Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

martedì 5 aprile 2016

Uḷḷadu Nāṟpadu


Quaranta [Versi] sulla Realtà

Bhagavan Sri Ramana


Significato : Sri Sadhu Om
Traduzione in Inglese : Michael James

Traduzione Italiana in file PDF di Uḷḷadu Nāṟpadu




Uḷḷadu Nāṟpadu – una parafrasi esplicativa

Michael James

14 Giugno 2009
Ulladu Narpadu – an explanatory paraphrase

உள்ளது நாற்பது (Uḷḷadu Nāṟpadu), i ‘Quaranta [Versi] su Ciò Che È’, è un poema Tamil che Sri Ramana ha composto nei mesi di Luglio e Agosto del 1928, quando Sri Muruganar gli ha chiesto di insegnarci la natura della realtà e il mezzo con cui possiamo ottenerla.

Nel titolo di questo poema, la parola உள்ளது (uḷḷadu) è un sostantivo verbale che significa ‘quello che è’ o ‘essere’ (nel senso di ‘esistenza’ o di ‘esistere’), ed è un termine importante che è usato spesso nella letteratura spirituale o filosofica per indicare la ‘realtà’, la ‘verità’, ‘quello che è reale’ o ‘quello che realmente è’. Perciò in un contesto spirituale il significato chiaramente inteso di uḷḷadu è ātman, il nostro ‘sé reale’ o ‘spirito’.

Sebbene நாற்பது (nāṟpadu) significa ‘quaranta’, Uḷḷadu Nāṟpadu consiste effettivamente di un totale di quarantadue versi, due dei quali formano il maṅgalam o ‘introduzione augurale’ e i rimanenti quaranta che formano il nūl o ‘testo’ principale.

Come molte delle sue altre opere, Sri Ramana ha composto Uḷḷadu Nāṟpadu in un metro poetico chiamato venbā, che consiste di quattro righe, con quattro piedi in ciascuna delle prime tre righe e tre piedi nell’ultima riga, ma poiché i devoti erano soliti fare regolare pārāyaṇa o recitazione delle sue opere alla sua presenza, egli ha convertito i quarantadue versi di Uḷḷadu Nāṟpadu in un singolo verso in metro kalivenbā, allungando il terzo piede della quarta riga di ciascun verso e aggiungendo un quarto piede ad essa, collegandolo quindi al verso successivo e rendendo facile per i devoti ricordare la continuità durante la recitazione.

Poiché il piede e mezzo che ha in questo modo aggiunto alla quarta riga di ciascun verso può contenere una o più parole, che sono abitualmente chiamate le ‘parole collegamento’, esse non solo facilitano la recitazione ma anche arricchiscono il significato del verso precedente o di quello seguente.

Poiché Sri Ramana ha formato questa versione kalivenbā di உள்ளது நாற்பது (Uḷḷadu Nāṟpadu) collegando i quarantadue versi in un singolo verso, il termine நாற்பது (nāṟpadu) non è adatto ad essa, così egli l’ha rinominata உபதேசக் கலிவெண்பா (Upadēśa Kalivenbā).

Una traduzione Inglese di Sri Sadhu Om e me di questa versione kalivenbā di Uḷḷadu Nāṟpadu è stata pubblicata da pagina 217 a pagina 222 dell’edizione dell’Ottobre 1981 di The Mountain Path, e nel Maggio 2008 una copia di essa è stata pubblicata da David Godman nel suo blog con il titolo Uḷḷadu Nāṟpadu Kalivenbā.

Nel primo verso del maṅgalam o ‘introduzione augurale’ a Uḷḷadu Nāṟpadu Sri Ramana riassume in modo estremamente chiaro e potente l’essenza del suo intero insegnamento riguardo la natura della realtà e del mezzo con cui possiamo ottenerla, e di conseguenza questo verso è in effetti sia un riassunto del significato centrale di Upadēśa Undiyār sia un’introduzione al tema centrale di Uḷḷadu Nāṟpadu.

Nelle prime due righe di questo verso egli ci insegna la natura della realtà, prima di tutto formulando una domanda retorica, ‘உள்ளது அலது உள்ளவுணர்வு உள்ளதோ?’ (uḷḷadu aladu uḷḷa-v-uṇarvu uḷḷadō?), che significa ‘tranne che essere, esiste consapevolezza di essere?’ e che implica che (come ha insegnato nel verso 23 di Upadēśa Undiyār) la nostra consapevolezza di essere, ‘io sono’, non è diversa dal nostro stesso essere. In altre parole, la nostra realtà o essere è auto-cosciente – cioè, essa conosce il proprio essere, non con l’aiuto di qualche altra cosa, ma semplicemente essendo essa stessa.

Nella seconda frase di questo verso egli continua a spiegare la natura della realtà, prima di tutto con una proposizione secondaria in cui dice ‘உள்ளபொருள் உள்ளல் அற உள்ளத்தே உள்ளதால்’ (uḷḷa-poruḷ uḷḷal-aṟa uḷḷattē uḷḷadāl), che significa ‘poiché [questo] essere-sostanza esiste nel [nostro] cuore privo di pensiero’, e in secondo luogo con una proposizione relativa, ‘உள்ளம் எனும்’ (uḷḷam eṉum), che significa ‘che è chiamato cuore [o ‘sono’] e che qualifica il termine உள்ளபொருள் (uḷḷa-poruḷ) o ‘essere-sostanza’ nella proposizione principale.

Cioè, la realtà o vero essere non è solo auto-cosciente ma anche priva di pensiero, ed esiste nel nostro ‘cuore’ (il centro più profondo di noi stessi) come il nostro ‘cuore’. In altre parole, la realtà è il nostro vero sé – il nostro essere essenziale, che sempre sperimentiamo come ‘io sono’.

Dopo aver spiegato che la natura della realtà è questa, nelle ultime due righe di questo verso egli ci insegna il mezzo con cui possiamo sperimentarla come è, prima di tutto concludendo la seconda frase con la domanda ‘உள்ளபொருள் உள்ளல் எவன்?’ (uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ?), che significa ‘come [o chi può] pensare di [o meditare su] [questo] essere-sostanza?’ e in secondo luogo rispondendo ‘உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே உள்ளல் உணர்’ (uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē uḷḷal uṇar), che significa ‘conoscere che solo essere nel [nostro] cuore come esso è [o come noi siamo] [è] pensare [o meditare] [sul nostro essere-sostanza essenziale]’.

Le parole chiave in questa frase finale sono உள்ளபடி உள்ளதே (uḷḷapaḍi uḷḷadē), che significano, ‘solo essere come esso è [o come noi siamo]’. Qui உள்ளபடி (uḷḷapaḍi), ‘come esso è’ o ‘come noi siamo’, significa ‘come [il nostro] essere-sostanza è’, e poiché il nostro ‘essere sostanza’ (il nostro sé essenziale) è auto-cosciente e privo di pensiero, in questo contesto queste parole ‘solo essere come esso è’ implicano chiaramente ‘solo essere auto-cosciente e privo di pensiero’.

Quindi in questo verso Sri Ramana ci insegna che possiamo realmente meditare e sperimentare l’unica realtà assoluta, che è il nostro essere auto-cosciente, ‘io sono’, solo essendo esclusivamente auto-coscienti – cioè, chiaramente coscienti di niente altro che il nostro essere essenziale, ‘io sono’ – e quindi liberi da tutti i pensieri.

Poiché nessun pensiero può esistere se non lo pensiamo, e poiché non possiamo pensare alcun pensiero senza dare ad esso attenzione, quando la nostra intera attenzione è concentrata solo su noi stessi, nessun pensiero può esistere. Quindi possiamo ‘essere come esso è [o come noi siamo]’ semplicemente essendo accuratamente auto-attentivi e quindi escludendo tutti i pensieri di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Questa è la semplice essenza degli insegnamenti pratici di Sri Ramana.

Mentre nel primo verso del maṅgalam Sri Ramana spiega questa pratica di ‘solo essere come noi [realmente] siamo’ nei termini del sentiero di jñāna (conoscenza) o ātma-vicāra (auto-investigazione), nel secondo verso del maṅgalam la spiega nei termini del sentiero di bhakti (devozione) o auto-abbandono.

Cioè, quando siamo vigilantemente auto-attentivi escludiamo non solo tutti i pensieri ma anche il pensatore di quei pensieri – la nostra stessa mente pensante – così questa pratica di ātma-vicāra è il solo mezzo realmente efficace con cui possiamo abbandonare completamente il nostro falso sé, come Sri Ramana dice nel tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?):
Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualche altro cintanā [pensiero] tranne che ātma-cintanā [auto-contemplazione o auto-attentività], è dare sé stessi a Dio. …
Nel secondo verso del maṅgalam Sri Ramana dice che le persone mature che hanno un’intensa paura della morte prenderanno rifugio ai piedi di Dio, che è privo di morte e nascita, dipendendo da lui come la loro unica protezione, e che per il loro arrendersi essi sperimenteranno la morte (la fine o dissoluzione del loro sé limitato). Egli poi termina il verso ponendo una domanda retorica che implica che essendo morti al loro sé mortale ed essendo quindi divenuti uno con lo spirito immortale, essi non saranno più turbati da alcun pensiero della morte.

In questo verso le parole மரணபவமில்லா மகேசன் சரணமே சார்வர் (maraṇa-bhavam-illā mahēśaṉ caraṇamē sārvar), che significano letteralmente ‘essi prenderanno rifugio [dipenderanno da o si arrenderanno] ai piedi del grande signore, che è privo di morte e nascita’, sono una descrizione grafica dello stato di completo auto-abbandono – cioè, lo stato in cui arrendiamo il nostro falso sé limitato nella chiara luce del nostro vero sé infinito.

Il termine மரணபவமில்லா மகேசன் (maraṇa-bhavam-illā mahēśaṉ), ‘il grande signore [o Dio], che è privo di morte e nascita’, è una descrizione poetica del nostro sé eterno, e i suoi சரணம் (caranam) o ‘piedi’ rappresentano il nostro stato naturale di auto-consapevolezza non-duale e assolutamente chiara, ‘io sono’. Il verbo சார்வர் (sārvar), ‘essi prenderanno rifugio ai [dipenderanno da o si arrenderanno a]’, indica lo stato in cui la nostra mente si rivolge e si fonde in questa vera auto-consapevolezza. Quindi queste parole indicano lo stesso stato di essere auto-coscienti e senza pensiero che egli ha descritto nel verso precedente come உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே (uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē) o ‘solo essere nel [nostro] cuore come esso è [o come noi siamo]’.

Nel primo verso del nūl o ‘testo’ principale egli stabilisce la verità che c’è una realtà assoluta che sottende alla falsa apparizione di tutta la molteplicità e che ogni cosa non è nient’altro che questa unica realtà, che è il nostro vero sé. Cioè, egli dice che poiché vediamo il mondo, accettare ஓர் முதல் (ōr mudal) – unica originaria realtà, origine, sorgente, base, substrato, sfondo o causa prima – con un ‘potere che è molti’ (cioè, un potere che può apparire come se fosse molte cose differenti) è davvero sicuro, e che questa ‘unica realtà originaria’, che è il sé, è ciò che appare come ogni cosa: la mente che vede, l’immagine del mondo che essa vede, la luce di consapevolezza con cui essa vede, e lo sfondo o essere basilare che sostiene il suo vedere.

Nel verso 2 egli dice che tutte le dispute riguardo la natura di questa unica realtà – se l’anima, il mondo e Dio sono tutti essenzialmente quest’unica realtà, o se essi sono tre realtà eternamente separate – sono possibili solo finché il nostro ego esiste, e che dimorare nel nostro stato naturale (di puro essere auto-cosciente senza pensiero) è il risultato più importante.

Nel verso 3 egli ripete la stessa verità, chiedendo quale sia l’utilità di discutere se il mondo sia reale o una falsa apparenza, se sia conoscenza o ignoranza, o se sia o meno una sorgente di felicità, e indicando la semplice verità che lo stato senza ego, in cui abbiamo abbandonato tutto il pensiero del mondo e conosciuto solo il nostro sé essenziale, liberando quindi noi stessi dal nostro falso ‘io’ (la mente o ego) e dai suoi pensieri riguardo ‘uno’ (non-dualità) e ‘due’ (dualità), è piacevole a tutti.

Nel verso 4, ponendo una domanda retorica, ‘கண் அலால் காட்சி உண்டோ?’ (kaṇ alāl kātci uṇḍō?), che significa ‘è la vista diversa dall’occhio?’, egli ci insegna una verità sottile ma molto importante, vale a dire che la ‘vista’ (qualunque cosa è vista o sperimentata) non può essere diversa dall’’occhio’ (la consapevolezza che lo vede o lo sperimenta). Quindi egli dice che se siamo una forma (un corpo), il mondo e Dio lo saranno ugualmente, ma se non siamo alcuna forma, chi potrebbe vedere le loro forme, o come potremmo vederle? Egli poi termina questo verso dicendo che il vero occhio è solo il nostro sé essenziale, che è l’’occhio infinito’ (l’infinita consapevolezza di essere, ‘io sono’).

Nel verso 5 egli dice che il termine ‘corpo’ indica non solo il nostro corpo fisico ma tutte le nostre ‘cinque guaine’ (il corpo fisico, il prāṇa o vita che lo anima, la mente, l’intelletto e la pacifica assenza di conoscenza oggettiva che sperimentiamo nel sonno), e poi chiede retoricamente se il mondo esiste in assenza di un tale corpo (intendendo che non esiste), o se qualcuno ha visto il mondo dopo essersi separato dal corpo (come nel sonno o nella morte).

Nel verso 6 egli dice che il mondo non è nient’altro che i nostri cinque tipi di percezione sensoriale (visioni, suoni, odori, gusti e sensazioni tattili), che sono sensazioni percepite dai nostri cinque sensi, e poi chiede retoricamente se, poiché la nostra unica mente conosce il mondo attraverso questi cinque sensi, il mondo esiste in assenza di questa mente (intendendo che non esiste).

Nel verso 7 egli ripete la verità che il mondo esiste solo nella nostra mente, dicendo che sebbene il mondo e la nostra mente – la consapevolezza che lo conosce – sorgono e sprofondano (appaiono e scompaiono) simultaneamente (o come uno), il mondo ‘risplende’ (sembra esistere o è reso conosciuto) solo dalla nostra mente, e poi dichiara che solo il ‘tutto’ ( l’infinita pienezza di essere o consapevolezza), che risplende senza apparire o scomparire come lo sfondo per l’apparizione e la scomparsa (della nostra mente e del mondo), è பொருள் (poruḷ), la ‘sostanza’, ‘essenza’ o ‘realtà’ (di tutto ciò che in questo modo appare e scompare).

Avendo discusso la realtà della nostra esperienza di questa apparenza-mondo dal verso 3 al verso 7, nel verso 8 Sri Ramana discute la realtà di ‘vedere’ o sperimentare Dio, dicendo che sebbene egli è பொருள் (poruḷ) o la ‘realtà essenziale’, che è realmente priva di nome e forma, è possibile vederlo in nome e forma adorandolo in qualche forma, dandogli qualche nome, ma che solo conoscere la propria உண்மை (uṇmai) – ‘verità’, ‘essere’ o ‘sonoità’ – e quindi sprofondare e divenire uno con la sua உண்மை (uṇmai), è vedere lui in verità.

Dal verso 9 al verso 13 Sri Ramana discute la realtà di conoscenza e ignoranza e stabilisce la natura della vera conoscenza.

Nel verso 9 inizia insegnando che tutta la conoscenza dualistica o oggettiva dipende da ‘uno’ (vale a dire la nostra mente, che sola sperimenta questa conoscenza), e che se guardiamo all’interno della nostra mente per vedere cosa è quell’’uno’, questa conoscenza cesserà di esistere (perché scopriremo che la nostra mente, da cui essa dipende, è essa stessa non-esistente).

Nel verso 10 egli dice che conoscenza e ignoranza (riguardo oggetti o alterità) sono interdipendenti, esistendo ognuno solo in relazione all’altro, e che la vera conoscenza è solo ‘conoscenza’ (o consapevolezza) che conosce il ‘sé’ (la mente o l’ego), a chi conoscenza e ignoranza sembrano esistere (in altre parole, la vera conoscenza è solo la consapevolezza che sperimenta la verità che la mente – che è la sola radice, base o fondamento di conoscenza e ignoranza oggettive – è essa stessa non-esistente).

Nel verso 11 egli dice che conoscere l’alterità senza conoscere noi stessi che sperimentiamo questa conoscenza (o alterità) non è conoscenza ma solo ignoranza, e che quando conosciamo noi stessi (questa mente irreale), che è l’ādhāra (il supporto, substrato o sfondo) di conoscenza e ignoranza, essi cesseranno di esistere (poiché scopriremo che la mente stessa è non-esistente).

Nel verso 12 egli dice che la vera conoscenza non è quella (la nostra mente) che conosce (l’alterità), ma solo quello (il nostro sé reale) che è privo sia di conoscenza che di ignoranza (riguardo l’alterità), e che il nostro sé reale non è un vuoto (anche se è vuoto sia di conoscenza che di ignoranza riguardo l’alterità) ma vera conoscenza, perché risplende senza alcuna alterità da conoscere o da rendere conosciuta.

Nel verso 13 egli dice che solo il sé, che è jñāna (conoscenza o consapevolezza), è reale; che la conoscenza molteplice (conoscenza o consapevolezza della molteplicità), è solo ajñāna (ignoranza); e che anche questa ignoranza, che è irreale, non è niente altro che il sé (la sua sola sostanza reale), che è jñāna, proprio come tutti i molti ornamenti, che sono irreali (come forme separate), non sono altro che oro (la sostanza reale di cui essi sono fatti).

Dal verso 14 al verso 16 Sri Ramana discute la realtà di spazio e tempo, e stabilisce la verità che solo ‘noi’, che siamo privi di tempo e spazio, siamo reali.

Nel verso 14 inizia con il soggetto di spazio o ‘luogo’, e poiché nella grammatica Tamil le tre persone sono chiamate மூவிடம் (mū-v-iḍam) o i ‘tre luoghi’, egli dice che se la prima persona, la nostra falsa consapevolezza ‘io sono questo corpo’, esiste, la seconda e terza persona anche sembreranno esistere, ma che se esaminiamo la verità della prima persona, essa cesserà di esistere, e insieme con essa la seconda e terza persona cesseranno anche di esistere, e che solo il restante singolo (non-duale) தன்மை (taṉmai) — ‘sèità’, ‘essenza’, ‘realtà’, ‘prima persona’ o ‘stato’ – è il ‘sé’, il nostro stato reale.

Nelle prime due frasi di questo verso, la parola தன்மை (taṉmai) o la ‘prima persona’, che etimologicamente significa ‘séità’, indica ‘io’, la mente cosciente o soggetto, che sempre sperimenta sé stessa come ‘qui’ e ‘ora’, nel luogo e nel tempo presente; la parola முன்னிலை (muṉṉilai) o la ‘seconda persona’, che etimologicamente significa ‘quello che sta di fronte’, indica gli oggetti che la mente sperimenta più immediatamente, vale a dire i propri pensieri intimi; e la parola படர்க்கை (paḍarkkai) o la ‘terza persona’, che etimologicamente significa ‘quello che si estende [o espande]’, indica gli oggetti che la mente sperimenta più remotamente, vale a dire quei pensieri che appaiono come gli oggetti dell’apparente mondo esterno.

Poiché gli oggetti – sia quelli che riconosciamo come semplici pensieri (gli oggetti di ‘seconda persona’) e quelli che sembrano esistere in un mondo esterno (gli oggetti di ‘terza persona’) – sembrano esistere solo quando sono conosciuti dalla nostra mente pensante (la ‘prima persona’ o soggetto), essi cesseranno di esiste appena sperimentiamo la verità che questa falsa ‘prima persona’ è realmente non-esistente. E poiché lo spazio è un’illusione che è creata dall’apparente separazione tra il soggetto che conosce (la prima persona’) e i molti oggetti (le ‘seconde e terze persone’) che esso conosce, lo spazio cesserà di esistere appena il ‘primo luogo’ (la ‘prima persona o ‘qui’) cessa di esistere.

Nel verso 15 Sri Ramana continua a discutere la realtà del tempo, dicendo che il passato e il futuro si reggono aggrappandosi al presente (cioè, la loro esistenza apparente dipende dal presente); che mentre accadono entrambi sono il presente; che il presente è ‘solo uno’ (cioè, il solo tempo che noi sempre sperimentiamo realmente); e che cercare di conoscere il passato o il futuro senza conoscere la verità del presente è come cercare di contare senza conoscere ‘uno’ (il numero basico di cui tutti gli altri numeri sono costituiti).

Nel verso 16 egli conclude la sua discussione di tempo e spazio prima ponendo la domanda retorica ‘நாம் அன்றி நாள் ஏது, நாடு ஏது, நாடும் கால்?’ (nām aṉḏṟi nāḷ ēdu, nāḍu ēdu, nāḍum kāl?), che significa ‘quando [noi] esaminiamo, tranne noi, dov’è il tempo [e] dov’è il luogo?’ e che implica chiaramente che quando esaminiamo accuratamente noi stessi nel preciso luogo presente e nel preciso tempo presente, ‘qui’ e ‘ora’, scopriremo che solo ‘noi’ esistiamo realmente e che il tempo e il luogo sono completamente non-esistenti.

Dopo aver posto questa domanda, egli dice che se siamo un corpo, saremo intrappolati nel tempo e nel luogo, ma poi pone un’altra domanda retorica, ‘siamo noi [un] corpo?’, intendendo che non lo siamo. Poi conclude dicendo che poiché siamo ‘uno’ (l’unica realtà non-duale e immutabile), ora, poi e sempre, qui, lì e ovunque, quello che esiste realmente è solo ‘noi’, che siamo privi di tempo e luogo.

Nei versi 17 e 18 egli ci insegna l’irrealtà della nostra esperienza attuale – sia di noi stessi come un corpo limitato e del mondo come una serie di forme limitate – contrastandolo con l’esperienza di coloro che hanno conosciuto il sé.

Nel verso 17 egli dice che sia per coloro che non hanno conosciuto il sé che per coloro che lo hanno conosciuto, il corpo è certamente ‘io, ma che la differenza tra essi è che per coloro che non hanno conosciuto il sé, ‘io’ è limitato alle dimensioni del corpo, mentre per coloro che hanno conosciuto il sé, ‘io’ risplende senza ogni limite (e quindi né il corpo né qualsiasi altra cosa esiste come diverso da esso).

Nel verso 18 egli dice che sia per coloro che non hanno conosciuto il sé che per coloro che lo hanno conosciuto, il mondo è reale, ma che la differenza tra essi è che per coloro che non hanno conosciuto il sé, la realtà è limitata alle dimensioni del mondo, mentre per coloro che hanno conosciuto il sé, la realtà dimora priva di forma come l’ādhāra (il supporto, substrato o sfondo) del mondo. Cioè, mentre noi sperimentiamo come reali le forme molteplici di questo mondo, una persona che ha conosciuto il sé sperimenta come reale solo il suo sfondo senza forma o sostanza basilare.

Nel verso 19 egli dice che la disputa se prevalga il destino (vidhi) o il libero arbitrio (mati) è di interesse solo per coloro che non conoscono மூலம் (mūlam) - la radice, la base, il fondamento, l’origine o la sorgente – sia di destino che di libero arbitrio (vale a dire la mente, che usa impropriamente il suo libero arbitrio e sperimenta qualunque destino risulti da ciò), e che coloro che hanno conosciuto la verità di questa mente hanno quindi separato loro stessi da destino e libero arbitrio e nel futuro non saranno nuovamente intrappolati da essi. In altre parole, destino e libero arbitrio sembreranno esistere solo finché la nostra mente sembra esistere, ma quando esaminiamo questa mente e quindi conosciamo la verità che essa non esiste realmente, destino e libero arbitrio anche cesseranno di esistere.

Dal verso 20 al verso 22 egli ritorna sul soggetto di ‘vedere’ Dio, che aveva discusso precedentemente nel verso 8 (e anche dal verso 24 al verso 26 di Upadēśa Undiyār), e ancora una volta enfatizza la verità che possiamo sperimentare Dio come egli è realmente solo conoscendo il nostro sé reale e quindi abbandonando il nostro falso sé.

Nel verso 20 egli dice che vedere Dio senza vedere sé stessi, chi lo vede, e solo vedere மனோமயமாம் காட்சி (maṉōmayam-ām kāṭci) – una ‘visione che è composta di mente’ o ‘una visione fatta mente’ – e che solo colui che vede il suo sé reale, che è la sorgente e la base del suo falso sé, ha realmente visto Dio, perché il nostro sé reale, che solo rimane dopo la distruzione del nostro falso sé, che è la radice (di tutte le visioni o esperienze mentali), non è diverso da Dio.

Nel verso 21 egli chiede come possiamo ‘vedere’ noi stessi, dato che noi stessi è uno (e non è quindi qualcosa che possiamo ‘vedere’ come un oggetto che è diverso da noi stessi), e come possiamo ‘vedere’ Dio (come un oggetto di esperienza), dato che non possiamo mai ‘vedere’ noi stessi (come un oggetto di esperienza), e conclude dicendo ‘ஊண் ஆதல் காண்’ (ūṇ ādal kāṇ), che significa ‘divenire cibo [è] vedere’. Cioè, possiamo realmente vedere Dio, che è il nostro sé reale, solo abbandonando completamente noi stessi a lui, accettando di essere consumati nella sua infinita luce di originaria auto-consapevolezza, ‘io sono’.

Nel verso 22 egli ci chiede di considerare come possiamo meditare su Dio o conoscerlo con la nostra mente, se non rivolgendola all’interno e immergendola in Dio, che risplende all’interno di essa (come la sua essenziale auto-consapevolezza, ‘io sono’) dando luce ad essa (la luce di consapevolezza con cui è in grado di conoscere sia sé stessa che l’apparizione di pensieri, oggetti, o alterità).

Dal verso 23 al verso 29 egli discute il sorgere del nostro falso ‘io’, la mente o ego, e il mezzo con cui possiamo ritornare al nostro stato naturale, in cui questo ‘io’ non sorge.

Nel verso 23 egli dice che questo corpo non dice ‘io’, perché non è cosciente; che nessuno dice ‘nel sonno io non esisto’ (anche se il nostro corpo e la nostra mente nel sonno non esistono); e che dopo che un ‘io’ (la nostra mente o ego) sorge, ogni cosa sorge. Quindi egli ci istruisce ad esaminare con நுண் மதி (nūṇ mati) – un intelletto o potere di discernimento sottile, acuto, preciso e affilato – dove sorge questo ‘io’, e nella versione kalivenbā aggiunge che quando lo esaminiamo in questo modo, esso ‘scivolerà via’, ‘sgattaiolerà via’ o ‘fuggirà furtivamente’.

Cioè, questo falso ‘io’ sembra esistere solo finché non lo esaminiamo accuratamente, e scompare appena focalizziamo la nostra intera attenzione su di esso (proprio come un serpente immaginario scomparirebbe se lo guardassimo attentamente e riconoscessimo quindi che è solo una corda). Il fatto che questa è la natura della nostra mente o ego – il nostro pensiero primario ‘io’ – è una verità estremamente importante che Sri Ramana enfatizza ripetutamente, perché è un indizio vitale che spiega l’efficacia unica ed infallibile di ātma-vicāra o auto-investigazione.

In tutte le forme di pratica spirituale diverse da ātma-vicāra, la nostra attenzione è diretta verso qualcosa diversa dal nostro sé essenziale – la nostra consapevolezza fondamentale ‘io’ - cosi queste pratiche sosterranno e perpetueranno l’illusione del falso ‘io’ che le sta praticando, e quindi esse non potranno mai distruggerlo. Il solo mezzo con cui possiamo distruggere questa illusione è di ritirare la nostra attenzione da ogni altra cosa e focalizzarla esclusivamente su ‘io’, perché proprio come non riconosceremmo la verità che il serpente immaginario è realmente niente altro che una corda se non lo guardassimo accuratamente, così, se non lo esaminiamo accuratamente, non riconosceremo (o sperimenteremo realmente) la verità che questo immaginario ‘io’ limitato è realmente nient’altro che l’unico reale ‘io’ infinito.

Nel verso 24 egli inizia ripetendo la verità che questo corpo non cosciente non dice ‘io’, e poi dice che l’essere-consapevolezza (sat-cit) non sorge (appare o ha origine), ma che tra l’essere-consapevolezza e questo corpo non cosciente sorge un ‘io’ come la ‘dimensione’ di questo corpo (cioè, sorge una spuria consapevolezza ‘io’ come ‘io sono questo corpo’, assumendo i limiti dell’esistenza corporea, essendo confinata entro i limiti di tempo e spazio). Questo falso ‘io’, egli dice, è cit-jaḍa-granthi (il nodo che lega insieme la coscienza e il non-cosciente), schiavitù, l’anima, il ‘corpo sottile’, l’ego, la mente e questo saṁsāra (‘errare’, lo stato di attività incessante, attraversare una vita-sogno dopo l’altra).

Nel verso 25 egli descrive questo falso ‘io’ come உருவற்ற பேய் அகந்தை (uru-v-aṯṟa pēy ahandai), ‘l’ego-fantasma senza forma’, e dice che esso ha origine afferrando la forma (cioè, attaccando sé stesso a un corpo), resiste afferrando la forma (cioè, dando attenzione a pensieri e percezioni di un apparente mondo esterno), si nutre e cresce (prospera o si espande) abbondantemente afferrando la forma, e avendo lasciato una forma esso afferra un’altra forma. Cioè, poiché questo ego non ha forma propria (nessuna esistenza limitata o separata), può apparentemente avere origine e resistere solo quando immaginiamo noi stessi come la forma di un corpo, ed esso prospera quando diamo attenzione a qualche forma (qualsiasi cosa che appare separata da noi stessi).

Avendo spiegato in questo modo come questo ‘io’ sorge, resiste e prospera, gli spiega come può essere distrutto, dicendo தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும் (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa letteralmente ‘se [noi] cerchiamo [lo ricerchiamo, investighiamo esaminiamo o scrutiamo], esso prenderà il volo’. Cioè, poiché questo ego è un ‘fantasma senza forma’ e poiché può quindi sorgere e resistere solo ‘afferrando la forma’, quando esso cerca di ‘afferrare’ (o attendere a) sé stesso, che non è una forma, sprofonderà e scomparirà.

Così in questo verso Sri Ramana spiega più chiaramente la verità cruciale che aveva brevemente menzionato nell’ultima frase della versione kalivenbā del verso 23 - ‘நான் எங்கு எழும்?’ என்று நுண் மதியால் எண்ண நழுவும் (‘nāṉ eṅgu eṙum?’ eṉḏṟu nūṇ matiyāl eṇṇa naṙuvum), che significa ‘quando [noi] esaminiamo con un sottile potere di discernimento “dove sorge [questo] io?”, esso sgattaiolerà via’ – vale a dire la verità che la nostra mente o ego è nutrito e sostenuto dal dare attenzione a qualsiasi cosa diversa da sé stesso, e quindi sarà dissolto solo attendendo a sé stesso.

Come ho citato sopra, questa verità – che può in modo appropriato essere chiamata la ‘prima legge della consapevolezza’ o ‘prima legge della scienza dell’auto-conoscenza’ – è un principio fondamentale che dobbiamo comprendere se vogliamo riconoscere l’efficacia unica di ātma-vicāra e la limitazione fondamentale di ogni altra forma di pratica spirituale. Essa è anche la chiave per il completo auto-abbandono, perché il nostro falso sé è sostenuto dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da sé stesso, e quindi possiamo realmente abbandonarlo solo esaminandolo con attenzione, come Sri Ramana ci insegna nel tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?):
Solo essere completamente assorbiti in ātma-niṣṭhā [auto-dimora], non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi altro cintanā [pensiero] tranne che ātma-cintanā [auto-contemplazione o auto-attentività], è donare noi stessi a Dio. …
Nel verso 26 egli dichiara un altro principio fondamentale di questa scienza di auto-conoscenza, dicendo che se l’ego ha origine, ogni cosa avrà origine, e che se l’ego non esiste, ogni cosa non esisterà. Quindi dichiara la verità che அகந்தையே யாவும் ஆம் (ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘l’ego è davvero ogni cosa’, e conclude dicendo ஆதலால் ‘யாது இது?’ என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் (ādalāl ‘yādu idu?’ eṉḏṟu nāḍal-ē ōvudal yāvum), che significa ‘quindi investigare [o esaminare] “cos’è questo [ego]?” è davvero abbandonare [o rinunciare a] ogni cosa’. Cioè, poiché possiamo rinunciare o arrendere il nostro ego solo esaminando con attenzione per sapere cos’è realmente, e poiché ogni altra cosa non è realmente niente altro che questo ego, esaminare ‘cosa sono io?’ è realmente rinunciare a ogni cosa.

Così Sri Ramana ci insegna che non possiamo realmente rinunciare al mondo solamente divenendo un monaco, un eremita o un asceta, ma solo attendendo accuratamente alla nostra consapevolezza fondamentale ‘io’, astenendoci quindi da attendere ad ogni altra cosa. Quindi questa pratica di ātma-vicāra o auto-investigazione non è solo completo auto-abbandono ma anche assoluta rinuncia a ogni cosa.

Nel verso 27 egli ci insegna che ātma-vicāra è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare la verità dichiarata nei mahāvākya o ‘grandi detti’ dei Vēda come ahaṁ brahmāsmi, ‘io sono brahman [la realtà assoluta]’, e tat tvam asi, ‘quello [Dio o brahman] tu sei’. Nella prima riga egli dice che lo stato in cui ‘io’ dimora senza sorgere è lo stato in cui dimoriamo come ‘noi siamo quello’, e poi chiede come possiamo raggiungere o ottenere questo stato senza ego, in cui ‘io’ non sorge, se non esaminiamo la sorgente da cui esso sorge. Qui le parole நான் உதிக்கும் தானம் (nāṉ udikkum [s]thānam), che significano letteralmente il ‘luogo dove sorge io’ o il ‘luogo sorgente di io’, indicano il nostro sé reale, che è il ‘luogo’ o sorgente da cui sorge il nostro falso sé (proprio come la corda è il ‘luogo’ o sorgente da cui sorge il serpente immaginario).

Dopo aver inteso in questo modo che l’auto-investigazione è il solo mezzo con cui possiamo ‘raggiungere’ il nostro stato naturale di non-sorgenza, egli pone un’altra domanda retorica, che ripete la verità che ha dichiarato nella prima riga, intendendo che se non raggiungiamo questo stato privo di ego, non possiamo dimorare come ‘quello’ che siamo realmente (vale a dire brahman, l’unica realtà assoluta).

Nel verso 28 egli descrive la pratica di ātma-vicāra in un modo più grafico, dicendo che proprio come dovremmo affondare (immergerci o tuffarci) per trovare qualcosa caduta nell’acqua, dovremmo affondare profondamente dentro noi stessi con un potere di discernimento acuto e penetrante, controllando quindi il respiro e la parola, e conoscere il ‘luogo-sorgente’ o sorgente del nostro ego, che sorge (come la radice di tutto il sorgere).

Nel verso 29 egli ci insegna che solo questa acuta auto-investigazione o ātma-vicāra – che descrive come la pratica di ‘aver scartato il nostro corpo come un cadavere e non pronunciando con la bocca la parola ‘io’, investigare con una mente che affonda all’interno “dove essa [la nostra mente] sorge come io?”’ – è il sentiero di jñāna (o vera conoscenza), e che altre pratiche come meditare sul pensiero ‘io non sono questo corpo, io sono brahman’ sono solo aiuti ma non solo la reale pratica di ātma-vicāra.

Nel verso 30 egli ripete la verità che ha dichiarato nel verso 20 di Upadēśa Undiyār e nel verso 2 di Āṉma-Viddai, dicendo che quando la nostra mente raggiunge il nostro cuore (il centro più profondo del nostro essere) esaminando interiormente ‘chi sono io?’ e quindi muore, l’unica realtà ‘apparirà’ o ‘rifulgerà’ (cioè, sarà sperimentata) spontaneamente come ‘io [sono] io’, e poi chiarifica che sebbene esso ‘appare’, non è ‘io’ (l’ego) ma è il totale poruḷ (l’unica infinita ‘sostanza’, ‘essenza’ o ‘realtà’), il poruḷ che è il sé. Cioè, poiché il nostro sé reale è infinito, eterno e immutabile, esso mai realmente ‘appare’ (o ‘rifulge’), ma è descritto come ‘apparente’ (o ‘rifulgente’) perché nel preciso momento in cui la nostra mente sprofonda nella più interna profondità del nostro essere, ci sembrerà di sperimentarlo con una chiarezza completamente nuova e fresca. Questa fresca chiarezza di auto-consapevolezza o auto-conoscenza (che è ciò che qualche volta è chiamata aham-sphuraṇa o ātma-sphuraṇa, il ‘rifulgere di io’ o ‘chiara apparizione del sé’) distruggerà istantaneamente l’ultima vestigia della nostra mente, al che la sua novità calerà e la sperimenteremo come il nostro sé eternamente chiaro e sempre immutabile.

Nel verso 31 egli ripete la verità che ha dichiarato nel verso 15 di Upadēśa Undiyār, chiedendo retoricamente cosa c’è da fare per uno che gode la beatitudine del sé, che è sorto (come ‘io [sono] io’) distruggendo il falso sé (o ego) – intendendo quindi che il nostro stato naturale di chiara auto-consapevolezza è assolutamente privo di karma o azione (poiché la mente, ‘l’agente’ o chi fa tutta l’azione, ha cessato di esistere) – e conclude questo verso con un’altra domanda retorica, chiedendo chi può comprendere cos’è realmente questo stato non-duale di vera auto-conoscenza, poiché in questo stato non si conosce niente altro che sé.

Nel verso 32 egli ritorna nuovamente sul soggetto di come possiamo sperimentare la verità insegnata nei mahāvākya come tat tvam asi o ‘quello tu sei’ (che egli ha discusso nel verso 27 e nel verso 29, e che menziona nuovamente nel verso 36), dicendo che quando i Vēda dichiarano che ‘quello tu sei’, dovremmo conoscere ed essere il nostro verso sé investigando ‘cosa sono io?’, e che se invece di conoscere noi stessi in questo modo solo pensiamo ‘io sono quella [realtà], non questo [corpo irreale]’, questo è causato dalla mancanza di chiara discriminazione (o forza di convinzione), perché ‘quello’ (l’unica realtà assoluta o Dio) sempre dimora con il nostro vero sé.

Nel verso 33 egli chiarifica la natura della vera auto-conoscenza, che è assolutamente non-duale e non-oggettiva, insegnandoci che dire ‘io non conosco me stesso’ o ‘io ho conosciuto me stesso’ è motivo di ridicolo, perché non siamo due sé, uno dei quali possa essere un oggetto conosciuto dall’altro, poiché essere uno è la vera esperienza di ciascuno di noi.

Nel verso 34 egli ci insegna che è sciocco discutere sulla natura della realtà invece di dimorare come essa, dicendo che poiché பொருள் (poruḷ) o ‘realtà essenziale’ sempre esiste come la vera natura di ciascuno di noi, dibattere se essa esista o non esista, se sia una forma o senza forma, o se è una, o due, o nessuna dei due (né una né due), invece di conoscere e dimorare fermamente come essa nel nostro cuore, dove essa esiste (o per mezzo di una mente che si fonde all’interno), è மாயைச் சழக்கு (māyai-c-caṙakku), un errore o un male di māyā o auto-inganno.

Nel verso 35 egli ci insegna che il solo valido siddhi o ‘conseguimento’ è ātma-siddhi o ‘auto-conseguimento’ e non il conseguimento di qualche potere sovrannaturale, dicendo che conoscere ed essere பொருள் (poruḷ) o ‘realtà essenziale’, che è sempre conseguita, è il solo vero conseguimento, e che tutti gli altri conseguimenti sono solamente conseguimenti sperimentati in un sogno. Egli poi chiede se questi conseguimenti saranno reali se ci svegliamo dal nostro attuale sonno di auto-dimenticanza, e se coloro che dimorano nello stato di உண்மை (uṇmai), ‘realtà’ o ‘essere’, e che hanno quindi scartato l’irrealtà, saranno ingannati (da qualche falso conseguimento).

Nel verso 36 egli ci insegna nuovamente che non possiamo sperimentare noi stessi come l’unica realtà infinita solamente meditando ‘io sono quello’, dicendo che se pensiamo di essere questo corpo, pensare ‘no, noi siamo quello’ sarà un aiuto utile per ricordarci di dimorare come ‘quello’, ma continua chiedendo perché dovremmo sempre pensare che ‘noi siamo quello’, dato che in verità sempre esistiamo come ‘quello’. Per illustrare l’assurdità e la futilità di meditare ‘io sono quello’, egli chiede se qualcuno medita ‘io sono un essere umano’ per essere un umano, così per essere la realtà che siamo sempre non abbiamo bisogno di meditare ‘io sono quello’.

Nel verso 37 egli ci ricorda che siamo sempre l’unica realtà non-duale, anche quando immaginiamo di star cercando di sperimentare noi stessi come tali, dicendo che anche l’assunto per cui ‘la dualità [è reale] nello [stato di] pratica spirituale, [ma] la non-dualità [è reale] nello [stato di] realizzazione spirituale’ non è vero, e per illustrare questa verità chiede chi siamo se non il decimo uomo, sia quando siamo disperatamente alla ricerca (di noi stessi) sia quando abbiamo trovato noi stessi.

Come spiego in un distinto articolo, La non-dualità è la verità anche quando la dualità sembra esistere (che è un estratto dal capitolo 5 di Felicità e l’Arte di Essere), il dasaman o ‘decimo uomo’ che Sri Ramana menziona in questo verso, è uno dei dieci uomini ottusi in una storia ben nota, secondo la quale essi immaginavano di aver perduto uno dei loro compagni perché, dopo aver guadato un fiume, ciascuno di loro contava i propri nove compagni ma dimenticava di contare sé stesso, il proverbiale ‘decimo uomo’. Proprio come ciascuno di loro era il ‘decimo uomo’ mancante anche quando immaginavano che il ‘decimo uomo’ fosse perduto, ciascuno di noi è l’unico sé reale anche quando ci immaginiamo mancanti di una conoscenza chiara di chi siamo realmente.

Tuttavia, sebbene la nostra attuale auto-ignoranza e tutti i suoi effetti sono una mera immaginazione, proprio come la perdita del ‘decimo uomo’ era una mera immaginazione, fintantoché sperimentiamo qualcuno di questi effetti – anche la minima traccia di dualità o alterità – dobbiamo fare lo sforzo di conoscere noi stessi e quindi dissipare questa illusione di auto-ignoranza, che è la causa radice di tutta la dualità.

Per enfatizzare la verità che dobbiamo senza dubbio fare lo sforzo di dissipare la nostra immaginaria auto-ignoranza, nel verso 38 Sri Ramana dice che se siamo l’agente o ‘colui che fa’ le azioni, certamente sperimenteremo il ‘frutto’ o conseguenze risultanti, ma che quando conosciamo noi stessi investigando ‘chi è colui che fa l’azione?’ il nostro kartṛtva o senso di ‘essere l’agente’ (la nostra sensazione che ‘io sto facendo un’azione’) se ne andrà e tutti i ‘tre karma’ cesseranno di esistere. Questo stato privo di ‘agente’ e dei suoi ‘tre karma’ è, dice Sri Ramana, lo stato di mukti o ‘liberazione’, che è eterno (essendo senza inizio, interruzione o fine).

Come spiego in un articolo distinto, Le azioni o karma sono come semi (che è un estratto dal capitolo 4 di Felicità e l’Arte di Essere, i ‘tre karma’ sono (1) il nostro āgāmya karma, le nostre azioni attuali, che compiamo per il nostro libero arbitrio sotto l’influenza delle nostre vāsanā (i ‘semi’ latenti dei nostri desideri) e che quindi generano non solo molti più ‘semi’ ma anche ‘frutti’ da essere sperimentati da noi successivamente; (2) il nostro saṁcita karma, la riserva dei ‘frutti’ delle nostre azioni passate che devono ancora essere da noi sperimentati; e (3) il nostro prārabdha karma, il nostro attuale destino o fato, che è la serie di questi ‘frutti’ delle nostre azioni passate che Dio ha selezionato e ha ordinato che siano da noi sperimentati in questa vita. Questi ‘tre karma’ sembreranno reali finché confondiamo noi stessi come un ‘agente’ e uno ‘sperimentatore’, cioè, un individuo che compie azioni e che sperimenta piacere e dolore che sono i ‘frutti’ o conseguenze delle azioni che abbiamo compiuto nel passato.

Tuttavia, se investighiamo ‘chi sono io, che ora sento che sto facendo azioni?’ – cioè, se esaminiamo accuratamente la nostra consapevolezza essenziale ‘io sono’, che ora confondiamo con la mente, la parola e il corpo che compiono azioni – scopriremo che non siamo realmente un individuo limitato che compie azioni con mente, parola e corpo, ma siamo solo la consapevolezza infinita che veramente è. Quando arriviamo in questo modo a conoscere noi stessi come siamo realmente, cesseremo di confonderci come l’’agente’ di ogni azione o lo ‘sperimentatore’ del frutto di ogni azione.

Nel verso 39 egli enfatizza ancora una volta il nostro bisogno di fare sforzo per dissipare la nostra auto-ignoranza immaginaria, dicendo che pensieri di schiavitù e liberazione esisteranno solo finché sperimentiamo noi stessi come ‘io sono una persona in schiavitù’, ma che quando vediamo noi stessi investigando ‘chi è questa persona in schiavitù?’, solo il nostro sé reale, che è eternamente liberato, rimarrà come quello che è sempre conseguito, e poi chiede se di fronte (a questa chiara auto-conoscenza) il pensiero di liberazione può rimanere, dato che il pensiero di schiavitù non può rimanere.

Infine nel verso 40 Sri Ramana risponde a coloro che dicono che la mukti o liberazione che possiamo conseguire è di tre generi, con forma, senza forma, o con o senza forma, affermando enfaticamente che la liberazione è la distruzione della forma immaginario dell’ego, che distingue questi generi di liberazione, con forma, senza forma, o con forma o senza forma.


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