Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

lunedì 28 marzo 2016

Perché è necessario fare sforzo per praticare auto-investigazione (ātma-vicāra)?

Michael James

24 Marzo 2016
Why is it necessary to make effort to practise self-investigation (ātma-vicāra)?


In due commenti a uno dei miei articoli recenti, Perché dovremmo credere a ciò che Bhagavan ci ha insegnato?, un amico che scrive usando uno pseudonimo ‘Viveka Vairagya’ ha citato estratti dagli insegnamenti di HWL Poonja (che i suoi devoti chiamato ‘Papaji’) come registrati nel sito web Satsang with Papaji, in entrambi i quali egli ha espresso idee che contraddicono direttamente gli insegnamenti di Bhagavan. In uno di questi estratti Poonja ha detto riguardo il sonno, ‘Questo è uno stato ottuso perché non c’è affatto consapevolezza così puoi non riconoscerlo. Nel sonno profondo dimentichi te stesso completamente’, che contraddice ciò che Bhagavan ci ha insegnato riguardo il sonno, come ho spiegato nelle sezioni quattordici e quindici del mio articolo precedente, Mentre siamo addormentati siamo consapevoli di noi stessi, così ciò che siamo realmente è soltanto pura auto-consapevolezza, e in entrambi questi estratti egli ha contraddetto in diversi modi ciò che Bhagavan ci ha insegnato riguardo la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), come spiegherò in questo articolo.
  1. Dobbiamo praticare ātma-vicāra per tutto il tempo che ci vuole per distruggere tutte le nostre viṣaya-vāsanā
  2. È richiesto uno sforzo persistente per mantenere la nostra intera mente fissata fermamente e irremovibilmente nella nostra pura auto-consapevolezza
  3. Essere auto-attentivi comporta mantenersi quieti, e mantenersi quieti comporta essere auto-attentivi
  4. Possiamo liberare noi stessi dalle nostre viṣaya-vāsanā e dalla schiavitù solo praticando con persistenza ātma-vicāra
  5. Sperimentare noi stessi come siamo realmente è estremamente facile, ma per riuscirvi dobbiamo coltivare un amore totalizzante
  6. Guru Vācaka Kōvai verso 696: ātma-jñāna può essere ottenuto solo da coloro che hanno fatto lo sforzo richiesto
  7. விட்டகுறை தொட்டகுறை (viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai): ripresa di ciò che è stato lasciato incompiuto
1. Dobbiamo praticare ātma-vicāra per tutto il tempo che ci vuole per distruggere tutte le nostre viṣaya-vāsanā

L’estratto che Viveka Vairagya ha citato nel primo di questi due commenti era tratto dalla pagina Consciousness del sito web Satsang with Papaji, in cui è registrato che Poonja ha affermato che ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine) ‘non è un processo lungo’ e ‘non è una pratica’, che sono entrambi affermazioni ingannevoli e confondenti. E’ vero che ātma-vicāra non è necessariamente un processo lungo, perché se fossimo realmente disposti a rinunciare al nostro ego e ad ogni altra cosa qui e ora, solo un singolo momento di auto-attentività acutamente focalizzata sarebbe sufficiente a distruggere istantaneamente il nostro ego, ma poiché in molti non siamo ancora disposti ad arrendere completamente il nostro ego insieme con ogni altra cosa diversa da noi stessi, abbiamo bisogno di praticare ātma-vicāra per tutto il tempo che ci vuole per ripulire la nostra mente da tutti i desideri e gli attaccamenti che ora ci stanno rendendo non disposti a lasciar andare questo ego illusorio e tutta la sua progenie.

Bhagavan si è riferito spesso a ātma-vicāra come una pratica ed ha enfatizzato regolarmente il nostro bisogno di praticarla ripetutamente e con persistenza finché il nostro ego è annientato. Per esempio, nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār? ha scritto:
நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும். நானார் என்னும் நினைவு மற்ற நினைவுகளை யெல்லா மழித்துப் பிணஞ்சுடு தடிபோல் முடிவில் தானு மழியும். பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும். எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன? ஜாக்கிரதையாய் ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால் எனக்கென்று தோன்றும். நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்; எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும். இப்படிப் பழகப் பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது. [...]

nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum. nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu maṯṟa niṉaivugaḷai y-ellām aṙittu-p piṇañ-cuḍu taḍi-pōl muḍivil tāṉ-um aṙiyum. piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṟku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum. ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa? jāggiratai-y-āy ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum. nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṟku-t tirumbi-viḍum; eṙunda v-eṇṇamum aḍaṅgi-viḍum. ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṟku-t taṉ piṟappiḍattil taṅgi niṯgum śakti y-adhikarikkiṉḏṟadu. [...]

Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io la mente sprofonderà [nel senso di cessare di esistere]. Il pensiero chi sono io [cioè, l’attentività con cui si investiga cosa si è], avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine sarà esso stesso distrutto come un bastone per bruciare i cadaveri [un bastone che è usato per smuovere una pira funeraria per assicurarsi che il cadavere sia completamente bruciato]. Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli è necessario investigare a chi essi sono venuti. Per quanti pensieri sorgono, cosa [importa]? Appena ogni pensiero appare, se si investiga vigilantemente a chi esso è venuto, sarà chiaro che [è] a me. Se si investiga [in questo modo] chi sono io, la mente si rivolgerà [o ritornerà] al suo luogo di nascita [sé stessa]; il pensiero che è sorto anche profonderà. Quando si pratica e pratica in questo modo, il potere della mente di rimanere fermamente stabilita nel suo luogo di nascita aumenterà. […] La parola பழக (paṙaga), che Bhagavan ripete in questa ultima frase, è la forma infinita di பழகு (paṙagu), che significa praticare, ed è usata qui in un senso condizionale, così ‘பழகப் பழக’ (paṙaga-p paṙaga) significa ‘quando si pratica e pratica’ e quindi implica ‘quando si pratica persistentemente’. Quindi è chiaro da questo brano che ātma-vicāra è una pratica e che il consiglio di Bhagavan è quello di praticare persistentemente finché continuano a sorgere pensieri riguardo qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Egli ha anche inteso questo nell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?: மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். […]

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. […]

Finché viṣaya-vāsanā [propensioni, inclinazioni, impulsi o desideri di sperimentare qualsiasi cosa diversa da sé stessi] esistono nella mente, l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando pensieri sorgono, in quel momento e lì è necessario annientarli tutti per mezzo di vicāraṇā [auto-investigazione] proprio nel luogo da cui essi sorgono. […]
Se non abbiamo già praticato ātma-vicāra per un periodo di tempo prolungato, le nostre viṣaya-vāsanā saranno ancora molto forti, così ogni volta che cerchiamo di essere auto-attentivi esse sorgeranno con grande forza nella forma di pensieri, che distrarranno costantemente la nostra attenzione lontano da noi stessi, così il solo modo per riuscire in questa pratica è di perseverare tenacemente, come Bhagavan ha indicato chiaramente nel decimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும். [...]

toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiram-āy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum. [...]

Anche se viṣaya-vāsanā, che vengono da tempo immemorabile, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell'oceano, esse saranno tutte distrutte quando svarūpa-dhyāna [auto-attentività] aumenterà e aumenterà. Senza dare spazio al pensiero dubitante 'È possibile dissolvere così tante vāsanā e rimanere solo come svarūpa [il mio sé reale]?' è necessario aggrapparsi tenacemente a svarūpa-dhyāna. […]
Da questi brani è chiaro che ciò che Bhagavan ci ha insegnato è che abbiamo bisogno di praticare ātma-vicāra per tutto il tempo che ci vuole per distruggere tutte le nostre viṣaya-vāsanā, così l’affermazione di Poonja che ātma-vicāra ‘non è un processo lungo’ e che ‘non è una pratica’ è ovviamente contraria agli insegnamenti fondamentali di Bhagavan.

2. È richiesto uno sforzo persistente per mantenere la nostra intera mente fissata fermamente e irremovibilmente nella nostra pura auto-consapevolezza

Un’altra idea errata che Poonja ha espresso riguardo la pratica di ātma-vicāra nello stesso paragrafo era: ‘Nessuno sforzo o pensiero è coinvolto’. Poiché ātma-vicāra è la pratica di rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi, lontano da tutti i pensieri di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, essa ovviamente non comporta dare alcun spazio a questi pensieri, ma Bhagavan spesso si è riferito a questa pratica come ātma-cintanā o ‘pensiero di sé stessi’ e nella seconda frase del sesto paragrafo di Nāṉ Yār? di Nāṉ Yār? (che ho citato nella sezione precedente) l’ha descritta come ‘நானார் என்னும் நினைவு’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu), che significa ‘il pensiero chi sono io’, dicendo: ‘நானார் என்னும் நினைவு மற்ற நினைவுகளை யெல்லா மழித்துப் பிணஞ்சுடு தடிபோல் முடிவில் தானு மழியும்’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu maṯṟa niṉaivugaḷai y-ellām aṙittu-p piṇañ-cuḍu taḍi-pōl muḍivil tāṉ-um aṙiyum), che significa ‘il pensiero chi sono io, avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine sarà esso stesso distrutto come un bastone per bruciare i cadaveri’. Tuttavia, quando ha descritto in questo modo ātma-vicāra come ‘pensiero di sé stessi’, stava usando il termine ‘pensiero’ in un senso speciale per intendere solo attenzione o attentività, come ho spiegato in uno dei miei articoli recenti, Il pensiero di sé stessi distruggerà tutti gli altri pensieri, ma abitualmente il termine ‘pensiero’ si riferisce a pensieri riguardo cose diverse da noi stessi, così se Poonja stava usando ‘pensiero’ in questo senso più usuale era nel giusto dicendo che nessun pensiero è coinvolto in ātma-vicāra.

Tuttavia, era certamente in errore dicendo che nessuno sforzo è coinvolto in ātma-vicāra, perché finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, le nostre viṣaya-vāsanā costringeranno costantemente la nostra attenzione ad andare all’esterno, lontano da noi stessi e verso viṣaya (fenomeni o cose diverse da noi stessi), così è richiesto sforzo per poter rivolgere la nostra attenzione all’interno e mantenerla fissata fermamente su noi stessi. Cioè, poiché la natura del nostro ego o mente è di aggrapparsi (dare attenzione) a cose diverse da sé stesso (come Bhagavan indica nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu), e poiché l’aggrapparsi ad altre cose è ciò che lo nutre e lo sostiene, possiamo annientarlo solo addestrandolo ad aggrapparsi soltanto a sé stesso, e per farlo aggrappare solo a sé stesso dobbiamo fare sforzo per farlo.

Dare attenzione a cose diverse da noi stessi (che è ciò che Bhagavan chiamava சுட்டறிதல் (suṭṭaṟidal) o conoscere transitivamente) è il naturale மனப்போக்கு (maṉa-p-pōkku), flusso, corrente, direzione, inclinazione o propensione della nostra mente, così essere auto-attentivi è invertire questo flusso e quindi richiede sforzo da parte nostra. Se stessimo galleggiando senza fare sforzo nel mezzo di un fiume che scorre veloce, saremmo spinti con la sua corrente, così se volessimo tornare a nuoto alla sua sorgente, dovremmo fare uno sforzo per nuotare contro corrente. Nello stesso modo, per ritornare alla sorgente della nostra mente (che è il nostro sé reale) dobbiamo fare uno sforzo per nuotare contro la sua corrente rivolgendo costantemente la nostra attenzione indietro verso noi stessi e cercando di mantenerla fermamente in equilibrio su noi stessi (cioè, come pura auto-consapevolezza).

Questo è un fatto che sarà ovvio a chiunque ha cercato seriamente di praticare ātma-vicāra, ed è stato confermato spesso da Bhagavan. Per esempio, nel secondo capitolo di Upadēśa Mañjari è registrato che in risposta alla quarta domanda, ‘சும்மாவிருக்கை யென்பது முயற்சியுள்ள நிலையா? முயற்சியற்ற நிலையா?’ (summā-v-irukkai y-eṉbadu muyaṟci-y-uḷḷa nilai-y-ā? muyaṟci-y-aṯṟa nilai-y-ā?), che significa, ‘Ciò che è chiamato summā-v-irukkai [solo essere] è uno stato in cui c’è sforzo? [O] è uno stato in cui lo sforzo è cessato?’, egli ha detto:
அது முயற்சியற்றதோர் சோம்பல் நிலை யன்று. வெளிமுகத்தில் முயற்சிகளென்று சொல்லப்படுகிற உலக வ்யவகாரங்க ளவ்வளவும் பரிச்சின்ன மனத்தாலும் இடைவிட்டும் செய்யப்படுகின்றனவே. அகமுகத்தில் சும்மா இருக்கை யென்னும் ஆன்மவ்யவகாரமோ முழு மனத்துடனும் இடையின்றியும் செய்யப்படும் பூர்ண முயற்சியாகும்.

வேறெவ் வகையானும் நாசமாகாத மாயையானது முழுமுயற்சி யென்னும் இம்மோனத்தாற்றான் நாசமாக்கப்படுகிறது.

adu muyaṟci-y-aṯṟadōr sōmbal nilai y-aṉḏṟu. veḷi-mukhattil muyaṟcigaḷ-eṉḏṟu solla-p-paḍugiṟa ulaha vyavahāraṅgaḷ avvaḷavum paricchiṉṉa maṉattāl-um iḍaiviṭṭum seyya-p-paḍugiṉḏṟaṉavē. aha-mukhattil summā irukkai y-eṉṉum āṉma-vyavahāram-ō muṙu maṉattuḍaṉ-um iḍai-y-iṉḏṟi-y-um seyya-p-paḍum pūrṇa muyaṟci-y-āhum.

vēṟev vahaiyāṉum nāśam-āhāda māyai-y-āṉadu muṙu-muyaṟci y-eṉṉum i-m-mōṉattāṯṟāṉ nāśam-ākka-p-paḍugiṟadu
.

Questo non è uno stato di sōmbal [ozio, indolenza, sonnolenza o ottusità], in cui lo sforzo è cessato. L’intera vastità delle attività mondane, che sono descritte come sforzi rivolti all’esterno, sono fatte solo intermittentemente e da paricchinna maṉam [una mente divisa o una parte limitata della mente]. Al contrario, l’ātma-vyavahāra [pratica spirituale] chiamata aha-mukhattil summā irukkai [solo essere rivolgendosi interiormente o verso sé stessi] è uno sforzo massimo fatto con la mente intera e senza interruzione.

Ciò che è māyā, che non può essere distrutto da ogni altro mezzo, è distrutto solo da questo mauna [silenzio] che è chiamato sforzo completo.
Il sostantivo Tamil முயற்சி (muyaṟci), che Bhagavan ha usato quattro volte nella sua risposta, significa sforzo, esercizio o perseveranza, essendo derivato dal verbo முயல், che significa praticare, perseverare o fare forzo persistente, così da questa risposta è chiaro che secondo Bhagavan è necessario per noi fare uno sforzo persistente di essere auto-attentivi e quindi di solo essere.

Tuttavia, come ho spiegato in un altro articolo, Essere soltanto (summā irukkai) non è un’attività ma uno stato di perfetta immobilità, in Spiritual Instructions, che è la traduzione Inglese di Upadēśa Mañjari più ampiamente disponibile e che è inclusa in tutte o quasi tutte le edizioni di The Collected Works of Sri Ramana Maharshi, tre dei quattro casi di முயற்சி (muyaṟci) in questa risposta sono stati tradotti come ‘attività’ invece di ‘sforzo’, che è ingannevole, perché sebbene முயற்சி (muyaṟci) può significare ‘attività’ (poiché la maggior parte degli sforzi che facciamo sono sforzi per fare qualcosa), questo non è ovviamente il senso in cui Bhagavan l’ha usata qui, perché solo essere (summā irukkai) non è ovviamente un’attività ma uno stato completamente privo di attività.

Una simile traduzione inappropriata si trova nel primo capitolo della seconda parte di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagina 50), dove è registrato che Bhagavan ha detto che ātma-vicāra ‘implica un’intensa attività della mente intera per mantenerla fermamente in equilibrio nella pura consapevolezza del Sé’. Poiché in Spiritual Instructions i termini பூர்ண முயற்சி (pūrṇa muyaṟci) e முழுமுயற்சி (muṙu-muyaṟci), che entrambi significano sforzo pieno o completo, sono stati entrambi tradotti come ‘intensa attività’ (The Collected Works of Sri Ramana Maharshi, una recente edizione non datata, pagina 56), sospetto che il termine usato da Bhagavan che è stato tradotto in Maharshi’s Gospel come ‘intensa attività’ possa essere stato uno di quei due termini, o forse qualche altro termine che includeva முயற்சி (muyaṟci) usato nel senso di ‘sforzo persistente’.

In Maharṣi Vāymoṙi (edizione 2004, pagina 53), la versione Tamil di questa frase di Maharshi’s Gospel è ‘இது சுத்தமாம் தன்னறிவில் முழு மனத்தையும் அசைவின்றி நிலைநிற்கச் செய்கிற நிதித்தியாஸனமே’ (idu śuddham-ām taṉ-ṉ-aṟivil muṙu maṉattaiyum asaiviṉḏṟi nilai-niṟka-c ceygiṟa nididdhiyāsaṉamē), che significa ‘Questo è solo nididhyāsana [ferma, intensa e persistente contemplazione o meditazione] fatta per far stare l’intera mente ferma e immobile [o costante] nella pura auto-consapevolezza’. Sebbene in in questa frase non c’è parola che significhi ‘sforzo persistente’ o ‘intensa attività’, uno sforzo intenso e persistente è implicato dal termine nididhyāsana, perché esso significa contemplazione profonda e persistente, che ovviamente richiede da parte nostra uno sforzo per mantenere la nostra intera mente o attenzione fermamente fissata e irremovibile nella pura auto-consapevolezza.

Tuttavia, benché Bhagavan generalmente rispondeva alle domande solo in Tamil (o occasionalmente in Telugu o in Malayalam), e benché Maharṣi Vāymoṙi è stato pubblicato durante la vita del suo corpo, i dialoghi in esso non sono stati originariamente registrati in Tamil, ma sono stati registrati in Inglese (come si presentano in Maharshi’s Gospel) e tradotti in Tamil successivamente, così non dovremmo presumere che le risposte pubblicate in esso siano le parole esatte che Bhagavan ha pronunciato. In molti casi Maharṣi Vāymoṙi ci dà un’idea più chiara di Maharshi’s Gospel di ciò che egli intendeva, e le espressioni in Maharṣi Vāymoṙi sono in molti casi (ma non certo in tutti) simili al tipo di parole che egli usava generalmente, ma poiché è una traduzione di una traduzione, è meno affidabile di quanto lo sarebbe stata se fosse stata registrato direttamente in Tamil. Comunque Maharṣi Vāymoṙi e Maharshi’s Gospel sono entrambi libri utili e in molti casi ci danno un’idea ragionevolmente chiara di ciò che Bhagavan intendeva, anche se non nelle sue reali parole.

Se tralasciamo la confusione che potrebbe essere causata dall’uso in questo contesto del termine ‘intensa attività’ e presupponiamo che Bhagavan abbia realmente usato un termine Tamil che significava o implicava sforzo intenso e persistente, come quasi certamente egli ha fatto, da questa frase in Maharshi’s Gospel e Maharṣi Vāymoṙi è chiaro, in modo particolare se lette in congiunzione con la sua risposta registrata in Upadēśa Mañjari, che egli stava affermando che ātma-vicāra comporta sforzo intenso e persistente per mantenere la nostra intera mente o attenzione fermamente fissata e irremovibile nella pura auto-consapevolezza. Quindi non dovremmo avere dubbi che quando Poonja ha detto che in ātma-vicāra non è coinvolto nessuno sforzo stava direttamente contraddicendo uno degli importanti e costanti insegnamenti di Bhagavan.

3. Essere auto-attentivi comporta mantenersi quieti, e mantenersi quieti comporta essere auto-attentivi

Più avanti nello stesso paragrafo Poonja ha detto, ‘Dopo aver fatto questa indagine, mantieniti quieto’, che è nuovamente ingannevole, prima di tutto perché ciò implica che praticare ātma-vicāra e mantenersi quieti sono due pratiche o condizioni distinte, e poi perché implica che dovremmo mantenerci quieti solo dopo aver fatto ātma-vicāra piuttosto che mentre la si fa. Mantenersi quieti è ciò che Bhagavan chiama ‘மௌனமா யிருக்கை’ (mauṉamāy irukkai), ‘essere silenziosamente’ o ‘essere silenti’ (che è un termine che egli ha usato nella frase finale della nota che ha scritto a sua madre nel Dicembre 1898), ed anche ‘சும்மா விருக்கை’ (summā-v-irukkai) o ‘சும்மா விருப்பது’ (summā-v-iruppadu), che entrambi significano ‘solo essere’, ‘essere senza attività’ o ‘essere immobili’. Poiché il rumore dell’attività mentale sorge ogni volta che il nostro ego sorge, e poiché esso persiste finché il nostro ego resiste, non possiamo mantenerci quieti o solo essere se non facciamo sprofondare il nostro ego, e il solo mezzo efficace per farlo sprofondare è ātma-vicāra, così ātma-vicāra e mantenersi quieti sono in effetti sinonimi.

Cioè, il nostro ego sorge e resiste solo dando attenzione ai fenomeni (cose diverse da noi stessi), e dare attenzione a qualsiasi fenomeno è un’attività mentale, che è l’antitesi di mantenersi quieti o solo essere. Quindi, poiché il nostro ego resiste finché diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, il solo mezzo adeguato per farlo sprofondare e quindi mantenersi quieti è di attendere soltanto a noi stessi. Appena rivolgiamo la nostra attenzione verso noi stessi, il nostro ego comincia a sprofondare, così sprofondare e quindi mantenersi quieti è un effetto automatico e istantaneo di essere auto-attentivi, e non è quindi qualche ulteriore condizione che dovremmo cercare di raggiungere dopo essere stati auto-attentivi. In altre parole, non possiamo praticare ātma-vicāra senza mantenerci quieti, e non possiamo effettivamente mantenerci quieti senza praticare ātma-vicāra, perché sono in pratica una medesima cosa.

Sebbene mentre siamo nel sonno ci manteniamo quieti, il nostro ego sprofonda nel sonno a causa di esaurimento, non a causa del nostro essere auto-attentivi. Tuttavia, sia essendo svegli sia sognando possiamo far sprofondare il nostro ego e quindi mantenerci quieti solo essendo auto-attentivi, perché finché diamo attenzione a qualsiasi altra cosa il nostro ego è attivo e perciò produce rumore mentale. Quindi proprio come l’essere auto-attentivi comporta il mantenersi quieti, mantenersi quieti nella veglia o nel sogno comporta l’essere auto-attentivi.

Inoltre, sebbene sprofondiamo nel sonno senza essere auto-attentivi, ciò di cui siamo realmente consapevoli nel sonno è solo noi stessi, così ogni volta che ci stiamo realmente mantenendo quieti, sia nella veglia che nel sogno o nel sonno, siamo in questo modo solo a causa di essere consapevoli di niente altro che noi stessi. Nel sonno il nostro ego è completamente sprofondato, così non possiamo essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e quindi non c’è bisogno o motivo di essere auto-attentivi, ma nella veglia e nel sogno il nostro ego non è sprofondato completamente, così siamo soggetti ad essere consapevoli di altre cose, e quindi per mantenerci quieti dobbiamo cercare di attendere soltanto a noi stessi.

Quando nella veglia o nel sogno riusciamo ad essere così acutamente auto-attentivi da essere consapevoli di assolutamente niente altro che noi stessi, sperimenteremo noi stessi come siamo realmente, e in questo modo il nostro ego sarà annientato. Fino ad allora non siamo mai completamente inconsapevoli di tutte le altre cose nella veglia e nel sogno, così non ci stiamo mantenendo completamente quieti, ma riusciamo anche a mantenerci quieti nella misura in cui riusciamo a focalizzare la nostra attenzione solo su noi stessi.

4. Possiamo liberare noi stessi dalle nostre viṣaya-vāsanā e dalla schiavitù solo praticando con persistenza ātma-vicāra

Nel secondo dei due commenti di Viveka Vairagya a cui mi sono riferito all’inizio di questo articolo egli ha citato un estratto da un’altra pagina del sito web Satsang with Papaji, vale a dire Just to Pluck a Rose Petal, in cui è registrato che Poonja ha detto, ‘Se abbandoni le vasana proprio ora puoi essere libero e felice […] Nessun tempo è necessario, è facile come cogliere un petalo da una rosa. Non prende tempo. Puoi ottenere la libertà, la luce e la saggezza ora – puoi essere libero istantaneamente. Non hai bisogno di lavorare duramente senza fine. Penitenza, austerità, anche le meditazioni – semplicemente abbandonale. Questo concetto che ‘io sono legato’ deve essere lasciato e istantaneamente sarai libero e felice. […] Così semplice come cogliere un petalo di rosa, semplicemente abbandonare il concetto che tu sei legato’, e ha continuato ad affermare in modo leggero che ottenere la libertà non ha niente a che fare cone qualche sādhana (pratica spirituale) o sforzo e che ‘Il concetto che tu sei legato ti è stato rovesciato sulla testa dai tuoi genitori, dal tuo sacerdote, dalla tua società’.

Come Bhagavan dice nel verso 24 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘schiavitù’ (bandha) è un altro nome per il nostro ego, così non è qualcosa imposta su di noi dai nostri genitori, sacerdoti, società o qualsiasi altra cosa esterna a noi. Ogni cosa diversa da noi stessi, inclusi i nostri genitori, sacerdoti e società, sembrano esistere solo perché siamo sorti come questo ego, così poiché questo ego è esso stesso schiavitù, questa schiavitù è la causa dell’apparenza illusoria di ogni cosa diversa da noi stessi, come possiamo dedurre da ciò che egli insegna nei versi 24 e 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu.

Naturalmente, possiamo lasciare il concetto ‘io sono legato’, come suggerisce Poonja, e sostituirlo con il concetto ‘io sono libero’, ma sostituendo un’idea con un’altra non possiamo realmente diventare liberi, perché l’’io’ che ha qualsiasi idea, incluse idee come ‘io sono legato’ o ‘io sono libero’, è il nostro ego, che è ciò che ora sembra legarci. Quindi non possiamo liberare noi stessi dalla schiavitù solamente lasciando il concetto ‘io sono legato’, ma solo investigando questo ego e quindi sperimentando noi stessi come siamo realmente, come Bhagavan spiega chiaramente in una frase nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
பந்தத்தி லிருக்கும் தான் யாரென்று விசாரித்து தன் யதார்த்த சொரூபத்தைத் தெரிந்துகொள்வதே முக்தி.

bandhattil irukkum tāṉ yār eṉḏṟu vicārittu taṉ yathārtha sorūpattai-t terindu-koḷvadē mukti.

Investigando chi è il sé stesso che è in schiavitù, solo conoscere il proprio yathārtha svarūpa [il proprio sé reale] è mukti [liberazione].
Per riuscire a sperimentare il nostro sé reale investigando cosa questo ego è realmente abbiamo bisogno di avere ciò che Bhagavan descrive nei versi 23 e 28 di Uḷḷadu Nāṟpadu come un ‘நுண் மதி’ (nuṇ mati) o ‘கூர்ந்த மதி’ (kūrnda mati), che significa una mente o potere di discernimento che è sottile, purificato, assottigliato, affilato, acuto, aguzzo, preciso, pungente, penetrante e discriminante, e possiamo sviluppare una tale sottigliezza, finezza, acume e acutezza di mente solo raffinandola e purificandola praticando persistentemente ātma-vicāra per tutto il tempo che ci vuole per permetterci di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi, a completa esclusione di ogni altra cosa. Solo allora saremo in grado di sperimentare ciò che siamo realmente e quindi liberare noi stessi dall’illusione di essere questo ego, che è legato da tutti i generi di limitazioni.

La sporcizia o le impurità che abbiamo bisogno di pulire dalla nostra mente per mezzo della pratica persistente di ātma-vicāra sono viṣaya-vāsanā, le nostre propensioni, inclinazioni, impulsi, preferenze o desideri di sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Poiché queste vāsanā sono profondamente radicate nella nostra mente e sono il carburante che la sostiene e la perpetua, non possiamo abbandonarle o liberare noi stessi da esse se non pratichiamo persistentemente ātma-vicāra, come Bhagavan intende chiaramente nel decimo e nell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (dei quali ho citato gli estratti relativi nella prima sezione).

La radice di tutte le nostre viṣaya-vāsanā è solo il nostro ego, così finché l’ego sopravvive continuerà a cercare di nutrire e sostenere le sue viṣaya-vāsanā alimentandole con il cibo di viṣaya, che sono ogni cosa diversa da noi stessi. Così finché permettiamo alla nostra attenzione di soffermarsi su qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e rafforzando le nostre viṣaya-vāsanā, così il solo modo di indebolirle e infine distruggerle tutte insieme con la loro radice, il nostro ego, è farle morire di fame cercando persistentemente di attendere soltanto a noi stessi. Quindi abbandonare tutte le nostre vāsanā non è ‘facile come cogliere in petalo da una rosa’, come Poonja così leggermente afferma, ma richiede sforzo persistente per essere più possibile auto-attentivi finché infine riusciremo ad annientare il nostro ego.

Se potessimo realmente abbandonare tutte le nostre vāsanā qui ed ora, in effetti cadremmo nel sonno istantaneamente e non ci sveglieremmo più, perché tutti i fenomeni che sperimentiamo nella veglia e nel sogno sono solo una proiezione delle nostre viṣaya-vāsanā, così in assenza di tutte le viṣaya-vāsanā non ci sarebbero stati di veglia o di sogno. Tuttavia, il sonno che sperimenteremmo come risultato dell’estinzione di tutte le nostre vāsanā è differente in un punto importante dal sonno che sperimentiamo nell’intervallo tra stati di veglia o di sogno, perché mentre quel sonno sembra essere temporaneo, questo sonno è eterno, perché è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza. Questa differenza, tuttavia, è solo apparente, perché è solo nella visione del nostro ego che il sonno sembra uno stato temporaneo, mentre nella visione del nostro sé reale è il nostro stato eterno, perché non c’è una cosa come un ego e quindi nessuno che possieda qualche vāsanā o che le proietti e le sperimenti come veglia o sogno.

L’affermazione di Poonja che ottenere la libertà non ha niente a che vedere con qualche sādhana o sforzo è vera solo nel senso che quando con la pratica persistente di ātma-vicāra infine libereremo noi stessi dall’illusione di essere questo ego, scopriremo che questo ego è completamente non-esistente – cioè, che non è mai realmente esistito o anche sembrato esistere – così non siamo mai stati realmente legati da esso e siamo sempre stati liberi. Quindi, poiché la liberta è il nostro stato eterno, e poiché noi solo esistiamo realmente, la nostra libertà non è causata da qualche sforzo o sādhana fatta da questo ego non-esistente.

Questa esperienza definitiva è ciò che è chiamato ajāta, che significa non-nato, non-generato, non-originato, non-sorto o non-accaduto, ma sebbene Bhagavan ha detto che questa è stata la sua reale esperienza, ha anche spiegato che non sarebbe utile dare qualsiasi insegnamento da questo punto di vista, perché in ajāta non c’è ego, né schiavitù, nessuno che debba ottenere la liberazione, niente da cui essere liberato, e quindi nessun bisogno di alcun insegnamento o alcun mezzo (sādhana) con cui ottenere la liberazione, così gli insegnamenti che egli ha dato erano dal punto di vista di vivarta, che significa illusione o apparenza irreale. Cioè, al fine di insegnarci come possiamo liberare noi stessi dall’illusione primaria di essere questo ego, Bhagavan ha concesso che dalla nostra prospettiva questo ego sembra esistere, e quindi ha basato i suoi insegnamenti su questa concessione.

Sebbene la verità finale è ajāta, pensare che non c’è ego o schiavitù e che siamo eternamente liberi non è per noi di molta utilità finché sembriamo essere vincolati dallo sperimentare noi stessi come questo ego. Poiché ora sperimentiamo tutte le limitazioni imposte su di noi dal nostro ego, e poiché ogni altra cosa di cui siamo consapevoli sembra esistere solo perché sperimentiamo noi stessi come questo ego, abbiamo bisogno di qualche mezzo (sādhana) con cui possiamo liberare noi stessi da questa illusione (vivarta), così Bhagavan concede che nella nostra visione questa illusione sembra esistere ma dice che la radice di essa è solo questo ego che ora sembriamo essere, e che se investighiamo questo ego in modo sufficientemente accurato scopriremo che non è realmente la persona limitata che sembra essere ma è solo lo spazio infinito e indivisibile di pura auto-consapevolezza, al di là del quale niente esiste.

Sebbene il termine sādhana è spesso tradotto nel contesto della filosofia spirituale come ‘pratica spirituale’, ciò che esso significa realmente è un mezzo per compiere qualche scopo, così poiché abbiamo bisogno di un mezzo con cui liberare noi stessi da questa illusione-ego, Bhagavan ci ha insegnato che poiché questo ego non esiste realmente, anche se sembra esistere, il solo mezzo (sādhana) per annientarlo è investigare cosa esso è realmente. Se non lo investighiamo cercando di essere persistentemente auto-attentivi, non saremo in grado di liberare noi stessi da esso, così dalla nostra prospettiva attuale come questo ego l’ottenimento della libertà o liberazione (mukti o mōkṣa) ha tutto a che vedere con questa sādhana di auto-investigazione (ātma-vicāra) e con lo sforzo che facciamo per praticarla.

Bhagavan ha reso abbondantemente chiaro sia nei suoi scritti sia in numerosi dialoghi che sono stati registrati in vari libri come Maharshi’s Gospel, Talks with Sri Ramana Maharshi e Day by Day with Bhagavan che pratica persistente e sforzo di essere auto-attentivi sono richiesti per liberare noi stessi dal nostro ego e da tutte le sue viṣaya-vāsanā, così quanto Poonja banalizza ciò che è richiesto e pretende che ci sia possibile abbandonare tutte le nostre vāsanā e liberare noi stessi dalla schiavitù senza alcuna pratica spirituale o sforzo, e che per fare questo ‘non serve tempo’ ed ‘è facile come cogliere un petalo da una rosa’, sta chiaramente contraddicendo gli insegnamenti di Bhagavan.

5. Sperimentare noi stessi come siamo realmente è estremamente facile, ma per riuscirvi dobbiamo coltivare un amore totalizzante

Sebbene nella sezione precedente ho criticato l’affermazione di Poonja che divenire liberi ‘è facile come cogliere un petalo da una rosa’, potrebbe essere dedotto che egli era giustificato nell’affermare questo perché lo stesso Bhagavan ha cantato in Āṉma-Viddai che ātma-vidyā (la scienza di sé) è ‘அதி சுலபம்’ (ati sulabham), estremamente facile. Comunque, c’è una differenza importante tra questo insegnamento di Bhagavan e ciò che ha affermato Poonja, perché diversamente da Poonja, Bhagavan non ha mai detto o anche sottinteso che poiché è così facile non è richiesto nessuno sforzo o pratica.

Sperimentare noi stessi come siamo realmente è estremamente facile, ma possiamo sperimentare noi stessi in questo modo solo se abbiamo travolgente amore per essere consapevoli soltanto di noi stessi, come Bhagavan ha inteso nel verso finale di Āṉma-Viddai concludendo ‘அருளும் வேணுமே; அன்பு பூணுமே; இன்பு தோணுமே’ (aruḷum vēṇumē; aṉbu pūṇamē; iṉbu tōṇumē), che significa ‘La grazia è anche necessaria; divieni posseduto dall’amore; la beatitudine apparirà’. Se manchiamo dell’amore sufficiente, sperimentare ciò che siamo realmente sembrerà molto difficile, perché le nostre viṣaya-vāsanā (i nostri desideri di sperimentare altre cose) staranno costantemente trascinando la nostra mente all’esterno, lontano da noi stessi.

Quindi per coltivare l’amore (bhakti) e l’assenza di desiderio (vairāgya) richiesti, abbiamo bisogno di perseverare facendo lo sforzo di attirare la nostra attenzione indietro a noi stessi, lontano da ogni altra cosa, per tutto il tempo che ci vuole perché realizziamo così tanta bhakti e vairāgya da non volere niente altro che essere eternamente consapevoli soltanto di noi stessi. Questo è stato reso abbondantemente chiaro da Bhagavan sia nei suoi scritti originali sia nelle risposte che ha dato a domande che gli sono state poste, così quando ci ha insegnato che conoscere noi stessi è estremamente facile, non intendeva che lo sforzo persistente di praticare ātma-vicāra non è necessario.

6. Guru Vācaka Kōvai verso 696: ātma-jñāna può essere ottenuto solo da coloro che hanno fatto lo sforzo richiesto

Benché Bhagavan è stato in grado di sperimentare ātma-jñāna investigando sé stesso solo per un momento con poca o nessuna pratica precedente o sforzo nella sua vita, egli qualche volta ha spiegato che se qualcuno era riuscito in questo modo doveva aver fatto tutto lo sforzo necessario per fare la pratica richiesta nelle vite precedenti. Una tale spiegazione da lui fornita è stata registrata da Sri Muruganar nel verso 696 di Guru Vācaka Kōvai:
ஈசனருட் பூட்கையா லெம்முயல்வு மின்றியே
மாசறுமார்ச் சால மரபினாற் — பாசமற
இம்மையிலே ஞானசித்தி யெய்தினோர் மர்க்கடம்போ
லம்மையிலே யாட்செய் தவர்.

īśaṉaruṭ pūṭkaiyā lemmuyalvu miṉḏṟiyē
māsaṟumārj jāla marapiṉāṟ — pāśamaṟa
immaiyilē ñāṉasiddhi yeydiṉōr markkaṭambō
lammaiyilē yāṭcey tavar
.

பதச்சேதம்: ஈசன் அருள் பூட்கையால் எம்முயல்வும் இன்றியே மாசு அறு மார்ச்சால மரபினால் பாசம் அற இம்மையிலே ஞான சித்தி எய்தினோர் மர்க்கடம் போல் அம்மையிலே ஆள் செய்தவர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): īśaṉ aruḷ pūṭkaiyāl e-m-muyalvum iṉḏṟiyē māsu aṟu mārjjāla marapiṉāl pāśam aṟa immaiyilē ñāṉa siddhi eydiṉōr markkaṭam pōl ammaiyilē āḷ seydavar.

Traduzione: Coloro che, quando l’attaccamento è cessato, hanno ottenuto jñāna-siddhi [realizzazione dell’auto-conoscenza] proprio in questa vita per il potere della grazia di Dio senza alcuno sforzo per il principio del gatto, si saranno sforzati nelle vite precedenti come una scimmia.
Il ‘principio del gatto’ o mārjāla nyāya è il principio di dipendere da, desiderare ardentemente e arrendere sé stessi al potere della divina grazia per la salvezza, come un gattino che non fa sforzo per mettersi in salvo ma permette passivamente alla madre di trasportarlo, mentre il ‘principio della scimmia’ o markaṭa nyāya è il principio di sforzarsi per aggrapparsi fermamente a Dio, come un piccolo di scimmia che si aggrappa fermamente a sua madre per la salvezza. Queste sono due analogie che sono usate per descrivere due forme alternative di devozione (bhakti), ma nei termini degli insegnamenti di Bhagavan il mārjāla nyāya rappresenta lo stadio finale del sentiero del completo auto-abbandono, che è il culmine dell’auto-investigazione (ātma-vicāra), mentre il markaṭa nyāya rappresenta lo sforzo che abbiamo bisogno di fare per aggrapparci fermamente all’auto-attentività. Come Bhagavan ci insegna in questo verso, coloro che riescono ad arrendere loro stessi senza sforzo, come lui ha fatto, si sono sforzati precedentemente con intensa fatica per aggrapparsi tenacemente all’auto-attentività, perché solo sforzandosi in questo modo possiamo ottenere bhakti (amore) e vairāgya (libertà dall’attaccamento) richiesti per essere in grado di arrendere completamente noi stessi.

Questo è stato anche inteso da lui nella risposta seguente registrata in Day by Day with Bhagavan (11-1-46 Pomeriggio: edizione 2002, pagina 104):
Consapevolezza senza sforzo e senza scelta è la nostra vera natura. Se possiamo ottenerla o essere in quello stato, va tutto bene. Ma non si può raggiungerla senza sforzo, lo sforzo di meditazione deliberata. Tutte le vasana di lunga data portano la mente all’esterno e la rivolgono agli oggetti. Tutti questi pensieri devono essere abbandonati e la mente rivolta all’interno. Per quello, lo sforzo è necessario per la maggior parte delle persone. Naturalmente tutti, ogni libro dice, “சும்மா இரு” [summā iru: semplicemente sii] cioè, ‘Sii quieto o immobile’. Ma non è facile. Questo è il motivo per cui lo sforzo è necessario. Anche se troviamo uno che ha subito raggiunto il mauna [silenzio] o lo stato Supremo indicato da “சும்மா இரு” [summā iru], puoi ritenere che lo sforzo necessario sia già stato compiuto in una vita precedente.
Similmente nella sezione 398 di Talks with Sri Ramana Maharshi (edizione 2006, pagina 384) è registrato che egli ha detto, ‘Nessuno riesce senza sforzo. Il controllo della mente non è un diritto di nascita. I pochi che sono riusciti devono il loro successo alla loro perseveranza’, e nella sezione 28 (pagina 30) è registrato che ha detto, ‘Il tuo sforzo è un sine qua non. Sei tu che dovresti vedere il sole. Possono gli occhiali e il sole vedere per te? Tu stesso devi vedere la tua vera natura’.

7. விட்டகுறை தொட்டகுறை (viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai): ripresa di ciò che è stato lasciato incompiuto

Riguardo la propria esperienza, quando è stato chiesto a Bhagavan come ha fatto ad adottare ātma-vicāra così spontaneamente e a riuscire così istantaneamente, egli ha risposto ‘ஏதோ விட்டகுறை தொட்டகுறை ஒட்டிக்கொண்டது போலும். எப்போதும் மூலத்திலேயே நாட்டமுற்றிருக்கும்’ (ēdō viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai oṭṭikkoṇḍadu pōlum. eppōdum mūlattil-ē-y-ē nāṭṭam-uṯṟirukkum), che significa ‘Fu come se qualche viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai si attaccasse. L’attenzione sempre dimorava solo nella [o sulla] sorgente’. ‘விட்டகுறை தொட்டகுறை’ (viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai) è un idioma Tamil difficile da tradurre precisamente in Inglese, ma fondamentalmente significa ripresa di ciò che è stato lasciato incompiuto nelle vite precedenti.

குறை (kuṟai) ha molti significati, ma in questo contesto significa un deficit, un ammanco, ciò che è tagliato o ciò che rimane, e விட்ட (viṭṭa) significa ‘lasciato’ mentre தொட்ட (toṭṭa) significa ‘toccato’‘, così விட்டகுறை (viṭṭakuṟai) significa ciò che è stato lasciato incompiuto e தொட்டகுறை (toṭṭakuṟai) significa ciò che è stato ripreso. Usualmente il termine ‘விட்டகுறை தொட்டகுறை’ (viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai) si riferisce a karma lasciato incompiuto nelle vite precedenti e ripreso in quella attuale a causa della continuità delle proprie karma-vāsanā (inclinazioni a fare lo stesso genere di azioni ripetutamente), ma nel caso di Bhagavan non è stata la ripresa di qualche karma-vāsanā ma solo la ripresa della sua sat-vāsanā (inclinazione a solo essere), che è ciò che è anche chiamata svātma-bhakti (amore di essere consapevoli soltanto di sé stessi).

Ciò che Bhagavan ha indicato quando ha dato questa risposta è che le nostre vāsanā continuano da una vita alla successiva, così se coltiviamo la nostra sat-vāsanā cercando ora di essere auto-attentivi ciò avrà come risultato l’annientamento del nostro ego durante la vita del nostro attuale corpo o ci spingerà a riprendere i nostri sforzi di essere auto-attentivi in qualche vita futura. Più fortemente siamo attratti a questo sentiero, più tenteremo di essere auto-attentivi, e più tenteremo di essere auto-attentivi, più forte diventerà la nostra sat-vāsanā, finché infine sommergerà tutte le nostre altre vāsanā e darà come risultato il nostro essere in grado di rivolgere la nostra intera attenzione verso noi stessi, al che sperimenteremo noi stessi come siamo realmente e quindi il nostro ego si dissolverà come una nebbia tropicale del mattino si dissolve al sorgere del sole.

Riferendosi a ‘விட்டகுறை தொட்டகுறை’ (viṭṭakuṟai toṭṭakuṟai), ripresa di ciò che è stato lasciato incompiuto nelle vite precedenti, e intendendo che come risultato di ciò la sua attenzione dimorava costantemente nella o sulla sua sorgente, Bhagavan intendeva chiaramente che egli è riuscito così spontaneamente e senza sforzo a sperimentare ciò che realmente è solo in virtù della sua pratica di auto-attentività nelle vite precedenti. Tuttavia a questo riguardo il caso di Bhagavan è stato davvero molto raro, perché generalmente anche coloro che nelle vite precedenti hanno gia avanzato sul sentiero devono fare qualche sforzo nella loro vita finale, per praticare ātma-vicāra o qualche altra forma di sādhana che culmini in ātma-vicāra, prima di poter sperimentare la vera auto-conoscenza (ātma-jñāna).

Quanto sforzo abbiamo bisogno di fare e quanto a lungo abbiamo bisogno di praticare ātma-vicāra dipende da quanto la nostra mente è stata purificata facendo lo sforzo di praticare la sādhana appropriata nel passato. Tuttavia, non importa in quale misura la nostra mente è stata purificata, il consiglio di Poonja che nessuno sforzo, pratica o sādhana è necessaria non può aiutarci a progredire più vicino al fine ultimo della libertà dal nostro ego. Se già avessimo fatto tutto lo sforzo necessario per praticare la sādhana richiesta, non avremmo bisogno di sentirci dire che nessun ulteriore sforzo o pratica è necessaria, perché la nostra mente sarebbe così pura, limpida, sottile e affilata che senza sforzo la rivolgeremmo all’interno per focalizzarci soltanto su noi stessi e quindi sperimenteremmo noi stessi come siamo realmente. D’altra parte, se la nostra mente non fosse stata ancora purificata in tale misura, non avremmo ancora praticato sufficiente sādhana, così avremmo ancora bisogno di perseverare nel fare lo sforzo di praticare ātma-vicāra o qualche altra sādhana appropriata finché la nostra mente fosse sufficientemente purificata, nel qual caso il consiglio dato da Poonja sarebbe per noi impraticabile e ingannevole.

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