desideri a sperimentare cose diverse da sé stessi) sono così forti che uno non sperimenta se stesso come è realmente anche dopo molti anni di cercare di praticare ātma-vicāra, questo non significa che ātma-vicāra non stia avendo effetto, perché secondo Bhagavan ogni piccolo tentativo che facciamo di essere auto-attentivi indebolirà sicuramente le nostre viṣaya-vāsanā in misura proporzionata, così se perseveriamo nel cercare di essere auto-attentivi quanto più possiamo, le indeboliremo gradualmente ed infine le distruggeremo insieme con la loro radice, il nostro ego. Inoltre saremo in grado di mantenere fermamente un’intensa auto-attentività (e di ritornare ad essa frequentemente, ogni volta che siamo distratti da altri pensieri) solo nella misura in cui le nostre viṣaya-vāsanā saranno indebolite, così quando le nostre viṣaya-vāsanā sono ancora molto forti, saremo solo in grado di praticare ātma-vicāra con incertezza e irregolarmente, e ogni tentativo che facciamo di essere auto-attentivi sarà meno intenso e preciso di quanto lo sarebbe se le nostre viṣaya-vāsanā fossero meno forti.

In altre parole, la tenacia e la precisione della nostra auto-attentività è inversamente proporzionale alla forza delle nostre viṣaya-vāsanā, così essa aumenta nella misura in cui esse sono indebolite dalla pratica persistente. Questo non significa che una persona come me le cui viṣaya-vāsanā sono ancora molto forti non possa praticare ātma-vicāra, ma solo che il suo progresso inizialmente sarà molto lento e che potrà impiegare molti anni (o forse anche vite) per riuscire infine ad annientare il proprio ego.

Tuttavia, secondo Bhagavan, non importa quanto possano essere forti le nostre viṣaya-vāsanā, il mezzo più veloce ed efficace per indebolirle è ātma-vicāra, così non dovremmo avvilirci immaginando che poiché le nostre viṣaya-vāsanā sono così forti dovremmo iniziare praticando altri tipi di pratica spirituale. Se per sua grazia siamo stati attratti a questo sentiero e se siamo fermamente convinti da tutto ciò che egli ci ha insegnato riguardo la sua efficacia unica, dovremmo solo perseverare nel fare del nostro meglio per essere auto-attentivi quanto più possiamo, perché non c’è altro sforzo con cui potremmo indebolire le nostre viṣaya-vāsanā più efficacemente o velocemente.

Quindi la risposta alla domanda di Maya, ‘questo non significa che la tecnica soltanto non è una garanzia?’, è semplicemente ‘no, non significa questo’. Secondo Bhagavan non solo ātma-vicāra è il mezzo più veloce ed efficace per indebolire le nostre viṣaya-vāsanā, non importa quanto esse possano essere forti, ma è anche il solo mezzo con cui possiamo in definitiva annientare completamente il nostro ego. Altri mezzi possono indebolire in qualche misura le nostre viṣaya-vāsanā, ma non possono annientare il nostro ego, che è la radice e il possessore di tutte le viṣaya-vāsanā, e quindi non possono distruggere completamente le nostre viṣaya-vāsanā, né possono indebolirle tanto efficacemente o tanto velocemente quanto lo fa ātma-vicāra.

Bhagavan ci ha assicurato che se perseveriamo cercando di praticare ātma-vicāra, l’indebolimento delle nostre viṣaya-vāsanā e l’eventuale annientamento del nostro ego è garantito, proprio come se perseverassimo cercando di guardare direttamente e attentamente il sole di mezzogiorno nella chiara luce tropicale l’accecamento dei nostri occhi sarebbe garantito. Proprio come non possiamo guardare direttamente e attentamente il sole in queste condizioni senza essere di conseguenza accecati, non possiamo guardare direttamente e attentamente noi stessi senza che il nostro ego sia annientato. Quindi se il nostro ego non è ancora stato annientato nonostante il nostro cercare di guardare noi stessi direttamente e attentamente, questo indica semplicemente che non siamo ancora riusciti a guardare noi stessi in modo sufficientemente diretto o attento. Cioè, proprio come eviteremmo naturalmente di guardare il sole di mezzogiorno troppo direttamente o attentamente a meno che avessimo un amore travolgente per essere accecati e quindi non vedere più niente, così finché le nostre viṣaya-vāsanā (i nostri desideri di sperimentare altre cose) sono forti, naturalmente evitiamo di guardare noi stessi troppo direttamente e attentamente, perché non abbiamo ancora amore sufficiente per annientate il nostro ego e quindi per non sperimentare più niente di diverso da noi stessi. Quindi solo perché non siamo ancora disposti a guardare noi stessi abbastanza direttamente e attentamente da annientare il nostro ego non significa che guardare noi stessi abbastanza direttamente e attentamente non sia garantito per annientare il nostro ego.

Maya ha dedotto che poiché le mie viṣaya-vāsanā sono ancora troppo forti perché io sia disposto a guardare me stesso abbastanza direttamente e attentamente per annientare il mio ego, nonostante il fatto che per molti anni ho cercato in questo modo di guardare me stesso, questo significa che guardare se stessi abbastanza direttamente e attentamente non è un mezzo garantito per annientare il proprio ego, mentre quello che avrebbe dovuto dedurre è semplicemente che ho cercato con entusiasmo troppo scarso, perché non voglio ancora annientare il mio ego più di quanto voglio sperimentare qualsiasi altra cosa. Se avessi l’amore necessario per annientare il mio ego, potrei farlo qui e ora, in questo preciso momento, perché tutto ciò che avrei bisogno di fare è guardare me stesso abbastanza direttamente e attentamente. Tuttavia, non ho ancora l’amore necessario, perché le mie viṣaya-vāsanā sono ancora troppo forti, così ho bisogno di perseverare nel cercare di guardare me stesso finché esse sono sufficientemente indebolite e in corrispondenza il mio amore per sperimentare soltanto me stesso per sempre è sufficientemente rafforzato.

Supponiamo che dicessimo a qualcuno che il solo mezzo con cui può vedere ciò che è dietro di lui è di voltarsi e guardare, se egli discutesse che questo non è un mezzo garantito perché egli può non volere voltarsi e guardare o può essere troppo debole per farlo, quel suo argomento non sarebbe ovviamente buono, perché il fatto che egli non vuole o è troppo debole per voltarsi e guardare non significa che non avrebbe garanzia di vedere ciò che c’è dietro di lui se si voltasse a guardare. Nello stesso modo, l’argomento di Maya che ātma-vicāra non è un mezzo garantito per annientare il proprio ego perché altri fattori come le proprie viṣaya-vāsanā possono essere un ostacolo è ovviamente non buono, perché le viṣaya-vāsanā sono solo il proprio desiderio di sperimentare viṣaya (cose diverse da sé stessi), e così finché uno ha un tale desiderio non sarà ovviamente disposto a guardare sé stessoi abbastanza direttamente e attentamente per annientare il proprio ego.

Una certa medicina può essere un mezzo garantito per curare la nostra malattia, ma per curarla abbiamo bisogno di inghiottire completamente quella medicina. Nello stesso modo, sebbene ātma-vicāra è un mezzo garantito per annientare il nostro ego, abbiamo bisogno di praticarla con molta persistenza e attenzione per annientare il nostro ego. Quindi se nel mio caso essa non ha ancora annientato il mio ego, è semplicemente perché non l’ho ancora praticata con sufficiente persistenza e attenzione.

Un altro punto di confusione in ciò che Maya ha scritto in questo paragrafo è la sua affermazione che ‘ci sono stati molti che seguendo altri sentieri hanno realizzato più velocemente il sé’. Presumo che ciò che egli intende dicendo che essi ‘hanno realizzato il sé’ è che hanno sperimentato loro stessi come sono realmente e hanno quindi annientato il loro ego, ma per sperimentare ciò che sono realmente devono aver rivolto la loro attenzione verso loro stessi, perché se non avessero fatto questo non sarebbero stati in grado di vedere ciò che sono realmente. In altre parole, qualunque altro sentiero possono aver seguito per indebolire le loro viṣaya-vāsanā, devono in definitiva aver praticato ātma-vicāra almeno per un momento, perché ātma-vicāra è semplicemente la pratica di rivolgere la propria attenzione all’indietro per vedere sé stessi, e se uno non fa questo non può ovviamente vedere ciò che è realmente.

Inoltre usando la parola ‘più veloce’ come egli ha fatto in questo contesto fa sembrare la pratica spirituale come una gara tra persone per vedere chi può raggiungere per primo la linea finale. In una gara, se una persona inizia due metri dalla linea finale e avanza lentamente verso di essa, può arrivare molto ‘più velocemente’ (o piuttosto più presto) di un’altra persona che inizia dieci chilometri più lontano e corre più che può. Nel caso della pratica spirituale, noi non sappiamo da dove ogni persona ha iniziato né quello che essi hanno effettivamente praticato interiormente, e non possiamo neppure conoscere chi ha realmente attraversato la linea finale, così non possiamo giudicare l’efficacia relativa o la velocità di pratiche differenti solamente sulla base di chi noi crediamo abbia attraversato la linea rapidamente e seguendo quale pratica.

Quando scrivo che ātma-vicāra è il mezzo più efficace e veloce con cui indebolire le nostre viṣaya-vāsanā, non sto facendo alcun confronto tra persone diverse ma solo tra diversi mezzi che ciascuno di noi può scegliere di adottare per indebolirle. Secondo Bhagavan, non importa quanto forti possono essere attualmente le nostre viṣaya-vāsanā, se vogliamo indebolirle il mezzo più efficace e veloce è di cercare di essere quanto più possibile auto-attentivi.

Ci sono altri mezzi con cui possiamo farlo, ma nessuno di essi sarà tanto efficace o tanto veloce quanto il cercare seriamente e con persistenza di essere auto-attentivi. Questo è ciò che Bhagavan ha indicato chiaramente e inequivocabilmente dal verso 4 al verso 8 di Upadēśa Undiyār, in cui tratteggia i vari mezzi con cui possiamo purificare la nostra mente (che significa indebolire le nostre viṣaya-vāsanā) in ordine crescente di efficacia, e nel verso 8 egli dichiara esplicitamente che அனனியபாவம் (aṉaṉiya-bhāvam) – che significa ‘meditazione senza altro’ o ‘meditazione su ciò che non è altro [che sé stessi]’ e che è quindi una descrizione alternativa di ātma-vicāra – è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), che significa ‘il migliore di tutti’ o ‘il migliore tra tutti’, implicando quindi nel contesto del verso precedente che è il mezzo più efficace per purificare la propria mente.

(Suggerisco a Maya in particolare di leggere attentamente questa serie di versi da Upadēśa Undiyār e poi riconsiderare l’opinione che egli ha espresso in un commento successivo, vale a dire ‘Ma io ancora sostengo la mia opinione che tutti i metodi sono ugualmente efficaci’, perché questa opinione è chiaramente opposta a ciò che Bhagavan ci ha insegnato in questi versi.)

Confrontare la relativa efficacia dei vari tipi di pratica spirituale, come Bhagavan fa in questi versi, ci è utile perché ci aiuta a decidere con quale mezzo dovremmo cercare di indebolire le nostre viṣaya-vāsanā e quindi di purificare la nostra mente. Tuttavia una cosa che ciascuno di noi aspiranti spirituali dovrebbe cercare di evitare è di confrontare noi stessi in ogni modo con altre persone o fare ogni genere di confronto tra qualunque cosa possiamo credere riguardo lo stato spirituale di altri, come ciò che essi possono aver praticato interiormente o quanto velocemente o fin dove sono avanzati. Poiché noi non conosciamo neppure ciò che siamo realmente, in definitiva non possiamo sapere ciò che può essere lo stato interiore di qualcun altro o ciò che possono aver praticato interiormente, così fare tali confronti è futile e può solo portare a conclusioni che molto probabilmente saranno esageratamente sbagliate.

Inoltre secondo ciò che Bhagavan ci ha insegnato, è un errore credere che qualcuno ha sperimentato ciò che è realmente con qualche mezzo diverso da ātma-vicāra, perché non possiamo vedere ciò che siamo realmente se non guardiamo direttamente e attentamente noi stessi, e non possiamo annientare il nostro ego dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi non importa quale altro sentiero tutti noi possiamo seguire, non saremo in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi di distruggere l’illusione di essere questo ego finché e a meno che non pratichiamo ātma-vicāra – cioè, finché e meno che non rivolgiamo la nostra attenzione o sguardo mentale verso noi stessi per guardarci direttamente e attentamente.

10. Ciò che Bhagavan ha detto riguardo i termini Inglesi ‘realizzare’ e ‘realizzazione’

Nel commento in cui egli ha posto le sue ‘domande schiette e dirette’ Maya ha usato la parola ‘realizzare’ e variazioni di essa diverse volte per intendere conoscere o sperimentare sé stessi come si è realmente. Sebbene ‘realizzare’ e ‘realizzazione’ sono spesso usate in questo senso nei libri sugli insegnamenti di Bhagavan, egli a volte ha indicato che non è realmente un termine appropriato da usare in questo contesto, perché è ambiguo e può creare confusione nella nostra comprensione di ciò che dovremmo mirare a sperimentare.

Sebbene egli generalmente non parlava Inglese, lo comprendeva abbastanza per sapere il significato di ‘realizzare’. Quindi, poiché il suo significato di base è rendere reale (o rendere come se reale), egli era solito dire scherzando ma con un intento serio che noi siamo sempre reali, così non abbiamo bisogno di essere realizzati, e che il solo problema è che ora abbiamo realizzato ciò che realmente è irreale, di cui la radice e l’essenza è il nostro ego, così quello che abbiamo bisogno di fare non è realizzare noi stessi ma solo non realizzare il nostro ego e tutte le altre cose irreali che esso sperimenta come se fossero reali.

Egli comprendeva senza dubbio che ‘realizzare’ significa anche comprendere chiaramente o divenire consapevole di qualcosa, ma notava che il modo in cui spesso è usato nel contesto dei suoi insegnamenti è confondente e ingannevole, perché il suo significato è ambiguo e troppo impreciso. Per esempio, in Inglese il termine ātma-jñāni è spesso tradotto come una ‘persona auto-realizzata’, che è ingannevole perché implica che una persona può conoscere o sperimentare ātman come realmente è, mentre di fatto ātma-jñāna è lo stato in cui la persona che tentava di conoscere ātman ha cessato di esistere. Ciò che questo termine ātma-jñāni significa realmente è ‘auto-conoscitore’ nel senso di ciò che sperimenta sé stesso come è realmente, così egli spesso diceva che il solo ātma-jñāni è lo stesso ātman, perche ātman (il nostro sé reale) non può essere conosciuta o sperimentata come realmente è da qualsiasi cosa diversa da sé stessi.

Un’altra ragione del perché il termine ‘auto-realizzazione’ è potenzialmente così ingannevole è che in psicologia, nell’uso popolare e in molti dizionari Inglesi esso ha un significato completamente differente e anche del tutto opposto a ātma-jñāna, perché è usato nel senso di realizzare il proprio pieno potenziale personale o ‘realizzazione da se stessi delle possibilità del proprio carattere o personalità (come può essere visto in questo articolo di Wikipedia, in modo particolare nella sezione dell’interpretazione Occidentale), e questo uso popolare del termine è spesso confuso con il senso in cui esso è usato nei libri Inglesi sulla spiritualità Orientale.

Nel suo commento Maya si è riferito alla domanda se ho realizzato me stesso o meno, intendendo quindi che la persona chiamata Michael può o non può essere ‘auto-realizzata’, ma ‘Michael’ è il nome dato a una certa persona o ego, così Michael non può mai essere auto-realizzato, perché se egli fosse auto-realizzato avrebbe cessato di essere Michael. Nessun ego o persona può mai ‘realizzare’ o sperimentare sé stesso come realmente è, perché quando sperimenteremo ciò che siamo realmente, realizzeremo che non siamo e non siamo mai stati un ego o una persona. È solo nella visione di noi stessi come questo ego che ora sembriamo essere questo ego, ma poiché questo ego è solo un’apparizione irreale, non siamo mai realmente stati e mai potremmo essere questo ego o qualsiasi cosa diversa da ciò che siamo realmente.

11. Come mi sono convinto della necessità imperativa di ātma-vicāra

In due dei suoi successivi commenti anonimi (vale a dire questo e questo) Maya ha suggerito che sarebbe d’aiuto a lui e ad altri, ‘primariamente come una motivazione’, se io scrivessi della mia esperienza personale riguardo la pratica di ātma-vicāra, come esattamente ho cominciato a praticarla, se essa ha fatto presa su di me nel momento in cui ho letto di essa o se stavo cercando in altre direzioni prima di essere convinto riguardo il potere di ātma-vicāra, e come giunsi a prendere la spiritualità come il mio fine. Un altro amico di nome Sivanarul ha fatto una richiesta simile in uno dei suoi commenti, chiedendo in particolare che effetto ha avuto su di me praticare ātma-vicāra per così tanti anni.

Riguardo la mia esperienza effettiva di ātma-vicāra non posso scrivere niente, perché quando pratichiamo ātma-vicāra stiamo cercando di sperimentare o essere consapevoli soltanto di noi stessi, così poiché l’auto-consapevolezza è qualcosa di cui tutti abbiamo familiarità ma che nessuno potrebbe mai descrivere a parole, niente può essere scritto riguardo a questo. Naturalmente, quando cerco di essere attentivamente consapevole soltanto di me stesso, lotto per essere così, perché la mia attenzione tende ad essere velocemente distratta da altri interessi e pensieri, ma se scrivessi qualcosa riguardo tali lotte non starei scrivendo di ātma-vicāra (che è solo auto-attentività) ma solo riguardo i miei ripetuti fallimenti dei miei tentativi di praticarla. Senza dubbio tutti noi abbiamo sperimentato tali fallimenti e le lotte conseguenti, ma come Bhagavan ci ha insegnato il solo modo per riuscire è quello di perseverare nel cercare, rivolgendo la nostra attenzione verso noi stessi ogni volta che scivola lontano verso qualsiasi altra cosa.

Tuttavia, ciò che Maya e Sivanarul mi hanno chiesto non era riguardo la mia esperienza di ātma-vicāra ma piuttosto riguardo il contesto in cui la pratico, come sono stato attratto ad essa e che effetto ha avuto su di me. Generalmente non ritengo utile scrivere qualcosa riguardo la mia esperienza personale, perché l’intero scopo di ātma-vicāra è vedere che la persona o ego che ora sembriamo essere non è ciò che siamo realmente ed è completamente irreale, così da questa prospettiva le esperienze personali sono completamente irrilevanti e interessarsi ad esse aiuterà solo a perpetuare la nostra illusione di essere qualunque persona ora sembriamo essere. Tuttavia, cercherò di dire alcune cose che possono essere utili riguardo a questo.

Prima di tutto, in risposta alle domande di Maya riguardo a come sono stato attratto a questa pratica, penso di essere sempre stato di inclinazione mentale piuttosto spirituale, perché mi ricordo come un piccolo bambino chiedermi se tutto questo era solo un sogno e come uno avrebbe potuto sapere se stava sognando o meno. Sono stato educato come un Cattolico Romano e ho trascorso dieci anni in collegi Cattolici, e sebbene da giovane ero piuttosto religioso o interessato alle materie religiose, crescendo ho iniziato a pormi sempre più domande, come perché si dovrebbe credere a tutto ciò che è chiesto di credere da una tale religione, in modo particolare riguardo a Dio (non che non volessi credere in esso, ma volevo che ogni credo a cui ero fedele fosse basato su ragioni solide), e la sola risposta che i monaci della mia scuola hanno potuto darmi era che si deve semplicemente avere fede, che non mi sembrava una risposta molto soddisfacente, così come un ragazzo divenni sempre più disilluso da quel tipo di religione fondata su una fede cieca.

Quindi poco dopo aver lasciato la scuola ho viaggiato in India con un’idea vaga che fosse un paese con una ricca tradizione spirituale e poteva quindi essere un luogo dove potevo trovare alcune risposte utili alle mie domande riguardo la vita. Non conoscevo quasi niente riguardo l’Induismo o il Buddhismo prima di arrivare in India, ma mentre mi trovavo lì ho viaggiato visitando templi e luoghi sacri, in modo particolare l’Himalaya, ho letto tutti i libri spirituali che ho potuto trovare, ho parlato con sādhu e con altre persone con interessi simili, e ho fatto un corso di meditazione vipassanā prima di giungere infine a Tiruvannamalai.

Sono giunto lì perché avevo sentito di Bhagavan mentre ero in Sri Lanka e avevo letto un racconto della sua esperienza di morte a Madurai, così ero curioso di saperne di più, ma ho effettivamente iniziato a leggere i suoi insegnamenti solo dopo che sono giunto lì. Uno dei primi libri che ho letto è stato una traduzione di Nāṉ Yār?, e appena l’ho letto ho sentito 'è questo' – questo è ciò che stavo cercando. Mi è sembrato veramente così ovvio leggere che ‘io’ è il centro e il fondamento di tutto ciò che sperimentiamo o conosciamo, così se non conosciamo cos’è questo ‘io’ non possiamo realmente conoscere con certezza qualsiasi altra cosa.

Non possiamo conoscere quanto è forte una costruzione se non conosciamo quanto forti sono le sue fondamenta. Può sembrare molto forte, ma se le sue fondamenta sono deboli può collassare in qualsiasi momento. Nello stesso modo, sebbene tutto ciò che sperimentiamo, conosciamo o crediamo sembra essere molto reale, se l’’io’ su cui tutto è costruito non è reale o non è ciò che sembra essere, potrebbe essere solo un’illusione, come un sogno. Quindi dopo aver letto Nāṉ Yār? mi è sembrato ovvio che la cosa più importante e urgente da fare è cercare di sapere cos’è realmente questo ‘io’, e ora, circa quarant’anni dopo, questo mi sembra più che mai sempre più ovvio.

Dopo aver letto Nāṉ Yār? ho voluto comprendere tutto ciò che potevo riguardo la pratica di ātma-vicāra, così ho iniziato a leggere altri libri riguardo i suoi insegnamenti, ma ho scoperto che molti di essi sembravano dare spiegazioni di essa molto confondenti e non convincenti, come il punto di vista di Osborne che comporta il meditare sul lato destro del proprio petto. Fortunatamente dopo essere stato a Tiruvannamalai per solo una settimana o due, qualcuno mi ha prestato una copia di Il Sentiero di Sri Ramana di Sadhu Om, e leggere la sua spiegazione che ātma-vicāra è semplicemente la pratica di auto-attenzione mi ha convinto, così ho chiesto all’amico che mi aveva passato il libro se potevo incontrare Sadhu Om, ed egli si è offerto di portarmi da lui. Quando l’ho incontrato ho scoperto che egli era lo stesso sādhu che avevo incontrato di primo mattino la settimana precedente al Kubera Lingam facendo giri-pradakṣiṇa. Dopo averlo conosciuto avevo l’abitudine di visitarlo ogni volta che avevo una domanda da porre riguardo gli insegnamenti di Bhagavan, e circa sei mesi dopo, poiché gli avevo chiesto alcune delle traduzioni di Guru Vācaka Kōvai che avevo letto in The Mountain Path, egli mi ha proposto di iniziare a fare insieme una nuova traduzione di esso, cosa che mi ha dato l’impareggiabile opportunità di iniziare a studiare in profondità gli insegnamenti di Bhagavan sotto la sua chiara guida.

Questo è realmente tutto quello che c’è da sapere riguardo a come Bhagavan mi ha attirato al sentiero di ātma-vicāra e mi ha convinto che questa è la cosa più importante che abbiamo bisogno di fare, perché essa è il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi liberarci dall’illusione di essere questo ego limitato e transitorio. Ciò che egli ha dato a me e a ciascuno di noi nella forma dei suoi insegnamenti riguardo ātma-vicāra è un dono e un tesoro di inestimabile valore, così benché siamo indegni di ricevere un tale dono, dobbiamo fare del nostro meglio per ricavare il pieno beneficio che egli vuole che ricaviamo da essa.

Riguardo la domanda di Sivanarul riguardo a che effetto ha avuto su di me praticare ātma-vicāra per così tanti anni, è difficile da dire, in parte perché non so come sarei stato se non l’avessi praticata, e in parte perché non potrei immaginare la mia vita senza di essa e, cosa più importante, perché non possiamo realmente misurare o conoscere che progresso stiamo facendo quando seguiamo questo o qualsiasi altro sentiero spirituale. Tutto ciò che posso dire è che essa ha trasformato la mia intera visione della vita, e cercare di praticarla mi ricorda costantemente di quanto poco amore autentico ho per essere consapevole soltanto di me stesso e di quanto forti sono ancora i miei desideri esteriorizzanti. Tuttavia, sebbene so che ancora manco dell’amore sufficiente per arrendere interamente il mio ego a Bhagavan (che è il nostro sé reale), so anche che essendo stato attratto a questo sentiero dalla sua grazia senza causa (kāraṇam-illāda karuṇai) ora non posso abbandonarlo.

12. Come possiamo ridurre ed infine distruggere tutto il desiderio di lode?

Dopo che Maya ha scritto il suo ‘paio di domande schiette e dirette’ in un commento anonimo, un altro amico anonimo ha scritto qualche altra ‘domanda schietta e diretta’ in un paio di commenti, ma mentre le domande di Maya riguardavano i punti di vista che esprimo in questo blog, chiedendo in effetti che giustificazioni ho per affermare che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e il mezzo più efficace per purificare la nostra mente, le domande dell’altro amico anonimo riguardavano le mie motivazioni personali per esprimere questi punti di vista. Mentre sono stato in grado di rispondere alle domande di Maya spiegando le ragioni logiche che Bhagavan ci ha dato per le affermazioni che ha fatto riguardo l’immediatezza e l’efficacia di ātma-vicāra e come queste ragioni logiche giustificano non solo la mia ferma convinzione in ciò che egli ha affermato ma anche la mia sicura ripetizione delle sue affermazioni, ovviamente non posso fornire risposte logicamente convincenti alle domande dell’altro amico anonimo riguardo le mie motivazioni, ma cercherò di rispondere ad esse come posso e in un modo che possano essere di qualche aiuto.

Questo altro amico anonimo ha chiesto sei domande principali, tre che ha classificato da (a) a (c) nel suo primo commento e altre tre che ha classificato da (d) a (f) nel suo secondo commento, così per maggiore chiarezza classificherò le mie risposte a ciascuna di esse nello stesso modo.

a) Questo amico anonimo ha scritto: ‘Tu dici di rispondere alle domande perché questo ti aiuta a praticare gli insegnamenti di Bhagavan più efficacemente poiché essi chiedono da molte prospettive che non avevi valutato. Non ho mai visto qualcuno metterti in difficoltà. Tu sei sempre molto abile e le persone alla fine continuano a ringraziarti, non il contrario. Sembra che tu abbia considerato prima tutte le prospettive. Il beneficio che supponi è solo una maschera che puoi indossare. Il desiderio segreto può essere una brama di lode […] Hai dipendenza dalla lode?’

Finché il nostro ego sopravvive, nessuno di noi può affermare di essere impermeabile al desiderio di lode o apprezzamento, e poiché ogni lode o apprezzamento che possiamo ricevere alimenta e rinforza il nostro ego, abbiamo bisogno di essere vigili per tenere sotto controllo questo desiderio, così apprezzo questo avvertimento del nostro amico anonimo. Tuttavia, per quanto sono consapevole il desiderio di lode non è la mia motivazione primaria per rispondere alle domande che mi sono poste o per scrivere questo blog, né sono consapevole che quel desiderio sia in me particolarmente forte, così non mi sembra di essere dipendente dalla lode, sebbene sono ben consapevole di quanto possono essere ingannevoli il nostro ego e i suoi desideri.

Poiché è possibile che il mio desiderio di lode sia più forte di quanto mi sembri essere, potrei evitare di rispondere alle domande o di scrivere questo blog per evitare il pericolo di essere lodato e di avere innalzato il mio ego, ma fare questo non distruggerebbe il mio desiderio, e può anche rendermi meno consapevole di esso. Non possiamo liberarci da qualche desiderio solamente evitando le circostanze che sono soggette a renderlo manifesto, ma solo essendo interiormente vigili per tenerlo sotto controllo in tutte le circostanze, specialmente quelle che sono soggette a farlo sorgere. Tuttavia, poiché la radice di tutti i desideri è solo il nostro ego, e poiché possiamo tenere il nostro ego sotto controllo solo osservandolo con vigilanza, cercare di essere auto-attentivi in tutte le circostanze è il modo più efficace di tenere sotto controllo il nostro ego insieme a tutti i suoi desideri.

Quando questo amico anonimo dice, ‘Non ho mai visto qualcuno metterti in difficoltà. Tu sei sempre molto abile’, sembra come se discutere gli insegnamenti di Bhagavan sia inteso come una competizione per vedere chi è abbastanza abile da mettere qualcuno in difficoltà. Questo non è affatto lo spirito in cui i suoi insegnamenti dovrebbero essere discussi o in cui essi sono discussi in questo blog. Quelli che leggono e commentano in questo blog lo fanno per comprendere i suoi insegnamenti più chiaramente e per partecipare a una seria discussione su di essi, e questo è il solo scopo per cui scrivo questi articoli. Noi tutti aspiriamo a seguire i suoi insegnamenti come meglio possiamo, e per quanto sono consapevole nessuno di noi è minimamente interessato a vedere qualcuno mostrare la propria abilità a mettere in difficoltà qualcuno.

b) Questo amico anonimo poi ha scritto: ‘I lettori continuano a riciclare le stesse domande per molto tempo. ‘Dove trovare ‘io’’, la grazia, l’ego e tutta la baracca e i burattini. Se tu non sei dipendente dalla lode, perché non ti riferisci solo agli articoli che hai già scritto? Stai generando ricercatori pigri che non si muovono di un millimetro, che non cercano negli articoli che hai scritto, che non leggono il libro che hai scritto. Essi voglio ogni cosa su un vassoio perché tu sei lì a nutrirli, mentre stai nutrendo il tuo ego. […] Il tempo speso su questo sarebbe di più grande valore se tu lo usassi nello stile ‘autobiografia’ che stavo suggerendo […].

Non credo che i lettori di questo blog o altri amici che mi scrivono intendono riciclare le domande, ma semplicemente chiedere riguardo aspetti degli insegnamenti di Bhagavan che non comprendono o di cui sono insicuri, e lo fanno perché stanno cercando di praticare ciò che egli ci ha insegnato. Le domande che pongono possono essere simili a domande che mi sono già state rivolte, ma ciascuno di loro chiede queste domande dalla loro prospettiva unica, così faccio del mio meglio per rispondere ad essi in un modo che spero sia loro di aiuto.

Poiché i suoi insegnamenti sono essenzialmente molto semplici, le risposte che scrivo possono essere simili a quelle che ho già scritto, ma non sono mai esattamente le stesse, ed anche se prima ho risposto a domande simili, non posso ricordare tutte le risposte che ho scritto in precedenza o dove le ho scritte. Ogni domanda a cui rispondo mi spinge a pensare ai suoi insegnamenti da una prospettiva nuova e differente e mi aiuta a mantenere la mia mente a dimora in essi, cosa che mi aiuta nella mia pratica. Questo è (o dovrebbe essere) il solo scopo di ogni discussione riguardo i suoi insegnamenti, e questa discussione giungerebbe velocemente a una fine se invece di scrivere una nuova risposta a ogni domanda mi riferissi semplicemente a ciò che ho scritto da qualche altra parte.

Inoltre, non credo di star servendo ogni cosa su un vassoio, perché alla maggior parte delle domande dò risposte attentamente ragionate e basate in gran parte sugli scritti originali di Bhagavan, così lo scopo delle mie risposte è di spingere chi fa la domanda e gli altri lettori a pensare più attentamente in loro stessi ai suoi insegnamenti. La mia comprensione dei suoi insegnamenti è derivata dall’averli studiati, dall’aver riflettuto attentamente su di essi e sulle loro implicazioni, e dal cercare di fare del mio meglio per praticarli, così lo scopo delle risposte è di incoraggiare ed aiutare altri a sviluppare la loro propria comprensione in un modo simile.

Non mi aspetto che qualcuno accetti i miei argomenti senza discutere, ma che pensi ad essi in modo critico e che giudichi da sé stesso se (o in quale misura) ciò che scrivo riflette con precisione ciò che Bhagavan voleva che comprendessimo dai suoi scritti e dagli altri insegnamenti. Come può essere visto da chiunque legge tutti i commenti presenti qui, non tutti concordano completamente con i miei punti di vista riguardo ciò che egli voleva dire o intendeva, ma accetto volentieri questo disaccordo se esso aiuta ciascun lettore a pensare più criticamente ai suoi insegnamenti e a qualunque cosa io o chiunque altro può scrivere su di essi.

Il nostro amico anonimo ha terminato questo paragrafo suggerendo che il tempo che spendo scrivendo risposte alle domande di altri amici sarebbe speso meglio se scrivessi in uno stile da ‘autobiografia’, che sembra implicare che egli pensa che sarebbe più utile se spendessi il mio tempo a scrivere di me stesso come una persona invece che degli insegnamenti di Bhagavan. Devo dissentire da questo, perché non c’è niente di interessante riguardo me di cui potrei scrivere, e perché scrivere di me stesso sarebbe soggetto ad accrescere il mio ego più di quanto lo è scrivere dei suoi insegnamenti. Io scrivo solo dei suoi insegnamenti perché essi sono il mio interesse principale, e perché farlo mi è benefico e forse lo è anche per altri, mentre né io né chiunque altro sarebbe minimamente beneficiato se invece spendessi il mio tempo a scrivere di me stesso o della mia vita come una persona.

L’assunto primario dietro le prime due domande di questo amico anonimo, alle quali ho risposto in questa sezione, è che sono dipendente dalla lode e dunque motivato da un desiderio segreto per essa. Quindi per il gusto di discutere supponiamo che sia così. Se io sono dipendente dalla lode e mosso dal desiderio per essa, è un mio problema che io solo posso superare. La mia dipendenza e il desiderio non è un problema di cui i lettori di questo blog hanno bisogno di occuparsi, perché non c'è niente che essi possono fare per permettermi di superarlo, tranne forse farmi notare che sembro essere afflitto da questa dipendenza e desiderio, come ha fatto il nostro amico anonimo. Se fossi in grado di riconoscere che sono così afflitto e quindi reagissi cercando di ridurre questo desiderio, averlo ricordato mi sarebbe di beneficio e mi aiuterebbe a dominare il mio ego.

Oltre a questo, comunque, le mie motivazioni personali non devono essere di alcun interesse per i lettori di questo blog, perché ciò a cui hanno bisogno di interessarsi e solo se ciò che scrivo riflette con precisione ciò che Bhagavan intendeva insegnarci e lo spiega in modo corretto. Poiché ciò che scrivo è basato principalmente sui suoi scritti originali e poiché spiego chiaramente le ragioni per cui credo che essi intendono ciò che affermo che intendono, sta a ogni lettore giudicare da sé stesso se ciò che scrivo è corretto e utile nella propria manana e nella pratica di ciò che egli ha insegnato.

13. Perché considero necessario respingere i concetti che deviano dai reali insegnamenti di Bhagavan?

Le tre successive ‘domande schiette e dirette’ di questo amico anonimo riguardavano il fatto che in questo blog qualche volta critico e respingo certe idee che sono state espresse pubblicamente da altri devoti ma che credo che deviino da ciò che Bhagavan voleva realmente insegnarci, così in questa sezione cercherò di spiegare perché considero necessario farlo. Chiunque ha letto attentamente e con ponderazione una gamma dei vari libri e di altri scritti pubblicati riguardo i suoi insegnamenti avrà notato che ogni scrittore ha compreso e interpretato i suoi insegnamenti in un modo molto differente e spesso contrario a quello di molti degli altri scrittori, e che non tutti questi punti di vista e interpretazioni conflittuali possono essere corretti, così ciascuno di noi deve usare il proprio giudizio per decidere quello che Bhagavan intendeva realmente farci comprendere e quindi quali interpretazioni sono corrette e quali non lo sono.

Tuttavia, nel mezzo di tutte le interpretazioni conflittuali può essere difficile per noi giudicare questo, in modo particolare se dobbiamo fare affidamento solo sulle traduzioni dei suoi scritti e trascrizioni dei suoi insegnamenti orali che possono anche essere imprecisi, così ogni volta che lo ritengo necessario cerco di spiegare perché considero non corrette certe diffuse interpretazioni o spiegazioni. Poiché i vari libri e le altre sorgenti pubblicate abbondano di traduzioni, interpretazioni e spiegazioni conflittuali e quindi dubbie, ovviamente non posso criticarle tutte, ma qualche volta, quando un’interpretazione o spiegazione che ritengo essere ingannevole è citata in qualcuno dei commenti su questo blog o mi è resa nota in altro modo, ritengo necessario o opportuno respingerla e spiegare chiaramente perché lo faccio, in modo particolare se riguarda la pratica effettiva degli insegnamenti di Bhagavan e/o se è stata scritta o espressa da un eminente devoto i cui punti di vista sono ampiamente accettati e altrettanto ampiamente tendono a diffondersi.

c) Nella domanda finale che questo amico anonimo ha scritto nel suo primo commento ha chiesto: ‘Secondo te tutti hanno sbagliato. Almeno così ‘appare’. David, Cohen, Kvyakanta Ganapati Muni, Narayana Iyer, Lucy Cornelssen, solo per citarne alcuni. Tu intendi dire che queste persone (tranne David) sono stati seduti di fronte a Bhagavan e hanno perso tempo e Bhagavan veramente li ha trascurati? Tu hai sempre rimproverato a queste persone di travisare/fraintendere gli insegnamenti di Bhagavan. Tu pensi che nel passato Bhagavan ha guidato solo Sri Sadhu Om e sta guidando te attualmente e chiunque altro si sbaglia? Di fatto questo dà un’’apparenza’ che Bhagavan era molto parziale verso pochi ricercatori’.

Bhagavan era certamente imparziale con tutti, ma egli comprendeva che qualunque cosa scriveva o diceva, sarebbe stata compresa da ogni persona nel proprio modo, e non tutti l’avrebbero compresa come egli intendeva, così ha lasciato a ciascuno di noi il comprendere i suoi insegnamenti secondo la chiarezza relativa del nostro potere di comprensione. Questo è illustrato da ciò che una volta ha detto a Lakshmana Sarma.

Come Lakshmana Sarma ha scritto nei primi due di una serie di articoli che ha scritto nel 1954 per The Call Divine (vale a dire nel volume due, edizione Giugno 1954, pagine 495-8 ed edizione Agosto 1954, pagine 572-6), egli ha tradotto Uḷḷadu Nāṟpadu in Sanscrito con l’aiuto e la guida di Bhagavan, ed avendolo completato ha continuato a correggerlo, perché questo gli ha dato l’opportunità di studiare ripetutamente e in profondità Uḷḷadu Nāṟpadu e di controllare la sua comprensione di ciascun verso con Bhagavan, che lo ha corretto ogni volta che qualcuno dei suoi tentativi di traduzione non trasmetteva il significato inteso. Tuttavia, mentre egli lo stava correggendo, Kapali Sastri ha visitato Ramanasramam ed è giunto a conoscenza di questo, così ha suggerito che esso fosse mostrato a Kavyakantha, che in quel momento viveva a Sirsi, e dunque ne è stata preparata una copia e data a Kapali Sastri da portare a Kavyakamtha. Invece di correggere la traduzione di Lakshmana Sarma, Kavyakantha ha scritto una nuova traduzione propria e l’ha mandata a Bhagavan con una lettera in cui richiedeva che il direttore di Ramanasramam non avrebbe dovuto stamparla finché Kapali Sastri non avesse completato il suo commentario ad essa.

Quando Lakshmana Sarma ha letto la traduzione di Kavyakantha è stato incantato dalla bellezza del suo stile poetico, ma Bhagavan gli ha chiesto di iniziare a scrivere una nuova traduzione in un metro più lungo, e gli ha spiegato come Kavyakantha nella sua traduzione aveva deliberatamente omesso o distorto molti concetti importanti in Uḷḷadu Nāṟpadu che non gli piacevano. Bhagavan ha anche spiegato perché Kavyakantha aveva fatto questo, dicendo che egli odiava l’advaita come il veleno, narrando vari incidenti che illustravano questo.

Tutto ciò che Bhagavan gli ha spiegato riguardo l’intenzione di Kavyakantha e dei suoi più vicini discepoli è stato confermato a Lakshmana Sarma subito dopo aver letto il commentario di Kapali Sastri, Sat-Darshana Bhashya, nel quale ha visto che Kapali Sastri aveva fatto tutto il possibile per distorcere e travisare gli insegnamenti di Bhagavan in molti modi, ed anche in molti punto contraddicendoli direttamente. Per esempio, nella sua introduzione (Bhoomika) al Bhashya Kapali Sastri ha scritto, ‘È evidente allora che è sia inutile che falso affermare che solo la verità sostanziale del mondo-essere, Brahman, è reale e che l’aspetto formale di Brahman come il mondo è irreale’ (edizione 1953, pag.6-7), intendendo quindi che l’insegnamento di Bhagavan che solo il nostro vero sé (che è brahman, la sola sostanza reale o vastu) è reale e che il mondo è solamente un’apparenza irreale è ‘sia inutile che falso’.

Tuttavia, benché Bhagavan ha spiegato in dettaglio a Lakshmana Sarma e ad altri l’intento dietro sia la traduzione di Kavyakantha sia al commentario ad essa di Kapali Sastri (come mi è stato confermato da diversi altri devoti che erano presenti a quel tempo, incluso Swami Natananandar), egli non si è opposto al fatto che il Sat-Darshana Bhashya è stato pubblicato senza discutere dalla direzione di Ramanasramam in Sanscrito, in Tamil e in Inglese, così Laksmana Sarma gli ha chiesto devotamente, ‘Se i tuoi insegnamenti sono male interpretati come in questo caso durante la tua vita, cosa sarà di essi in futuro? Le persone non penseranno che tu hai approvato questo libro? Un’interpretazione così sbagliata non dovrebbe essere condannata apertamente?’ Tuttavia, Bhagavan soltanto ha sorriso e ha risposto, ‘Secondo la purezza della mente (antaḥkaraṇa) di ogni persona, lo stesso insegnamento è riflesso in modi differenti. Se tu pensi che puoi esporre gli insegnamenti più fedelmente, puoi scrivere il tuo commentario’. (Questa risposta data da Bhagavan è registrata nella prefazione di Maha Yoga (edizione 2002, pagine v-vi), ed è stata riprodotta da David Godman nella Parte Tre di The Power of Presence (edizione 2002, pagina 169).

Ritengo che la ragione per cui Bhagavan non si è opposto alla pubblicazione di Sat-Darshana Bhashya, anche se egli sapeva meglio di chiunque altro che esso travisava in modo grossolano i suoi insegnamenti, e che perché più generalmente egli ha permesso a ogni devoto di comprendere liberamente i suoi insegnamenti nel proprio modo personale e di scrivere di essi di conseguenza, era che egli sapeva che quelli che sono disposti e in grado di comprenderli chiaramente e correttamente lo faranno, malgrado ogni quantità di interpretazione errata o travisamento, e che quelli che non sono disposti e in grado di comprenderli chiaramente o correttamente li comprenderanno in modo confuso, non importa quanto attentamente e correttamente essi possano essere spiegati. Nel dire questo, non intendo che c’è una chiara linea di confine tra comprenderli correttamente o comprenderli male, perché nessuno di noi può comprenderli perfettamente finché sperimentiamo noi stessi come un ego, così c’è un ampio spettro tra il comprenderli perfettamente e travisarli completamente. Quindi la comprensione di ciascuno di noi si trova da qualche parte su quello spettro, e se vogliamo seguire sinceramente ciò che egli ci ha insegnato dovremmo sempre cercare di migliorare e rifinire la nostra comprensione per mezzo di uno studio ripetuto (śravaṇa), una profonda e attenta riflessione (manana) e la pratica di auto-attentività (nididhyāsana).

Il nostro amico anonimo ha scritto, ‘Secondo te tutti hanno sbagliato’, intendendo che credo che solo la mia comprensione sia corretta e quella di chiunque altro sia sbagliata, ma non ho mai scritto, detto o inteso una tale cosa. Non penso che la mia comprensione sia perfetta, così sto sempre cercando di migliorarla e di rifinirla, e non penso che la comprensione di chiunque altro sia sempre interamente sbagliata. Tranne per coloro che hanno arreso completamente il loro ego e quindi si sono fusi per sempre nella luce assolutamente chiara della pura auto-consapevolezza, che è ciò che Bhagavan è realmente e verso cui i suoi insegnamenti ci stanno rivolgendo, nessuno di noi li ha compresi perfettamente, e tutti noi senza dubbio non riusciamo a comprendere adeguatamente certi aspetti di essi.

Ciò che sembra aver dato al nostro amico anonimo l’impressione sbagliata che io considero sbagliata la comprensione di chiunque altro è che a volte quando amici citano nei loro commenti certi punti di vista espressi da altri che ritengo non corretti, spiego perché penso che tali punti di vista sono contrari a ciò che Bhagavan ci ha insegnato e che intendeva che noi comprendessimo. Non dico semplicemente che ritengo sbagliato un particolare punto di vista o un’interpretazione, ma offro argomenti dettagliati basati sugli scritti originali di Bhagavan per spiegare perché li ritengo sbagliati, così ciascun lettore può considerare i miei argomenti accanto al punto di vista o all’interpretazione in questione e decidere da loro stesso ciò che ritengono sia corretto. In ogni caso alcuni lettori possono essere d’accordo con i miei argomenti mentre altri possono dissentire da essi, e coloro che dissentono con essi possono essere d’accordo con il punto di vista o l’interpretazione che ho discusso o formare il proprio punto di vista indipendente.

Se sono in disaccordo con un punto di vista particolare espresso da qualche altro devoto, non significa che sono in disaccordo con tutti i loro punti di vista. Posso essere d’accordo con loro rispetto a molti altri punti, ma non con quel particolare punto di vista che mi accade di discutere. Inoltre, se mi succede di criticare un particolare punto di vista non significa che sto criticando quel devoto come persona. Quando discutiamo gli insegnamenti di Bhagavan, ciascuno di noi naturalmente è in disaccordo con certi punti di vista espressi da altri, ma se spieghiamo perché siamo in disaccordo con quel particolare punto di vista, la nostra spiegazione non dovrebbe essere presa come una critica della persona che sostiene quell’opinione.

Se qualcuno prende una discussione ben ragionata riguardo i pro e i contro di certi punti di vista come una critica personale, questa sarebbe un’attitudine molto infantile da tenere verso una discussione seria, e sarebbe una risposta totalmente inappropriata a una discussione tra spiranti spirituali che stanno cercando di comprendere gli insegnamenti di Bhagavan più chiaramente e correttamente. David Godman ed io, per esempio, siamo stati amici per circa quarant’anni, e dal tempo che ci siamo incontrati nel 1976, abbiamo discusso spesso gli insegnamenti di Bhagavan, e in alcuni punti siamo d’accordo mentre in altri punti siamo in disaccordo, ma nessuno di noi ha mai preso il nostro disaccordo personalmente, e abbiamo entrambi sempre rispettato il diritto di ciascuno di noi di sostenere un punto di vista differente, così la nostra amicizia è durata tutti questi anni nonostante il fatto che entrambi sappiamo che siamo in disaccordo riguardo certi aspetti dei suoi insegnamenti. Ogni volta che abbiamo discusso punti sui quali eravamo in disaccordo, lo abbiamo fatto sempre amichevolmente, e abbiamo cercato di comprendere il punto di vista dell’altro, che è credo, come ogni aspirante spirituale dovrebbe discutere tali argomenti.

In un ultimo commento questo amico anonimo ha scritto che io offendo persone quando spiego perché sono in disaccordo con certi punti di vista espressi da David o da altri devoti, e ha voluto dire che le persone che offendo sono ‘sostenitori’ (‘fans’) di tali devoti, ma qualcuno potrebbe essere offeso dalle mie spiegazioni solo confondendo una critica di una certa idea specifica come una critica personale a chiunque ha espresso quelle idee. Quando discutiamo gli insegnamenti di Bhagavan tra di noi, naturalmente dobbiamo considerare qualunque punto di vista è espresso o citato durante la nostra discussione, e spesso questi saranno punti di vista espressi da altri devoti che sono ben noti per aver scritto libri o dato discorsi sui suoi insegnamenti. Se ciascuno di noi dovesse evitare di essere in disaccordo con qualche punto di vista espresso da qualcuno di questi ben noti devoti per paura di poter offendere i sentimenti dei loro sostenitori, la nostra discussione su gli insegnamenti di Bhagavan sarebbe seriamente ridotta, perché non saremmo in grado di spiegare perché riteniamo certi punti di vista un’interpretazione errata o un travisamento dei suoi insegnamenti, o di chiarire ciò che crediamo che lui voleva realmente che noi comprendessimo.

Se qualcuno preferisce essere un sostenitore di uno o più devoti di Bhagavan piuttosto che cercare imparzialmente di comprendere ciò che egli intendeva insegnarci in testi come Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, sono liberi di farlo, e non penso che qualcuno fra noi vorrebbe disturbarli dalla loro ammirazione personale per qualunque devoto di cui scelgono di essere sostenitori, ma se essi si sentono offesi ogni volta che qualcuno è in disaccordo con qualche punto di vista espresso da coloro che essi ammirano e se non vogliono sentirsi offesi in questo modo, dovrebbero stare lontani da questo blog e da ogni altro posto dove altri aspiranti scelgono di discutere liberamente e imparzialmente una gamma di punti di vista espressi in libri o online riguardo gli insegnamenti di Bhagavan per decidere cosa credere personalmente che egli voleva che noi comprendessimo.

Il fine principale di questo blog è di discutere gli insegnamenti di Bhagavan, ma nella discussione i punti di vista che altri hanno espresso riguardo ad essi saranno sollevati inevitabilmente, così è solo in tali contesti che discutiamo questi punti di vista. Poiché mi piace essere chiaro nella mia mente riguardo a ciò che egli realmente intendeva e voleva dire nei suoi scritti e insegnamenti orali, e poiché la maggior parte dei lettori di questo blog hanno un fine simile, ogni volta leggo espresso qui qualche punto di vista che credo travisi ciò che egli intendeva o voleva dire, non esito a spiegare perché credo che tali punti di vista sono errati e cosa penso che egli voleva realmente che comprendessimo. Non cerco di imporre i miei punti di vista sugli altri, ma soltanto li offro con argomenti attentamente ragionati che spiegano (primariamente sulla base dei suoi scritti originali, e qualche volta anche sulla base di altre registrazioni più o meno precise ed affidabili dei suoi insegnamenti orali) perché credo che ciascuno di questi punti di vista rappresenta con precisione ciò che egli intendeva. Sta ad ogni lettore decidere personalmente se i miei punti di vista sono adeguatamente supportati dalle sorgenti che cito e dagli argomenti che porto.

Quando Bhagavan ha detto a Lakshmana Sarma, ‘Secondo la purezza della mente di ogni persona, lo stesso insegnamento è riflesso in modi differenti’, riconosceva il fatto che ciascuno di noi comprenderà inevitabilmente i suoi insegnamenti secondo la propria prontezza e la capacità di comprenderli, così ci saranno sempre differenze di opinione riguardo ad essi. Avendo riflettuto attentamente e profondamente su molti aspetti di essi, sono ragionevolmente sicuro che la mia comprensione di essi sia più o meno corretta, ma solo perché in alcuni casi io credo che certi altri punti di vista siano sbagliati, non suppongo che questo sia così perché la mia mente è in qualche modo più pura di quella dei devoti i cui punti di vista sono differenti dai miei. Io ho il vantaggio di aver studiato i suoi scritti principali nell’originale sotto la chiara guida di Sadhu Om, che mi ha spinto a pensare ad essi profondamente e criticamente per comprenderli correttamente, ed ho una mente naturalmente filosofica, che mi fa porre domande su ogni cosa, incluse la mia comprensione e le mie convinzioni, per decidere ciò a cui posso giustificatamente credere o meno, così ho probabilmente fatto manana più attentamente, criticamente e profondamente di molti altri devoti, e dunque, nonostante la mia mancanza di una reale purezza di mente, credo che la mia comprensione dei suoi insegnamenti in molti punti sia ragionevolmente corretta. Che altri siano d’accordo con me o no sta a loro deciderlo, perché qualunque punto di vista esprimo cerco di sostenerlo con argomenti chiari, che dovrebbero permettere a ogni persona di giudicarli criticamente.

Come ho indicato quando ho scritto precedentemente riguardo il Sat-Darshana Bhashya, da tutto ciò che ho letto e sentito dai devoti che erano con Bhagavan, in modo particolare prima del 1930, credo che Kavyakantha e Kapali Sastri abbiano travisato gli insegnamenti di Bhagavan con intento deliberato, perché ad essi non piacevano i principi fondamentali dei suoi insegnamenti o della filosofia advaita più generalmente, poiché quei principi contraddicevano molti dei loro credi più amati ed erano incompatibili con i loro fini e le loro ambizioni personali. Tuttavia, tranne che per essi e alcuni dei loro discepoli più vicini, non ho motivo di credere che qualche altro devoto del passato o del presente abbia inteso travisare in questo modo i suoi insegnamenti, così se anche alcuni di essi li hanno travisati, questo è stato causato probabilmente da una mancanza di chiara comprensione piuttosto che da un desiderio di farlo. Quindi ogni volta che critico o respingo qualche punto di vista espresso da altri devoti con i quali sono in disaccordo, il mio solo interesse è spiegare perché credo che tali punti di vista travisino gli insegnamenti di Bhagavan e ciò che io credo egli intendeva realmente, così non intendo che le mie spiegazioni siano prese come una critica personale a qualcuno, e spero che nessun lettore imparziale troverà in ciò che scrivo qualche motivo per supporre che la mia critica si estenda oltre alle idee particolari o alle confusioni che mi accade di esaminare e controbattere.

d) Nel suo secondo commento il nostro amico anonimo ha scritto: ‘Io so ciò che pensi degli ‘advaitin tradizionali’ e della loro visione di Bhagavan che non rientra in nessun pedigree. Non è questo il mio interesse. Ma tu non stai cadendo in un altro tipo di trappola ‘advaitin tradizionale’? Tu ha costruito il tuo pedigree – Bhagavan, Sri Muruganar, Sri Sadhu Om e forse tu. Ci sono degli indizi sottili per questo. Tu ha apprezzato Michael Langford (il tipo di ‘consapevolezza che osserva consapevolezza) per aver incluso buone cose riguardo Sri Muruganar e Sri Sadhu Om nel suo sito web. Non hai notato che egli ha incluso Annamalai Swami? Non hai mai detto una parola riguardo a lui. Egli non rientra nel tuo pedigree? Ha sbagliato tutto? È la sua comprensione solo così-così?’

Non ho mai scritto riguardo Annamalai Swami perché sebbene l’abbia conosciuto personalmente non ho mai discusso con lui gli insegnamenti di Bhagavan, così non so molto della sua visione e della sua comprensione. Il mio non menzionarlo non ha niente a che fare con qualche ‘pedigree’, termine con il quale questo amico anonimo presumo che intenda un lignaggio o sampradāya, perché Bhagavan non ha mai inteso stabilire un sampradāya, e non credo che il concetto di un sampradāya o lignaggio di guru abbia qualche rilevanza nei suoi insegnamenti. Come sia Sri Muruganar che Sri Sadhu Om erano soliti dire a chiunque voleva prenderli come guru, solo Bhagavan è il guru di tutti noi, e non ha bisogno di alcun intermediario tra lui stesso e ognuno dei suoi discepoli o devoti.

e) Il nostro amico anonimo ha poi scritto: ‘Ci sono modi sottili in cui fai ciò che ho detto sopra. Tu dici di rispondere alle domande. Lasciami aggiungere – tu rispondi a domande non poste. Diciamo che qualcuno in un commento ha condiviso alcuni punti di vista di David, che ha ricevuto attraverso una comunicazione personale con lui. Egli non sta chiedendo la tua opinione. David non sta chiedendo la tua opinione. Altre persone non stanno chiedendo la tua opinione. Tu ti lanci su quello per la seconda volta. È abbastanza averlo fatto una volta. Tu dici che è tuo dovere correggere. Chi ti ha assegnato questo dovere? Chi ha ti ha assegnato quel dovere ha anche assegnato doveri agli altri. David non ti sta tirando da parte, per quanto ne so. Egli rimane quieto. Tu ha fatto lo stesso per Cohen. Cohen è morto. Perché risvegliarlo dalla tomba e picchiarlo malamente? […]

I commenti su questo blog formano una discussione, prima di tutto riguardo ciò che ho scritto in ciascun rispettivo articolo, ma anche riguardo altre materie più o meno strettamente correlate, e come ho spiegato sopra, quando in una tale discussione punti di vista sono espressi, se credo che qualcuno dei punti di vista non rappresentino correttamente gli insegnamenti di Bhagavan, qualche volta ritengo più appropriato spiegare perché credo che tali punti di vista non siano ciò che Bhagavan intendeva che noi comprendessimo. Se tutti i partecipanti in una discussione si sentissero costretti a rispondere a qualche punto di vista solo se venisse espresso in forma di domanda, non sarebbe una vera discussione.

In alcuni casi la mia opinione può non essere stata richiesta in modo specifico, ma questo non significa che non dovrei tentare di correggere qualsiasi punto di vista espresso qui che ritengo travisante. Inoltre, non solo esprimo la mia opinione, ma cerco di spiegare ciò che Bhagavan intendeva realmente, e cito le sue parole e fornisco argomenti ragionevoli per supportare qualunque punto di vista esprimo. Se il nostro amico anonimo o chiunque altro è in disaccordo con i miei punti di vista o con gli argomenti che fornisco, è libero di offrire argomenti contrari, che sarei felice di considerare e a cui sarei felice di rispondere, ma invece di offrire degli argomenti ragionevoli contro qualche punto di vista particolare che ho espresso, egli sembra criticarmi semplicemente per esprimere punti di vista contrari a quelli espressi da qualche altro devoto ben noto.

Riguardo ciò che il nostro amico anonimo ha scritto, cioè che risveglio Cohen dalla tomba e lo picchio malamente, non ho fatto una cosa come questa, e intendere che io ho fatto questo sembra un modo molto perverso di interpretare ciò che ho scritto realmente. Ciò a cui egli si riferisce è un articolo che ho scritto alcuni mesi orsono, Cos’è la meditazione sul cuore?, in cui ho discusso l’interpretazione di Cohen di un particolare brano di Talks with Sri Ramana Maharshi. Anche se ho spiegato perché ritengo la sua interpretazione sbagliata, non ho scritto nulla contro Cohen personalmente, e per chiarire questo in quell’articolo ho scritto esplicitamente, ‘Io non suppongo che egli abbia travisato deliberatamente ciò che è registrato in questo brano di Talks, ma la sua comprensione di ciò era certamente molto confusa’.

Non ho motivo di dubitare della sincerità di Cohen, ma essere un sincero devoto non significa necessariamente che la sua comprensione degli insegnamenti di Bhagavan fosse sempre corretta. Ovviamente egli voleva comprendere i suoi insegnamenti correttamente e aiutare gli altri a comprenderli, e questo è il motivo per cui ha scritto il libro in questione, Reflections on Talks with Sri Ramana Maharshi. Poiché questo era il suo fine, e poiché egli sembrava un devoto onesto e umile, presumo che egli non si sarebbe dispiaciuto se qualcuno indicava qualche errore o confusione che può esserci nella sua interpretazione.

Inoltre, poiché egli ha pubblicato le sue interpretazioni in un libro che tutti possono leggere, egli sapeva che stava esponendo le sue idee all’esame del pubblico, così sebbene egli sapesse che qualche persona poteva essere in disaccordo con le sue idee, era sufficientemente fiducioso riguardo ad esse da condividerle e prendersi la responsabilità di esse, e dunque sarebbe stato pronto ad affrontare ogni critica che poteva ricevere. Quindi il fatto che egli è morto molto tempo fa non significa che i suoi punti di vista pubblicati ora non dovrebbero essere valutati o che qualche errore o confusione in essi non dovrebbe essere indicato. Le persone ancora leggono il suo libro, così sono ancora soggetti ad essere confusi o sviati da qualcuna delle sue idee o interpretazioni che travisano gli insegnamenti di Bhagavan, e quindi ritengo necessario indicare che ciò che ha scritto riguardo quel particolare brano in Talks è confuso e fuorviante.

Se il nostro fine è seguire ciò che Bhagavan ci ha insegnato, abbiamo ovviamente bisogno di comprendere i suoi insegnamenti più chiaramente e correttamente possibile, ma quando leggiamo tutte le registrazioni pubblicate e le interpretazioni di ciò che egli ha scritto e detto, è chiaro che i vari scrittori hanno compreso e interpretato i suoi insegnamenti in modi molto differenti, così è facile per qualcuno di noi essere confuso da così tanti punti di vista e interpretazioni diverse. Fortunatamente, comunque, Bhagavan ha scritto i suoi insegnamenti più essenziali e fondamentali in un modo chiaro e in pochi testi come Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, così se vogliamo essere sicuri di ciò che egli realmente intendeva insegnarci, dovremmo basarci su tali testi e prenderli come la sorgente primaria da cui possiamo trarre una chiara e corretta comprensione dei suoi insegnamenti.

In questo contesto c’è un interessante verso composto da Sri Muruganar in Śrī Ramaṇa Sannidhi Muṟai che David Godman mi ha indicato recentemente, vale a dire il verso 1545. Ciò che David ha scritto riguardo a questo è:
Mi sono imbattuto in questo verso di Ramana Sannidhi Murai (1545) per la prima volta alcuni giorni fa:
Perché Venkata, il principale, ha dichiarato un testo primario per il bene degli studiosi il cui capo era Ganapathy? Se egli non avesse dichiarato il testo primario, la coscienza di quei maturi studiosi si sarebbe ramificata sempre di più in modi molto differenti.
Presumo che il testo primario sia Ulladu Narpadu, e che Muruganar stia affermando che una ragione per cui Bhagavan lo ha composto era di fare una dichiarazione di ciò che erano i suoi veri insegnamenti così che Ganapati Muni e i suoi discepoli non potessero affermare che era qualcos’altro. Quello può essere un motivo che ha fatto mettere a Lakshman Sarma così tanto lavoro nella sua traduzione Sanscrita dell’opera.
Sono d’accordo con David che ciò a cui Muruganar si riferisce in questo verso come ‘ஓர் முதனூல்’ (ōr mudaṉūl), che significa ‘un testo primario’ (perché mudaṉūl è un composto di due parole, vale a dire mudal, che significa primo, principale, primario, migliore, origine o fondamentale, e nūl, che significa testo, ed è un termine usato specificatamente per riferirsi a un testo fondamentale che è considerato di origine divina), è Uḷḷadu Nāṟpadu, perché se qualche testo merita di essere chiamato il principale o fondamentale testo di insegnamenti di Bhagavan, quello è Uḷḷadu Nāṟpadu. Il termine in questo verso che è stato tradotto come ‘maturi studiosi’ è மூதறிஞர் (mūdaṟiñar), che non si riferisce alla maturità spirituale ma alla maturità di apprendimento o erudizione, perché Kavyakantha Ganapati Sastri e alcuni dei suoi più vicini discepoli, come Kapali Sastri, erano persone di vasta erudizione le cui menti erano soggette a ramificare in molti modi differenti. Così l’implicazione di questo verso è che sebbene Bhagavan abbia composto Uḷḷadu Nāṟpadu in risposta alla fervente richiesta di Muruganar, ‘Rivelaci la natura della realtà e il mezzo per ottenerla affinché possiamo essere salvati’, egli lo ha fatto anche per il beneficio di studiosi come Kavyakantha e a tutti quelli fra noi le cui menti sono soggette ed essere confuse e distratte da numerose altre idee, che attirerebbero la loro attenzione lontano dall’unica cosa che abbiamo bisogno di investigare e conoscere, vale a dire noi stessi.

Quindi se vogliamo mantenere freschi e chiari nella nostra mente gli insegnamenti fondamentali di Bhagavan, evitando di essere confusi da numerose altre idee che abbondano nei vari altri libri riguardo i suoi insegnamenti, dovremmo costantemente riferirci a Uḷḷadu Nāṟpadu e ad altri testi scritti da Bhagavan per verificare se qualunque cosa possiamo leggere altrove sia realmente in accordo con i principi fondamentali che egli ha espresso così chiaramente nei suoi testi principali. È solo con questa intenzione che qualche volta ritengo opportuno indicare e spiegare come alcune delle idee espresse da altri devoti deviano dai suoi reali insegnamenti come espressi in tali testi.

14. Come possiamo praticare ātma-vicāra nel pieno di altre attività

La ‘domanda schietta e diretta’ finale che questo amico anonimo ha scritto nel suo secondo commento era quella che ha classificato (f), vale a dire: ‘Tu scrivi molto. Parli molto. Dici che ancora pratici auto indagine. Dov’è il tempo per la tua pratica? Per le tue attività è chiaro che per la maggior parte del tempo sei agganciato al computer e a internet. Tu conosci le basi della fisica. Si può dare attenzione solo a una cosa alla volta. Altri possono fare quello. Se tu fai quello e dici che Bhagavan ci chiede di essere attentivamente auto-consapevoli in ogni momento, qualche disappunto sorgerà. Molte domande qui sono ripetizioni. Così lo sono le risposte, […]’.

Ciò che il nostro amico anonimo sembra qui intendere è che se io o chiunque altro, passiamo il nostro tempo facendo qualche altro lavoro, non avremo il tempo di praticare ātma-vicāra. Questo può essere vero se passiamo tutto il nostro tempo dando attivamente attenzione a cose diverse da noi stessi, ma molte delle nostre attività non richiedono la nostra attenzione, così anche facendo altre attività possiamo cercare di riportare ripetutamente la nostra attenzione, e di fissarla almeno parzialmente, su noi stessi. Anche nel pieno di altre attività, molta della nostra attenzione è normalmente diretta a pensare a pensieri non necessari, così se invece di soffermarci su tali pensieri cerchiamo di soffermarci solo sulla nostra auto-consapevolezza fondamentale, finiremo per aver dedicato ogni giorno molta della nostra attenzione a noi stessi.

Inoltre, quando rispondo a domande riguardo gli insegnamenti di Bhagavan o scrivo qualcosa per questo blog, sto facendo manana su di essi, e manana sui suoi insegnamenti è l’unica attività che tiene la nostra attenzione più vicina a noi stessi e ci ricorda costantemente della necessità di cercare di fermarci sull’auto-attentività. Quindi se fatta correttamente manana è un aiuto e un supporto alla nostra pratica e non un ostacolo ad essa.

Se invece di pensare ai suoi insegnamenti in questo modo mi sedessi con gli occhi chiusi cercando di essere costantemente auto-attentivo, la mia attenzione sarebbe frequentemente distratta da altri pensieri, così la maggior parte del tempo non sarei realmente auto-attentivo. Questo è il motivo per cui Bhagavan non ha mai prescritto qualche prassi particolare per praticare ātma-vicāra, neppure ha mai detto che abbiamo bisogno di abbandonare tutte le altre attività. Invece ha lasciato a ciascuno di noi scoprire personalmente il modo migliore di praticare ātma-vicāra nel pieno di qualunque altra attività che possiamo fare.

Egli ci ha insegnato che qualunque attività esterna siamo destinati a fare saremo portati a farla (come ha scritto, per esempio, nella sua nota a sua madre del Dicembre 1898, che ho citato sopra alla fine della terza sezione), così non dovremmo interessarci a qualunque attività siamo portati a fare ma dovremmo invece solo cercare di essere silenziosamente auto-attentivi nel pieno di tali attività. In qualunque attività possiamo fare, siamo sempre auto-consapevoli, così siamo sempre liberi di scegliere se attendere alla nostra auto-consapevolezza o ad altre cose, e tutto ciò che ātma-vicāra comporta è scegliere di attendere alla nostra auto-consapevolezza piuttosto che ad altre cose.

Il nostro amico anonimo scrive, ‘Molte domande qui sono ripetizioni. Così lo sono le risposte’, ma la ripetizione è precisamente ciò di cui abbiamo bisogno per riuscire in questo sentiero. Abbiamo bisogno di pensare ripetutamente agli insegnamenti fondamentali di Bhagavan per mantenerli sempre freschi e chiari nella nostra mente, e abbiamo bisogno di cercare ripetutamente di praticare ciò che abbiamo compreso dai suoi insegnamenti, ovvero che dovremmo cercare di essere il più possibile auto-attentivi. Quindi chiunque è appassionatamente interessato a praticare ciò che egli ci ha insegnato gradirà una ripetizione di questo tipo.

15. Perché Bhagavan ci insegna che manōlaya non è uno stato spiritualmente benefico?

In diversi commenti al mio articolo precedente, uno dei nostri amici, Sivanarul, si è riferito a manōlaya come se fosse uno stato spiritualmente benefico e che un aspirante ha bisogno di ottenere prima di manōnāśa. Per esempio, in un commento ha scritto, ‘La mente all’inizio ha bisogno […]di ottenere manolaya prima di poter anche penetrare manonasa’, e in un altro ha scritto, ‘Come può manolaya ottenuta con altre pratiche divenire un ostacolo è oltre la mia comprensione’.

Secondo Bhagavan, il fine che dovremmo cercare di ottenere è solo manōnāśa, che significa distruzione o annientamento della mente (e che implica l’annientamento del nostro ego, poiché il nostro ego è la radice e l’essenza della nostra mente), perché il nostro ego o mente è la causa radice di tutti i nostri problemi ed è ciò che ci impedisce di sperimentare noi stessi come siamo realmente, perché è un’esperienza di noi stessi falsa o illusoria. Mentre manōnāśa è lo stato di cessazione permanente della nostra mente, manōlaya è solo uno stato di cessazione temporanea di essa, come il sonno.

La ragione per cui la cessazione della mente in manōnāśa è permanente è che il nostro ego o mente è solo un’illusione che sembra esistere solo a causa del nostro essere negligentemente o disattentamente auto-consapevoli, che è dovuto alla nostra preferenza a dare attenzione e quindi ad essere consapevoli di altre cose, così esso può essere sgominato permanentemente solo dal nostro essere attentivamente auto-consapevoli (e dunque consapevoli di niente altro), come ho spiegato nella seconda sezione del mio articolo precedente, Upadēśa Undiyār verso 17: Evitare l’auto-disattenzione (pramāda) è il solo mezzo per distruggere il nostro ego. Quindi, poiché manōnāśa è una cessazione del nostro ego risultante dal nostro essere attentivamente auto-consapevoli, è permanente, mentre la cessazione di esso ottenuta con qualche altro mezzo è solo temporanea.

Ogni stato di temporanea cessazione del nostro ego e mente è chiamata manōlaya, così il sonno che sperimentiamo ogni giorno è uno stato di manōlaya, e nessun altro stato di manōlaya è più benefico spiritualmente del sonno. Per illustrare ed enfatizzare questo Bhagavan era solito raccontare la storia di uno yōgi che praticava prāṇāyāma e altre tecniche di rāja yōga sulle rive del Gange e che era così esperto in queste pratiche da essere in grado di immergersi per periodi sempre più lunghi in nirvikalpa samādhi, che è generalmente considerato la forma più elevata di manōlaya. In un’occasione svegliandosi dal suo nirvikalpa samādhi si sentì assetato, così chiese al suo discepolo di portargli dell’acqua dal Gange, ma prima che il discepolo ebbe il tempo di portarla, egli sprofondò nuovamente nel nirvikalpa samādhi e non si svegliò più per trecento anni. Tuttavia, appena si svegliò il suo primo pensiero fu l'acqua che aveva chiesto, così egli chiese di nuovo, irosamente, perché ancora non gli era stata portata.

Come Bhagavan ha spiegato, questa storia illustra che nessun beneficio spirituale può essere ottenuto da ogni stato di manōlaya, perché il fatto che il pensiero dell’acqua, che è stato l’ultimo pensiero nella mente dello yōgi prima di sprofondare in laya, è stato il primo pensiero che è sorto in lui appena si è svegliato dal laya, mostra che neppure una singola vāsanā (propensione, inclinazione, impulso o desiderio) è distrutta o anche indebolita in un tale stato, non importa quanto a lungo può durare. Quindi, poiché tutte le vāsanā possono essere distrutte interamente insieme con la loro radice, l’ego, solo per mezzo di ātma-vicāra o auto-attentività, egli era solito consigliare chiunque praticasse prāṇāyāma o qualche altra tecnica di rāja yōga di non permettere alla loro mente di sprofondare in laya ma di usare la calma o quiescenza mentale relativa, raggiunta con tali pratiche, come una condizione favorevole in cui cercare di rivolgere la loro attenzione soltanto verso loro stessi.

Poiché manōlaya è per definizione uno stato in cui la mente (e quindi l’ego, che è la sua forma e radice essenziale) è cessato temporaneamente ma completamente, come fa nel sonno, non è uno stato in cui uno può compiere qualche forma di pratica spirituale o fare un qualsiasi sforzo, e quindi non può essere uno stato spiritualmente fruttifero. Poiché il nostro ego sprofonda temporaneamente nel sonno per esaurimento, e poiché può sprofondare temporaneamente in un coma causato da danni cerebrali o da anestesia generale, può sprofondare temporaneamente in nirvikalpa samādhi come risultato di varie pratiche come il prāṇāyāma, ma qualunque possa essere la causa del suo sprofondamento in uno stato temporaneo come questo, il risultato netto è lo stesso, vale a dire manōlaya, che è uno stato in cui l’ego e la mente sono rese temporaneamente inattive e quindi incapaci di fare qualunque cosa finché sorgono nuovamente nella veglia o nel sogno.

Essere in manōlaya non è un ostacolo al progresso spirituale, non più di quanto lo sia essere addormentati, ma è come una sosta temporanea nel proprio viaggio, come quando un treno percorrendo una lunga distanza si ferma in varie stazioni. Abbiamo bisogno di riposare nel sonno per diverse ore ogni giorno per recuperare la nostra energia, così questi riposi in manōlaya sono necessari e inevitabili, ma se vogliamo fare progressi nel nostro viaggio spirituale dovremmo evitare di passare più tempo in manōlaya di quanto sia realmente necessario, così non dovremmo cercare di raggiungere il nirvikalpa samādhi o qualche altro simile stato di manōlaya con mezzi artificiali come il prāṇāyāma o qualche altra pratica yōgica, ma dovremmo essere rivolti solo a raggiungere manōnāśa per mezzo di vigilante auto-attentività.

Sebbene essere in manōlaya non sia un ostacolo ma solo un ritardo, fare qualche sforzo per essere in manōlaya sarebbe un ostacolo, perché manōlaya è uno stato temporaneo e dunque è qualcosa diversa da noi stessi, così cercare di raggiungerla è cercare di raggiungere qualcosa diversa da noi stessi. Inoltre, per raggiungere manōlaya con qualche mezzo artificiale avremmo bisogno di dirigere la nostra attenzione verso qualcosa diversa da noi stessi, e se riusciamo a raggiungerla con qualche pratica yōgica, saremmo soggetti ad attaccarci a queste pratiche e allo stato risultante di manōlaya, come lo yōgi sulle rive del Gange nella storia narrata da Bhagavan. Quindi Bhagavan non ha mai raccomandato di cercare manōlaya per qualsiasi ragione, tranne naturalmente la parte di sonno che la nostra mente richiede per essere abbastanza fresca e chiara per praticare l’essere vigilantemente auto-attentivi mentre siamo svegli o nel sogno.

Per annientare il nostro ego o mente lo strumento che dobbiamo usare è il suo potere di attenzione, così poiché né il nostro ego né il suo potere di attenzione esistono nel sonno o un qualche altro stato di manōlaya, essere in un tale stato non può aiutarci ad annientare il nostro ego o mente. Nello stesso modo, per indebolire le nostre viṣaya-vāsanā (inclinazioni esteriorizzanti, desidero o attaccamenti), abbiamo bisogno di usare la libera volontà del nostro ego per scegliere di attendere a noi stessi (o a un pensiero di Dio, se stiamo seguendo un sentiero di devozione più dualistica) piuttosto che ad ogni altro pensiero o viṣaya (oggetto di percezione o qualsiasi cosa diversa da noi stessi), così poiché né il nostro ego né la sua libera volontà esistono in ogni stato di manōlaya, essere in un tale stato non può aiutarci a indebolire le nostre viṣaya-vāsanā.

Cioè, poiché le viṣaya-vāsanā sono i nostri desideri o attrazione a sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi, sono l’aspetto icchā (volontà o volizione) del nostro ego (che è un riflesso della natura priya o ānanda del nostro sé reale), così possono essere indebolite e rimosse solo per mezzo di un uso alternativo della nostra volontà. Finché scegliamo di permettere alla nostra mente di soffermarci sui viṣaya o cose diverse da noi stessi, stiamo nutrendo, sostenendo e rafforzando le nostre viṣaya-vāsanā, così per indebolirle dobbiamo scegliere di cercare di attendere solo a noi stessi (o almeno a un pensiero di Dio). In ogni momento siamo liberi di scegliere se attendere a noi stessi o ad altre cose, così è la scelta che facciamo in ogni momento che indebolirà o rafforzerà le nostre viṣaya-vāsanā. Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di amare appassionatamente l’essere auto-attentivi (o pensare a Dio), perché è solo con tale amore che possiamo indebolire le nostre viṣaya-vāsanā e rafforzare la nostra sat-vāsanā (il nostro amore per solo essere, che è anche chiamata svātma-bhakti o amore per il nostro sé reale, la cui natura è sat o essere).

Poiché possiamo scegliere di essere auto-attentivi (o di pensare a Dio) solo quando il nostro ego è attivo, come è nella veglia e nel sogno, e non quando è sprofondato nel sonno o in qualche altro stato di manōlaya, possiamo indebolire le nostre viṣaya-vāsanā solo nella veglia o nel sogno e non in qualsiasi stato di manōlaya. Questo è il motivo per cui Bhagavan si ha insegnato che manōlaya non è uno stato spiritualmente benefico e non è quindi uno stato che dovremmo cercare di raggiungere. Dovremmo ovviamente dormire quanto abbiamo bisogno, ma mentre siamo svegli o nel sogno dovremmo dirigere tutto il nostro interesse e lo sforzo ad essere auto-attentivi (o a pensare amorevolmente a Dio, o agli insegnamenti del nostro guru, Bhagavan Ramana). Questo è il solo mezzo con cui possiamo indebolire le nostre viṣaya-vāsanā e quindi infine sradicare l’illusione di essere questo ego.

2 commenti:

  1. buongiorno, volevo chiederti se l'essere auto-attentivi non sia la stessa cosa del ricordo di sè spiegato da Gurdjeff ovvero dividere l'attenzione, essere consapevoli dell'azione che stiamo svolgendo per esempio camminare e contemporaneamente essere consci di se stessi quindi una duplice consapevolezza, essere svegli, attenti al proprio sè e al mondo esterno. Grazie in anticipo per i chiarimenti e complimenti per il sito che mi sta aiutando tantissimo nel mio percorso.
    Simon

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Simon, grazie a te per il commento.
      Non entrando nel merito dell'utilità e dell'efficacia della pratica fondamentale di Gurdjeff che descrivi, del resto analoga a molte altra pratiche fondamentali di altri sentieri ed altre tradizioni, tutte degne di rispetto, posso risponderti con una certa sicurezza che l'auto-investigazione, in effetti l'unica pratica insegnata da Bhagavan, non è la stessa cosa.
      Perché l'auto-attentività, o essere attentivamente consapevoli di noi stessi, è fondamentalmente esclusiva, ovvero significa essere attentivamente auto-consapevoli solo di noi stessi, ad esclusione di qualsiasi altra cosa.
      Qualsiasi altra pratica di ricordo di sé, del sé che sta agendo, in qualsiasi modo esso agisca, è azione dell'ego che guarda se stesso in relazione al suo atto di agire, e all'oggetto della sua azione, che lui stesso crea per potercisi aggrappare e sostenersi e di esso nutrirsi e così prosperare.
      E dato che ciascuno di noi, è un ego, o almeno ci definiamo tale, ci illudiamo di essere un io fra i tanti, e diverso da tutti, ogni pratica, auto-investigazione compresa, si basa sull'osservazione che l'ego ha di se stesso. Con l'unica differenza che l'auto-attentività è l'osservazione che l'ego ha solamente ed esclusivamente di se stesso.
      E' ovvio che nel momento in cui l'ego si osserva nell'atto di agire e di creare fenomeni, fintanto l'intero universo, arriverà a un punto in cui questa osservazione 'simultanea' avrà una fine, perché l'osservazione dell'oggetto dell'azione lo svuoterà dei contenuti, ed esso tenderà a svanire, a divenire irreale. Quello che rimane è l'ego da solo. E il momento che segue è quello in cui l'ego guarda solo se stesso. E' quella l'auto-attentività, auto-investigazione, atma-vicara.
      In un certo senso vedo la pratica di Gurdjeff, come appunto molte altre, un inevitabile premessa, l'esperienza che tutti dobbiamo vivere per arrivare ad essere pronti a vedere solo noi stessi, perché l'ego sia pronto a guardare solo se stesso. L'osservazione di se stesso soltanto è fatale per l'ego. Vede se stesso per quello che è, un miraggio, un apparente serpente a terra che è solo una corda, si annienta, si annulla. Quello che rimane è solo il sé, quello che siamo realmente, e che sempre siamo stati. Perché un io agente non è mai esistito. Questo insegna Bhagavan, tradotto da Michael James. Che umilmente e malamente traduco in Italiano.
      Grazie
      Carlo

      Elimina