Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

lunedì 6 febbraio 2017

Come Bhagavan, Sankara ha insegnato che gli oggetti sono percepiti solo attraverso l’ignoranza e quindi per mezzo della mente e non per mezzo di noi stessi come siamo realmente

Michael James

22 Gennaio 2017
Like Bhagavan, Sankara taught that objects are perceived only through ignorance and hence by the mind and not by ourself as we actually are

In due commenti al mio articolo precedente, Ciò che è consapevole di ogni cosa diversa da noi stessi è solo l’ego e non noi stessi come siamo realmente, un amico di nome Ken ha citato la traduzione Inglese di Swami Nikhilananda dei commentari di Adi Sankara al Māṇḍukya Kārikā 2.12 e 2.33, e in risposta a questo ho scritto il commento seguente:
Ken, in uno dei tuoi commenti citi il commentario di Sankara al Māṇḍukya Kārikā 2.12, in cui (secondo la traduzione di Swami Nikhilananda) egli dice, ‘Lo stesso auto-luminoso Ātman, per mezzo della propria Māyā, immagina in sé stesso in differenti oggetti […] come l’immaginazione del serpente, ecc. nella corda, ecc. Egli stesso li conosce, dal momento che li ha immaginati’, mentre nel tuo commento precedente hai citato il suo commentario 2.33, in cui egli dice, ‘Proprio come in una corda, un serpente irreale, una striscia d’acqua o una cosa simile è immaginata, […] anche così questo Ātman è immaginato essere gli innumerevoli oggetti come il Prāṇa, ecc., che sono irreali e percepiti solo attraverso l’ignoranza, ma non dal punto di vista della Realtà Definitiva. Dato che, se la mente non è attiva, nessuno è mai in grado di percepire alcun oggetto. Ma nessuna azione è possibile per Ātman. Quindi gli oggetti che sono percepiti esistere dalla mente attiva non possono mai essere immaginati avere esistenza dal punto di vista della Realtà Definitiva.

Se li consideriamo superficialmente, in questi due brani Sankara sembra contraddire sé stesso, perché nel primo dice che lo stesso ātman immagina e conosce gli oggetti, mentre nel secondo dice che gli oggetti ‘sono irreali e percepiti solo attraverso l’ignoranza, ma non dal punto di vista della Realtà Definitiva’ e che ‘se la mente non è attiva, nessuno è mai in grado di percepire alcun oggetto. Ma nessuna azione è possibile per Ātman. Quindi gli oggetti che sono percepiti esistere dalla mente attiva non possono mai essere immaginati avere esistenza dal punto di vista della Realtà Definitiva’, intendendo con questo che gli oggetti sono immaginati e percepiti solo dalla mente attiva e non da ātman, che è la realtà definitiva.

Come dovremmo conciliare questa contraddizione apparente? La risposta è semplice: il termine ‘ātman’ significa ‘sé stessi’ o ‘noi stessi’, e come siamo realmente noi non immaginiamo niente e non siamo consapevoli di niente altro che noi stessi come siamo realmente, che è solo pura, infinita e indivisibile auto-consapevolezza o sat-cit-ānanda, la realtà definitiva, ma quando sorgiamo apparentemente come questo ego o mente, come tali proiettiamo (o immaginiamo) e percepiamo tutti gli oggetti (ogni cosa che sembra essere diversa dalla pura auto-consapevolezza che siamo realmente). In altre parole, come è realmente, ātman, non proietta o percepisce alcuna cosa, così è solo come questo ego o mente che esso proietta e percepisce ogni cosa.

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella parte del quarto paragrafo di Nāṉ Yār? che ho citato nella sezione 5 di questo articolo: ‘Ad esclusione dei pensieri, non c’è separatamente una cosa come il mondo. Nel sonno non ci sono pensieri, e [di conseguenza] anche non c’è mondo; nella veglia e nel sogno ci sono pensieri, e [di conseguenza] c’è anche un mondo. Proprio come un ragno allunga il filo da dentro sé stesso e di nuovo lo ritira in sé stesso, così la mente proietta il mondo da dentro sé stessa e di nuovo lo dissolve in sé stessa. Quando la mente esce da ātma-svarūpa, il mondo appare. Quindi quando il mondo appare, svarūpa [noi stessi come siamo realmente] non appare; quando svarūpa appare (risplende), il mondo non appare’.
In risposta a questo un amico di nome Jeremy ha scritto un commento in cui ha obbiettato, ‘Non vedo una contraddizione tra i commenti di Sankara che sono citati da Ken’, e poi ha offerto la propria interpretazione dei commentari di Sankara su questi due versi di Māṇḍukya Kārikā. Quindi in questo articolo risponderò a ciò che egli ha detto in quel commento.
  1. L’apparente contraddizione tra i commentari di Sankara al Māṇḍukya Kārikā 2.12 e 2.33
  2. L’ego o mente è māyā, e senza di esso non ci può essere immaginazione o percezione di oggetti
  3. Gli oggetti sono percepiti solo attraverso l’ignoranza, così essi sono percepiti solo da noi stessi come la mente e non come noi stessi come la realtà definitiva
  4. Gli oggetti non sono niente altro che ātma-svarūpa, ma non possiamo vedere ātma-svarūpa come è mentre la vediamo come oggetti
  5. Nāṉ Yār? paragrafi 3 e 4: la percezione del mondo cesserà quando vedremo svarūpa, la nostra ‘propria forma’ o natura reale
  6. Nāṉ Yār? paragrafo 7: ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa, così qualunque altra cosa che può sembrare esistere non è ciò che sembra essere ma solo ātma-svarūpa
  7. Poiché ātma-svarūpa non è auto-ignorante, non può vedere sé stessa come qualsiasi cosa diversa da sé stessa, così ogni altra cosa è percepita solo dalla mente auto-ignorante
  8. Sebbene ‘ātman’ è un sostantivo o pronome maschile, si riferisce al nostro sé privo di genere, così il suo significato inteso è trasmesso meglio dai pronomi generici e senza genere ‘uno’ e ‘sé stesso’
  9. Poiché ‘ātman’ funge da pronome generico in riferimento a sé stesso, sia che si riferisca a sé stesso in generale, a sé stesso come uno è realmente o sé stesso come uno sembra essere dipende dal contesto in cui è usato
  10. Poiché alcuni filosofi Buddhisti negano l’esistenza di qualsiasi sé, essi sostengono che non c’è supporto per la conoscenza e la memoria
  11. Ciò che siamo realmente è pura consapevolezza intransitiva, perché nel sonno siamo consapevoli senza esserlo di qualcosa diversa da noi stessi
  12. Per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, dobbiamo essere disposti a cessare per sempre di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa


1. L’apparente contraddizione tra i commentari di Sankara al Māṇḍukya Kārikā 2.12 e 2.33

Jeremy, se interpretiamo il termine ‘ātman’ in entrambi i brani nel significato di noi stessi come siamo realmente (che è ciò che Bhagavan generalmente chiama ātma-svarūpa, la ‘propria forma’ o reale natura di noi stessi), allora ci sarebbe molto chiaramente una contraddizione, perché ciò che siamo realmente è la realtà definitiva, così se Sankara avesse usato ‘ātman’ in quel senso nel suo commentario al Māṇḍukya Kārikā 2.12, avrebbe detto che la realtà definitiva stessa immagina e conosce gli oggetti, mentre nel suo commentario al 2.33 egli rifiuta quell’idea dicendo che gli oggetti ‘sono irreali e percepiti solo attraverso l’ignoranza, ma non dal punto di vista della Realtà Definitiva’ e che ‘se la mente non è attiva, nessuno è mai in grado di percepire alcun oggetto. Ma nessuna azione è possibile per Ātman. Quindi gli oggetti che sono percepiti esistere dalla mente attiva non possono essere immaginati avere esistenza dal punto di vista della Realtà Definitiva’.

Quindi, a meno che non siamo pronti ad accettare che egli ha contraddetto sé stesso, che sarebbe ovviamente una affermazione irragionevole, dobbiamo dedurre che nel suo commentario al 2.12 egli non stava usando ‘ātman’ nel senso di noi stessi come siamo realmente ma solo nel senso di noi stessi in generale, e che ciò che egli intendeva quando ha scritto ‘Lo stesso Ātman auto-luminoso, per mezzo della propria Māyā, immagina in sé stesso i differenti oggetti […] come l’immaginazione del serpente, ecc., nella corda, ecc. Esso stesso li riconosce, come li ha immaginati’ è che quando sorgiamo come questo ego o mente, che è māyā, con questo proiettiamo e percepiamo gli oggetti. In altre parole, ciò che immagina e percepisce gli oggetti non è noi stessi come siamo realmente ma solo noi stessi come questa mente.

2. L’ego o mente è māyā, e senza di esso non ci può essere immaginazione o percezione di oggetti

Senza l’ego, che è la radice e l’essenza della mente, non ci sarebbe una cosa come māyā, perché māyā non esiste realmente ma soltanto sembra esistere, e sembra esistere solo nella visione dell’ego e non nella visione di noi stessi come siamo realmente. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu: ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. L’ego stesso è ogni cosa’. Quindi l’ego o mente è māyā, e non c’è māyā oltre a quello (che è il motivo per cui Bhagavan ha spesso usato il termine composto மனமாயை (maṉa-māyai), che significa ‘mente-māyā’ o ‘māyā, la mente’, come registrato da Muruganar in molti versi di Guru Vācaka Kōvai, come i versi 22, 55, 118, 296, 560, 597 e 1090).

Senza māyā, la mente, non ci può essere immaginazione o percezione di oggetti, come Sankara conferma nel suo commentario al 2.33 quando dice che gli oggetti ‘sono irreali e percepiti solo attraverso l’ignoranza, ma non dal punto di vista della Realtà Definitiva’ e che ‘se la mente non è attiva, nessuno è mai in grado di percepire alcun oggetto. Ma nessuna azione è possibile per Ātman. Quindi gli oggetti che sono percepiti esistere dalla mente attiva non possono essere immaginati avere esistenza dal punto di vista della Realtà Definitiva’.

3. Gli oggetti sono percepiti solo attraverso l’ignoranza, così essi sono percepiti solo da noi stessi come la mente e non da noi stessi come la realtà definitiva

Ciò che egli dice nel suo commentario al 2.33 conferma molto chiaramente che gli oggetti sono ‘percepiti solo attraverso l’ignoranza’ e che ‘se la mente non è attiva, nessuno è mai in grado di percepire alcun oggetto’, così poiché la realtà definitiva, che è ciò che siamo realmente (ātma-svarūpa o brahman), non è la mente e non è mai soggetto ad ignoranza, come può esso percepire alcun oggetto? L’idea che esso immagina e percepisce degli oggetti (qualsiasi cosa diversa da sé stesso) è da lui esplicitamente rifiutata nello stesso brano quando dice che gli oggetti non sono percepiti ‘dal punto di vista della Realtà Definitiva’ e che poiché ‘nessuna azione è possibile per Ātman’, ‘gli oggetti che sono percepiti esistere dalla mente attiva non possono mai essere immaginati o avere esistenza dal punto di vista della Realtà Definitiva’.

4. Gli oggetti non sono niente altro che ātma-svarūpa, ma non possiamo vedere ātma-svarūpa come è mentre la vediamo come oggetti

Tu cerchi di giustificare questa ovvia implicazione di ciò che Sankara afferma nel suo commentario del 2.33 dicendo, ‘Nel 2.33 egli dice che gli oggetti che sono in realtà il Sé non hanno esistenza separata e sono percepiti come reali (avendo esistenza separata) attraverso l’ignoranza’, ma sebbene è vero che ogni cosa è ātma-svarūpa e quindi non separato da essa, ciò che Sankara dice realmente è che gli oggetti sono ‘percepiti solo attraverso l’ignoranza’ e non possono essere percepiti ‘se la mente non è attiva’, poiché essi ‘sono percepiti esistere dalla mente attiva’, e non menziona nessuna cosa riguardo il loro essere ‘percepiti come reali (avendo esistenza separata) attraverso l’ignoranza’. Aggiungendo ‘come essere reali (avendo esistenza separata)’ invece di ‘solo’ nella frase 'percepiti solo attraverso l’ignoranza’, stai limitando e quindi distorcendo il significato di ciò che ha detto. Quando egli dice che gli oggetti sono ‘percepiti solo attraverso l’ignoranza’, intende che tranne che attraverso l’ignoranza essi non sono affatto percepiti, e non solo che essi non sono percepiti come reali o come avere un’esistenza separata.

Quando aggiungi ‘come essere reali (avendo esistenza separata)’, intendi che gli oggetti potrebbero essere percepiti come non separati da ātma-svarūpa, e sembri pensare che se essi fossero percepiti come non separati non sarebbe attraverso l’ignoranza. Ma come gli oggetti potrebbero essere percepiti come non separati da ātma-svarūpa? E se fosse detto che essi potrebbero essere percepiti come non separati, questo cosa significherebbe? Essere percepiti come non separati da ātma-svarūpa significa essere percepiti come ātma-svarūpa, e se gli oggetti fossero percepiti come ātma-svarūpa non sarebbero percepiti come oggetti, perché sebbene gli oggetti non sono niente altro che ātma-svarūpa, proprio come un serpente illusorio non è niente altro che una corda, la natura degli oggetti è in molti aspetti del tutto contraria alla natura di ātma-svarūpa. Per esempio, ātma-svarūpa è una, infinita, indivisibile, immutabile, senza altro, senza forma, senza tempo, auto-consapevole e auto-risplendente, mentre gli oggetti sono numerosi, finiti, divisibili, mutevoli, altri, forme, legati al tempo, non consapevoli e risplendenti solo per la luce della mente, che è cidābhāsa, un mero riflesso o somiglianza della consapevolezza originale che è ātma-svarūpa.

Proprio come non possiamo vedere una corda come una corda e come un serpente simultaneamente, perché se riconosciamo che è solo una corda non possiamo confonderla come un serpente, e finché la confondiamo come un serpente non stiamo riconoscendo che è solo una corda, non possiamo vedere noi stessi come siamo realmente e come gli oggetti simultaneamente, perché se riconosciamo noi stessi come ciò che siamo realmente (vale a dire ātma-svarūpa o brahman) non possiamo confondere noi stessi con qualsiasi altra cosa (qualsiasi oggetto, forma o fenomeno), e finché confondiamo noi stessi come qualsiasi oggetto, forma o fenomeno non stiamo riconoscendo noi stessi come ciò che siamo realmente.

5. Nāṉ Yār? paragrafi 3 e 4: la percezione del mondo cesserà quando vedremo svarūpa, la nostra ‘propria forma’ o natura reale

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel terzo e quarto paragrafo di Nāṉ Yār?:
சர்வ அறிவிற்கும் சர்வ தொழிற்குங் காரண மாகிய மன மடங்கினால் ஜகதிருஷ்டி நீங்கும். கற்பித ஸர்ப்ப ஞானம் போனா லொழிய அதிஷ்டான ரஜ்ஜு ஞானம் உண்டாகாதது போல, கற்பிதமான ஜகதிருஷ்டி நீங்கினா லொழிய அதிஷ்டான சொரூப தர்சன முண்டாகாது.

sarva aṟiviṟkum sarva toṙiṟkum kāraṇam-āhiya maṉam aḍaṅgiṉāl jaga-diruṣṭi nīṅgum. kaṟpita sarppa-ñāṉam pōṉāl oṙiya adhiṣṭhāṉa rajju-ñāṉam uṇḍāhādadu pōla, kaṟpitamāṉa jaga-diruṣṭi nīṅgiṉāl oṙiya adhiṣṭhāṉa sorūpa-darśaṉam uṇḍāhādu.

Se la mente, che è la causa di tutta la consapevolezza [di cose diverse da sé stessa] e di tutta l’attività, sprofonda, jagad-dṛṣṭi [la percezione del mondo] cesserà. Proprio come se non cessa l’inutile consapevolezza del serpente immaginario, la consapevolezza della corda, che è l’adhiṣṭhāna [base o fondamento], non sorgerà, se non cessa la percezione del mondo, che è kalpita [una costruzione o invenzione dell’immaginazione], la visione di svarūpa [la propria forma o reale natura], che è l’adhiṣṭhāna, non sorgerà.

[...] மனம் ஆத்ம சொரூபத்தினின்று வெளிப்படும்போது ஜகம் தோன்றும். ஆகையால், ஜகம் தோன்றும்போது சொரூபம் தோன்றாது; சொரூபம் தோன்றும் (பிரகாசிக்கும்) போது ஜகம் தோன்றாது. [...]

[...] maṉam ātma sorūpattiṉiṉḏṟu veḷippaḍum-pōdu jagam tōṉḏṟum. āhaiyāl, jagam tōṉḏṟum-pōdu sorūpam tōṉḏṟādu; sorūpam tōṉḏṟum (pirakāśikkum) pōdu jagam tōṉḏṟādu. [...]

[...] Quando la mente esce da ātma-svarūpa, il mondo appare. Quindi quando il mondo appare, svarūpa non appare; quando svarūpa appare (risplende), il mondo non appare. [...]
Poiché solo ātma-svarūpa (la ‘forma propria’ o reale natura di sé stessi) è ciò che sembra essere tutti gli oggetti (forme o fenomeni), proprio come solo una corda è ciò che sembra essere un serpente, se siamo consapevoli di ātma-svarūpa come ātma-svarūpa non possiamo essere consapevoli di essa come qualsiasi oggetto, e se siamo consapevoli di essa come qualsiasi oggetto non possiamo essere consapevoli di essa come ātma-svarūpa.

6. Nāṉ Yār? paragrafo 7: ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa, così qualunque altra cosa che può sembrare esistere non è ciò che sembra essere ma è solo ātma-svarūpa

Come Bhagavan dice nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே’ (yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē), che significa ‘Ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa’, così qualunque altra cosa può sembrare esistere non esiste realmente come sembra essere, perché ciò che essa è realmente è solo ātma-svarūpa. Quindi tutti gli oggetti, le forme o i fenomeni non esistono realmente come tali, perché ciò che essi sono realmente è solo ātma-svarūpa.

7. Poiché ātma-svarūpa non è auto-ignorante, non può vedere sé stesso come qualsiasi cosa diversa da sé stesso, così ogni altra cosa è percepita solo dalla mente auto-ignorante

Poiché ātma-svarūpa non può mai essere auto-ignorante, è sempre consapevole di sé stesso come è realmente, e quindi non può mai essere consapevole di sé stesso come qualsiasi altra cosa (come qualche oggetto, forma o fenomeno). Quindi ciò che è consapevole di ātma-svarūpa come se fosse numerosi oggetti, forme o fenomeni non è noi stessi come siamo realmente (perché ciò che siamo realmente è solo ātma-svarūpa) ma solo noi stessi come questo ego o mente auto-ignorante, che è māyā. Questo è il motivo per cui nel suo commentario al 2.12 Sankara dice che sé stesso (ātman) per mezzo della propria māyā (cioè, sorgendo come la mente) immagina in sé stesso i differenti oggetti, e che sé stesso li conosce come li ha immaginati (cioè, per mezzo della propria māyā, che è ciò che appare come questa mente e quindi proietta e percepisce tutti gli oggetti).

8. Sebbene ‘ātman’ è un sostantivo o pronome maschile, si riferisce al nostro sé privo di genere, così il suo significato intesto è trasmesso meglio dai pronomi generici e senza genere ‘uno’ e ‘sé stesso’

Nella sua traduzione del commentario di Sankara al 2.12 Nikhilananda ha tradotto questa parte come: ‘Lo stesso Ātman auto-luminoso, per mezzo della propria Māyā, immagina in lui stesso i differenti oggetti […] come l’immaginazione del serpente, ecc., nella corda, ecc. Egli stesso li conosce, come li ha immaginati’. Sebbene in questo contesto ātman significa ‘sé stesso’, e sebbene sé stesso è senza genere, Nikhilananda ha usato il pronome di terza persona maschile per riferirsi ad esso perché, come ho spiegato nella sezione finale del mio articolo precedente, ‘ātman’ è un sostantivo o pronome singolare maschile, anche se può riferirsi a un sostantivo di qualsiasi numero o genere (e quindi secondo il contesto può significare me stesso, tu stesso, lui stesso, lei stessa, noi stessi, voi stessi e essi stessi). Quindi sebbene Nikhilananda ha trattato ‘ātman’ letteralmente come maschile usando pronomi maschili per riferirsi ad esso, il significato inteso di questa parte può essere trasmesso più chiaramente usando i pronomi generici e senza genere ‘uno’ e ‘sé stesso’ al posto di ‘egli’, ‘lui’ e ‘lui stesso’.

9. Poiché ‘ātman’ funge da pronome generico in riferimento a sé stesso, sia che si riferisca a sé stesso in generale, a sé stesso come uno è realmente o a sé stesso come uno sembra essere dipende dal contesto in cui è usato

Nel tuo commento hai scritto, ‘Non penso che tu puoi sostenere che nel 2.12 Sankara sta usando atman per riferirsi a ‘sé stesso’’, ma in un contesto spirituale come questo ‘ātman’ non può riferirsi a qualsiasi cosa diversa da sé stesso (o noi stessi), perché non c’è altro ‘sé’ a cui esso potrebbe riferirsi, poiché noi siamo uno e indivisibile. La domanda che abbiamo bisogno di considerare, quindi, non è se esso è usato per riferirsi a noi stessi o meno, ma se si riferisce a noi stessi in generale o più specificatamente a noi stessi come siamo realmente o a noi stessi come sembriamo essere, vale a dire questo ego o mente, perché ciò che è auto-luminoso è solo noi stessi come siamo realmente, mentre ciò che immagina e percepisce oggetti è solo noi stessi come la mente che ora sembriamo essere, così Sankara qui sta usando il termine ‘ātman’ per riferirsi a noi stessi in generale.

Cioè, ciò che siamo realmente è auto-luminoso, perché noi stessi siamo la consapevolezza fondamentale che illumina (o rende conosciuta) la nostra esistenza, ma quando noi sembriamo essere questo ego o mente, come tale (cioè, come questo ego o mente) immaginiamo e percepiamo oggetti. Poiché noi siamo uno, infinito, indivisibile e immutabile, non possiamo mai realmente cambiare in qualunque modo, così non sorgiamo realmente come o diveniamo questo ego, e come tale sembriamo percepire oggetti, che sono cose che sembrano essere diverse da noi stessi, il soggetto che le percepisce. La nostra esistenza apparente come questo ego percettore di oggetti è solo māyā, che significa che esso realmente non esiste affatto, anche se sembra esistere dalla prospettiva di noi stessi come questo ego, ma non dalla prospettiva di noi stessi come la realtà definitiva che siamo realmente (come Sankara dice esplicitamente nel suo commentario al 2.33).

10. Poiché alcuni filosofi Buddhisti negano l’esistenza di qualsiasi sé, essi sostengono che non c’è supporto per la conoscenza e la memoria

Come tu dici, nel suo commentario al 2.12 Sankara stava argomentando contro la visione dei ‘Buddhisti nichilisti’ che sostengono che non c’è supporto per la conoscenza e la memoria, poiché essi negano l’esistenza di qualsiasi sé (ātman) che conosce o ricorda. Comunque, non sei del tutto nel giusto quando scrivi che ‘la differenza essenziale tra Vedanta e Buddhismo (come indica Sankara) è che i Buddhisti negano l’esistenza di un Sé universale’, prima di tutto perché non tutti i Buddhisti negano l’esistenza di un sé, ma solo certe scuole nichiliste di filosofia Buddhista, e in secondo luogo perché ciò che i nichilisti negano non è solo l’esistenza di un ‘Sé universale’ ma quella di qualsiasi sé.

Se essi negassero solo l’esistenza di un sé infinito (che è ciò che presumo tu intendi con il termine ‘un Sé universale’) ed accettassero l’esistenza di un sé limitato, non dovrebbero sostenere che non c’è supporto per la conoscenza e la memoria, perché il supporto immediato per la conoscenza e la memoria è il nostro sé limitato (l’ego, mente o jīva), poiché questo sé limitato è ciò che conosce e ricorda gli oggetti. Tuttavia, essi assumono la posizione assurda di negare l’esistenza di qualsiasi sé, così devono sostenere che non c’è supporto per la conoscenza e la memoria, poiché non c’è nessuno a conoscere o a ricordare qualsiasi cosa.

Conoscenza e memoria non potrebbero sembrare esistere se noi non sembrassimo essere questo ego o mente, che è ciò che conosce e ricorda cose diverse da sé stesso, così poiché esse sembrano esistere, non possiamo negare che noi sembriamo essere uno che conosce e ricorda. E poiché non potremmo sembrare di conoscere o ricordare qualcosa se non esistessimo realmente, non possiamo ragionevolmente negare o dubitare la nostra esistenza. Quindi la domanda che abbiamo bisogno di considerare non è se noi esistiamo realmente o no, ma se realmente siamo ciò che sembriamo essere o no. Così cosa siamo realmente? Siamo questo ego limitato, quello che conosce e ricorda altre cose, come sembriamo essere, o no?

Sebbene ora sembriamo essere questo ego conoscitore di oggetti, non sembravamo esserlo mentre eravamo nel sonno, sebbene in quel momento esistevamo ed eravamo consapevoli della nostra esistenza. Quindi, poiché nel sonno eravamo consapevoli di noi stessi, anche se in quel momento non eravamo consapevoli di questo ego o di qualsiasi altra cosa, questo ego non può essere ciò che siamo realmente. Quindi, poiché noi esistiamo sia che questo ego appaia o no, noi stessi siamo la sorgente da cui esso sorge (appare) e nella quale sprofonda (scompare), così noi siamo la base o fondamento che sostiene la sua esistenza apparente nella veglia e nel sogno. Quindi proprio come l’ego è il supporto di conoscenza e memoria, ciò che siamo realmente è il supporto dell’ego, così mentre l’ego è il supporto immediato per conoscenza e memoria, ciò che siamo realmente è il loro supporto primario.

I filosofi Buddhisti che negano l’esistenza di qualsiasi sé stanno quindi sostenendo un’asserzione assurda, perché il termine ‘sé’ si riferisce a niente altro che a qualunque cosa di cui esso è il sé, poiché niente può essere diverso da sé stesso. Per esempio, un tavolo e sé stesso non sono due cose differenti, perché in questo contesto il termine ‘sé stesso’ si riferisce solo al tavolo. Ugualmente, noi e noi stessi non siamo due cose differenti, perché ciascuno di questi due pronomi si riferisce alla stessa cosa, vale a dire noi stessi. Quindi non possiamo negare l’esistenza di qualsiasi sé senza con questo negare l’esistenza di qualsiasi altra cosa, perché niente potrebbe esistere senza sé stesso, poiché niente è qualcosa diversa da sé stesso.

Come ho spiegato in Cosa intendeva Buddha con anattā?, anattā è una forma Pali del termine Sanscrito अनात्मन् (anātman), che significa ‘non-sé’ o ‘non sé stesso’, ma il suo uso di questo termine è stato frainteso da molti Buddhisti nel significato che non c’è affatto un sé. Quando egli ha detto, per esempio (come registrato in vari testi come il Dhammapada verso 279), ‘sabbē dhammā anattā’, che significa ‘Tutti i fenomeni sono non-sé’, egli ovviamente non intendeva che qualcosa non è sé stessa (che sarebbe assurdo), ma solo che tutte le cose impermanenti (ogni cosa che appare e scompare o che muta in qualsiasi modo) non sono noi stessi – cioè, non sono ciò che noi siamo realmente. Rispetto a questo ciò che Buddha ha insegnato è uguale a ciò che hanno insegnato Gaudapada, Sankara e Bhagavan.

Poiché nel suo commentario al Māṇḍukya Kārikā 2.12 Sankara ha rifiutato la visione di quei Buddhisti che negano l’esistenza di qualunque sé e che quindi devono sostenere che non c’è supporto per la conoscenza e la memoria di oggetti, in questo contesto non dobbiamo interpretare il suo uso del termine ‘ātman’ nel significato di noi stessi come siamo realmente, perché se lo interpretiamo nel significato di noi stessi in generale, ciò che egli dice sarebbe ancora un rifiuto della loro assurda visione. Ciò che supporta la nostra conoscenza e memoria di oggetti è noi stessi come questo ego o mente, e ciò che supporta la nostra esistenza apparente come questo ego o mente è noi stessi come siamo realmente.

11. Ciò che siamo realmente è pura consapevolezza intransitiva, perché nel sonno siamo consapevoli senza esserlo di qualcosa diversa da noi stessi

Termini il tuo commento chiedendo, ‘Come può la consapevolezza non essere consapevole?’, ma non sono sicuro di ciò che intendi con questo. Presumibilmente stai qui usando il termine ‘consapevolezza’ nel senso di ‘ciò che è consapevole’, e ovviamente in questo senso la consapevolezza non può essere non consapevole, perché se fosse non consapevole non sarebbe consapevolezza. Ciò che è realmente consapevole è sempre consapevole, ma essere consapevole non comporta esserlo di qualcosa diversa da sé stesso, perché nel sonno siamo consapevoli senza essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Poiché nel sonno siamo consapevoli senza essere consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, essere consapevoli di altre cose (oggetti o fenomeni), come lo siamo nella veglia e nel sogno, è solo un’apparenza temporanea, e quindi non è la nostra reale consapevolezza. Essere consapevoli di altre cose è ciò che Bhagavan ha chiamato சுட்டறிவு (suṭṭaṟivu), che significa letteralmente consapevolezza ‘che indica’ o ‘che mostra’ e che quindi implica una consapevolezza transitiva o conoscitrice di oggetti, e poiché ciò che è consapevole di altre cose (oggetti o fenomeni) è solo l’ego o mente, egli spesso ha usato questo termine per riferirsi alla mente. Poiché la consapevolezza di altre cose (consapevolezza transitiva o suṭṭaṟivu) appare nella veglia e nel sogno e scompare nel sonno, non è reale consapevolezza, neppure è ciò che siamo realmente.

Che siamo consapevoli di altre cose o meno, siamo sempre consapevoli, così la consapevolezza che siamo realmente non è consapevolezza transitiva (consapevolezza di altre cose) ma solo pura consapevolezza intransitiva (consapevolezza che è solo consapevole, senza essere consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé stessa), che è ciò che sperimentiamo solo nel sonno, e che è il fondamento della consapevolezza transitiva che sperimentiamo nella veglia e nel sogno. Cioè, poiché non potremmo essere consapevoli di qualsiasi cosa se non fossimo consapevoli, la consapevolezza intransitiva è ciò che supporta l’apparenza della consapevolezza transitiva nella veglia e nel sogno, ma poiché continuiamo ad essere consapevoli anche quando non siamo consapevoli di alcuna altra cosa, come nel sonno, la consapevolezza intransitiva è permanente, e dunque solo essa è reale consapevolezza, come Bhagavan spiega chiaramente nel verso 12 di Uḷḷadu Nāṟpadu (che ho citato e discusso in dettaglio nella sezione 16 del mio articolo precedente).

12. Per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, dobbiamo essere disposti a cessare per sempre di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa

Perché ha importanza se ciò che percepisce gli oggetti è noi stessi come siamo realmente o noi stessi come questo ego? Perché Bhagavan enfatizza in così molti modi (come nei vari versi e brani di Uḷḷadu Nāṟpadu, Nāṉ Yār? e Guru Vācaka Kōvai che ho citato e discusso nel mio articolo precedente, Ciò che è consapevole di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo l’ego e non noi stessi come siamo realmente), che come il nostro sé reale (ātma-svarūpa) non siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, e che è solo come questo ego che siamo consapevoli di altre cose? E perché egli ha detto nel terzo e quarto paragrafo di Nāṉ Yār? che non possiamo vedere la nostra reale natura (svarūpa) se la percezione del mondo non cessa, perché quando siamo consapevoli di qualsiasi mondo non siamo consapevoli di svarūpa, e quando siamo consapevoli di svarūpa non siamo consapevoli di alcun mondo? E perché Sankara nello stesso modo dice nel suo commentario al Māṇḍukya Kārikā 2.33 che gli oggetti sono ‘percepiti solo attraverso l’ignoranza, ma non dal punto di vista della Realtà Definitiva’ e che ‘se la mente non è attiva, nessuno è mai in grado di percepire alcun oggetto’?

Ciò che essi ci hanno insegnato riguardo a questo ha importanza perché siamo di fronte ad una scelta estremamente severa: possiamo continuare a percepire fenomeni e quindi a non essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, o possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente e di conseguenza cessare di percepire fenomeni. Non possiamo avere la nostra torta e mangiarla. Così finché scegliamo di continuare ad essere consapevoli di fenomeni, noi possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, e se scegliamo di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, dobbiamo rinunciare ad essere consapevoli di fenomeni.

Il motivo per cui siamo ancora qui a discutere questo soggetto è che non abbiamo ancora scelto di essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente e di conseguenza di rinunciare ad essere consapevoli di qualsiasi altra cosa. Quindi ognuno di noi ha bisogno di essere consapevole della nostra presente riluttanza a pagare il semplice prezzo che è necessario per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, vale a dire il prezzo di rinunciare ad essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, perché solo se riconosciamo che questa è la ragione per cui non siamo ancora consapevoli di noi stessi come siamo realmente saremo disposti ad iniziare a lavorare per rinunciare al nostro attaccamento ad essere consapevoli di altre cose.

Come possiamo rinunciare a questo attaccamento? Il primo requisito è la buona volontà a cercare di farlo, e per essere disposti a provare dobbiamo riconoscere che per noi è necessario farlo. Una volta che abbiamo riconosciuto questo e siamo quindi disposti a provare, siamo pronti ad iniziare pazientemente e con persistenza a rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi, quello che è consapevole di tutte le altre cose. Quando cerchiamo di farlo, scopriremo che la nostra attenzione è costantemente attirata verso altre cose, ma se perseveriamo nel cercare di rivolgerla a noi stessi ogni volta che è attirata verso qualsiasi altra cosa, indeboliremo gradualmente le nostre viṣaya-vāsanā (le nostre inclinazioni, propensioni, desideri o preferenze ad essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi) e in corrispondenza rafforzeremo la nostra sat-vāsanā (la nostra inclinazione, preferenza o amore solo di essere, che comporta essere consapevoli soltanto di noi stessi).

Questo è il semplice sentiero di auto-investigazione (ātma-vicāra) che Bhagavan ci ha insegnato, ed è il solo mezzo con cui possiamo indebolire ed infine distruggere tutte le nostre viṣaya-vāsanā insieme con la loro radice, l’ego, che è quello a cui piace essere consapevole di altre cose (viṣaya) ed è riluttante a rinunciare per sempre ad essere consapevole di esse.

Poiché l’ego sorge, si regge e prospera solo afferrando la forma (vale a dire viṣaya: oggetti, fenomeni o cose diverse da sé stesso), come Bhagavan spiega nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, è naturalmente incline a continuare a farlo, perché non può sopravvivere se non lo fa. Tuttavia, per mezzo della persistente pratica di auto-attentività esso può coltivare gradualmente l’amore di essere consapevole solo di sé stesso, e di conseguenza indebolire la sua inclinazione ad aggrapparsi ad altre cose, fino a che finalmente il suo amore di essere consapevole soltanto di sé stesso consumerà tutti i suoi altri desideri e attaccamenti.

Sebbene ora sembriamo essere questo ego che afferra gli oggetti, esso non è ciò che siamo realmente, e poiché esso non è niente altro che una consapevolezza errata di noi stessi come un corpo, che è qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, non esiste realmente come tale. Esso sembra esistere ed essere noi stessi solo finché afferra altre cose essendo consapevole di esse, così se cessa di afferrarle cercando di essere consapevole soltanto di sé stesso, la sua esistenza illusoria si dissolverà e sarà consumata per sempre nella chiara luce della pura auto-consapevolezza intransitiva, che è ciò che siamo realmente e che solo esiste realmente.

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