Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 8 marzo 2017

Piuttosto che essere consapevoli di essere consapevoli, dovremmo essere consapevoli solo di ciò che è consapevole, vale a dire noi stessi

Michael James

8 Marzo 2017
Rather than being aware of being aware, we should be aware only of what is aware, namely ourself

Questo articolo è la mia risposta a un recente commento ad un mio articolo dello scorso anno, Come attendere a noi stessi?, in cui un amico ha scritto: ‘Ho cercato di essere consapevole di essere consapevole. Ho trovato ciò leggermente differente dall’essere consapevole di me stesso. Essere consapevole di essere consapevole, è più come divenire più consapevole verso l’intera gamma dell’esperienza. Mentre essere consapevole di me stesso è più come in qualche modo ritirarsi da altre esperienze. Nel secondo è coinvolto uno sforzo maggiore. Qual è la tua esperienza?’
  1. Ciò che abbiamo bisogno di fare è essere consapevoli solo di noi stessi e non di qualsiasi altra cosa
  2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è il cibo che nutre e sostiene il nostro ego
  3. Cesseremo per sempre di sorgere come questo ego solo quando attenderemo soltanto a noi stessi
  4. Perché abbiamo bisogno di fare sforzo per attendere a noi stessi?


1. Ciò che abbiamo bisogno di fare è essere consapevoli solo di noi stessi e non di qualsiasi altra cosa

Ciò che stiamo cercando di conoscere è ciò che noi siamo realmente, così ciò a cui abbiamo bisogno di attendere, che abbiamo bisogno di guardare, osservare, sorvegliare, osservare o di cui essere consapevoli è solo noi stessi e non qualsiasi altra cosa. Anche più del termine popolare ‘consapevolezza che osserva consapevolezza’, ‘essere consapevoli di essere consapevoli’ è un modo ambiguo di descrivere questa semplice pratica di auto-consapevolezza, perché durante i nostri stati di veglia e di sogno siamo consapevoli di molte cose, così se veniamo istruiti ad essere consapevoli di essere consapevoli (o di osservare la consapevolezza), la prima domanda che ci dovremmo porre è: dovremmo essere consapevoli di essere consapevoli di cosa (o dovremmo osservare la consapevolezza di cosa)?

Generalmente le persone associano il termine consapevolezza all’essere consapevoli di fenomeni (cose che appaiono e scompaiono e che sono quindi diverse da noi stessi), che è il motivo per cui il sonno è generalmente considerato uno stato di incoscienza o non consapevolezza. Nel sonno non siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così esso è uno stato nirviśēṣa (senza caratteristiche o indifferenziato), e a causa dell’assenza di ogni consapevolezza di fenomeni (o di qualsiasi caratteristica distintiva), tendiamo a confonderlo come uno stato privo di consapevolezza.

Quindi, a meno che abbiamo già profondamente riflettuto su questo soggetto, se siamo consigliati ad essere consapevoli di essere consapevoli (o di osservare la consapevolezza), tenderemo ad interpretare tale consiglio nel significato che dovremmo essere consapevoli di essere consapevoli di fenomeni (o che dovremmo osservare la nostra consapevolezza di fenomeni). Suppongo che questo è il motivo per cui hai scritto, ‘Essere consapevole di essere consapevole, è più come divenire più consapevole verso l’intera gamma dell’esperienza’.

2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è il cibo che nutre e sostiene il nostro ego

Essere consapevoli di fenomeni non è la nostra vera natura, perché se lo fosse saremmo in modo continuo consapevoli di fenomeni, anche nel sonno. Poiché la consapevolezza di fenomeni appare nella veglia e nel sogno e scompare nel sonno, è solo un’aggiunta temporanea e non ciò che siamo realmente. Dunque cosa siamo realmente? Poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi, sia che siamo consapevoli di altre cose (come nella veglia e nel sogno) o no (come nel sonno), ciò che siamo realmente è solo la consapevolezza fondamentale che non è consapevole di niente altro che noi stessi.

La consapevolezza di fenomeni (o dell’’intera gamma dell’esperienza’, come tu la chiami) è ciò che Bhagavan chiamava சுட்டறிவு (suṭṭaṟivu), che significa letteralmente ‘consapevolezza che indica’ o ‘consapevolezza che mostra’ (cioè, consapevolezza che indica lontano da sé stessa o mostra cose diverse da sé stessa) e che quindi implica consapevolezza transitiva o cognizione oggettiva, ed egli ha spiegato che questa è la natura dell’ego ma non di noi stessi come siamo realmente. Come dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si diffonde, si espande, aumenta, si innalza o prospera] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato] esso prende il volo. Investiga [o conosci di conseguenza].
La consapevolezza di fenomeni o சுட்டறிவு (suṭṭaṟivu) comporta l’‘afferrare la forma’, perché ogni fenomeno è una forma di un tipo o un altro, e poiché l’ego è senza forma, esso può afferrare forme solo essendo consapevole di esse. Quindi l’ego ha origine, si regge, si nutre e prospera solo ‘afferrando la forma’ o essedo consapevole di fenomeni, e quindi sprofonderà solo quando cesserà di essere consapevole di qualsiasi fenomeno.

3. Cesseremo per sempre di sorgere come questo ego solo quando attenderemo soltanto a noi stessi

Tuttavia, sebbene l’ego cessa di essere consapevole di qualsiasi fenomeno ogni volta che entra nel sonno o sprofonda in qualche altro tipo di manōlaya (stato di dissoluzione temporanea della mente), a causa di ciò esso non è annientato, così prima o poi sorge nuovamente afferrando ancora una volta una forma. Quindi perché esso sia sradicato, è richiesto qualcosa di più che cessare solo di essere consapevole di qualsiasi fenomeno. Cos’altro è richiesto, e perché è richiesto?

Poiché l’ego è solo una conoscenza errata di noi stessi (cioè, una consapevolezza confusa di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente), può essere distrutto solo dalla corretta conoscenza di noi stessi (cioè, consapevolezza di noi stessi come siamo realmente), così esso sarà sradicato solo quando cerca di conoscere cosa esso stesso è. Poiché è una forma mischiata e confusa di auto-consapevolezza che sorge, si regge e prospera solo afferrando la forma (cioè, essendo consapevole di cose diverse da sé stesso), non può essere consapevole di sé stesso come è realmente finché è consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé stesso, così ha bisogno di focalizzare la sua attenzione su sé stesso così acutamente da cessare di essere consapevole di qualunque altra cosa.

Questo è ciò che Bhagavan intende quando dice nella terza riga di questo verso, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’. Finché guardiamo altrove (cioè, finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi), sembriamo essere questo ego, ma se ci voltiamo a guardare solo noi stessi, questo ego scomparirà e ciò che rimarrà al suo posto sarà solo la pura auto-consapevolezza che siamo realmente, proprio come se guardiamo un serpente illusorio abbastanza attentamente, esso scomparirà e ciò che rimarrà al suo posto sarà solo la corda che è realmente. Proprio come nessun serpente è mai realmente esistito dove lo vedevamo, questo ego non esiste realmente, ma proprio come il serpente sembrava esistere finché lo abbiamo guardato abbastanza attentamente da vedere ciò che è realmente, questo ego sembra esistere finché lo guardiamo abbastanza attentamente da vedere che è realmente solo pura auto-consapevolezza (consapevolezza che non è consapevole di niente altro che sé stessa).

Quindi essere consapevoli di fenomeni non è reale consapevolezza ma solo un’illusione che sembra esistere solo nella visione auto-ignorante dell’ego non esistente. Quindi finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e perpetuando questo ego, così la consapevolezza di cui abbiamo bisogno di essere consapevoli non è la consapevolezza di qualche altra cosa ma solo la consapevolezza di noi stessi, che è la pura auto-consapevolezza che sperimentiamo ogni giorno nel sonno profondo.

La ragione per cui l’ego non è distrutto dalla pura auto-consapevolezza che sperimentiamo nel sonno è che esso in quel momento non è presente per essere distrutto, perché in quel momento sperimentiamo quella pura auto-consapevolezza solo dopo che l’ego è sprofondato. Cioè, nel sonno rimane solo la pura auto-consapevolezza come risultato dello sprofondamento dell’ego, ma l’ego sarà distrutto solo quando sprofonda come risultato dello sperimentare solo pura auto-consapevolezza.

Quindi nella veglia o nel sogno noi (questo ego) abbiamo bisogno di rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi così acutamente da non essere consapevoli di niente altro che noi stessi, proprio come siamo nel sonno, e in quel momento sperimenteremo lo stato di pura auto-consapevolezza (ātma-jñāna), che è chiamato jāgrat-suṣupti, lo stato di ‘veglia-sonno’ o ‘sonno vigile’, che è il solo stato che esiste realmente, come dice Bhagavan nel verso 32 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham.

4. Perché abbiamo bisogno di fare sforzo per attendere a noi stessi?

Così finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa di cui non siamo consapevoli nel sonno, stiamo nutrendo il nostro ego, quindi se cerchiamo di essere consapevoli di essere consapevoli dell’’intera gamma dell’esperienza’, il nostro ego coopererà felicemente, che è il motivo per cui tu trovi che ciò richiede meno sforzo di quanto richiede l’attendere solo a noi stessi. Quando attendiamo a noi stessi, stiamo minacciando proprio l’esistenza del nostro ego, perché esso sembra esistere solo quando non lo guardiamo direttamente (o piuttosto, noi sembriamo essere questo ego solo quando non guardiamo direttamente noi stessi), così fino a che non siamo pronti ad arrendere completamente noi stessi, noi (questo ego) faremo ogni cosa in nostro potere per astenerci dal guardare direttamente noi stessi.

Questo è il motivo per cui lo sforzo sembra essere necessario per attendere a noi stessi. Lo sforzo richiesto non è realmente uno sforzo di attendere a noi stessi, perché la pura auto-consapevolezza è la nostra reale natura e quindi non richiede sforzo, ma è solo uno sforzo di resistere al nostro forte impulso di attendere ad altre cose. Dalla prospettiva di noi stessi come questo ego, cercare di essere auto-attentivi è in qualche modo come cercare di tenere la nostra testa sott’acqua. Possiamo riuscire almeno per un breve periodo di tempo ad essere parzialmente auto-attentivi, ma più la nostra auto-attentività diviene acuta ed intensa, più forte sarà il nostro impulso a sorgere per afferrare forme (consapevolezza di cose diverse da noi stessi), proprio come più a lungo teniamo la nostra testa sott’acqua più forte sarà il nostro impulso a sorgere per respirare.

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nell’undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
அன்னியத்தை நாடாதிருத்தல் வைராக்கியம் அல்லது நிராசை; தன்னை விடாதிருத்தல் ஞானம். உண்மையி லிரண்டு மொன்றே. முத்துக்குளிப்போர் தம்மிடையிற் கல்லைக் கட்டிக்கொண்டு மூழ்கிக் கடலடியிற் கிடைக்கும் முத்தை எப்படி எடுக்கிறார்களோ, அப்படியே ஒவ்வொருவனும் வைராக்கியத்துடன் தன்னுள் ளாழ்ந்து மூழ்கி ஆத்மமுத்தை யடையலாம்.

aṉṉiyattai nāḍādiruttal vairāggiyam alladu nirāśai; taṉṉai viḍādiruttal ñāṉam. uṇmaiyil iraṇḍum oṉḏṟē. muttu-k-kuḷippōr tam-m-iḍaiyil kallai-k kaṭṭi-k-koṇḍu mūṙki-k kaḍal-aḍiyil kiḍaikkum muttai eppaḍi eḍukkiṟārgaḷō, appaḍiyē o-vv-oruvaṉum vairāggiyattuḍaṉ taṉṉuḷ ḷ-āṙndu mūṙki ātma-muttai y-aḍaiyalām.

Non attendere ad anya [qualsiasi cosa diversa da noi stessi] è vairāgya [imparzialità o distacco] o nirāśā [essere senza desideri]; non abbandonare [o lasciare] sé stessi è jñāna [vera conoscenza o reale consapevolezza]. In verità [questi] due [vairāgya e jñāna] sono solo uno. Proprio come i pescatori di perle, legandosi pietre alla vita e immergendosi, raccolgono perle che si trovano sul fondo dell’oceano, così ognuno, immergendosi [sotto la superficie dell’attività della propria mente] e affondando [in profondità] dentro sé stesso con vairāgya, può ottenere la perla di sé stesso.
Più pratichiamo l’essere auto-attentivi senza lasciare andare noi stessi attendendo a qualsiasi altra cosa, più rafforzeremo la nostra svātma-bhakti (il nostro amore ad essere consapevoli solo di noi stessi) e in corrispondenza la nostra vairāgya (libertà dal desiderio di essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da sé stessi), ed è solo per mezzo di queste bhakti e vairāgya (che sono come i due lati di un singolo foglio di carta) che possiamo affondare profondamente dentro noi stessi e trovare ஆத்மமுத்து (ātma-muttu), la ‘perla di sé’ o la gemma preziosa che siamo realmente.


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