Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 19 aprile 2015

Abbiamo bisogno di ignorare tutti i pensieri? E se è così, come possiamo farlo?

Michael James

18 Aprile 2015
Do we need to try to ignore all thoughts, and if so how?

Un amico mi ha scritto recentemente dicendo:
Quando dici di sperimentare 'io' in totale isolamento, io cerco di ignorare i pensieri, e altre percezioni. Ma 'l'atto di ignorare' sembra comportare un qualche genere di forza. D'altronde la sua durata sarà così breve, i pensieri scalpitano alla porta molto presto. Forse il rifiuto piuttosto forte dei pensieri può essere il modo sbagliato di farlo? Ignorare i pensieri sembra un modo morbido e tenero, ma io lo sento essere un po' duro. Ciò nonostante non vedo altro modo.
Questo articolo è adattato dalla risposta che gli ho scritto.
  1. Cercare di dare attenzione soltanto a noi stessi è il solo modo effettivo per ignorare tutti i pensieri
  2. Dovremmo cercare di essere auto-attentivi proprio ora, non per un prolungato periodo di tempo
  3. Possiamo essere auto-attentivi solo in questo preciso istante
  4. Cercare deliberatamente di ignorare i pensieri sarebbe un tentativo controproducente
  5. Il pensiero può essere distrutto solo dall’auto-attentività
  6. Il solo modo in cui possiamo investigare noi stessi è cercare di essere auto-attentivi

1. Cercare di dare attenzione soltanto a noi stessi è il solo modo effettivo per ignorare tutti i pensieri

In primo luogo è importante ricordare in questo contesto che ciò che Bhagavan intende con ‘pensiero’ non è solo il chiacchierio che continua costantemente nella nostra mente ma anche ogni altro fenomeno mentale, come percezioni, sensazioni, desideri, credi, emozioni, speranze, memorie, amori, odi e così via.

In secondo luogo, egli non ci dice di ignorare direttamente i pensieri, perché se cerchiamo di ignorare qualcosa, proprio il nostro tentativo ci farà dare attenzione ad essa. Come Sadhu Om era solito dire, cercare di ignorare i pensieri è come cercare di prendere una medicina senza pensare a una scimmia. Se un dottore ci ha detto che non dovremmo pensare a una scimmia quando prendiamo una certa medicina, ogni volta che cerchiamo di prendere quella medicina ricorderemo la sua istruzione di non pensare a una scimmia, così non saremo mai in grado di prendere la medicina. Quindi se il nostro dottore fosse saggio, non direbbe nulla riguardo a non pensare a una scimmia, ma invece ci direbbe di pensare solo a un elefante ogni volta che prendiamo la medicina, perché focalizzandoci sul pensiero di un elefante, in effetti terremo ogni pensiero di una scimmia fuori dalla nostra mente.

Nello stesso modo, Bhagavan non ci ha detto di ignorare direttamente i pensieri, ma solo di dare attenzione soltanto a noi stessi, perché se diamo attenzione solo a noi stessi ignoreremo tutti gli altri pensieri, e nessun pensiero può sorgere se non gli diamo attenzione. Questo è il motivo per cui egli dice nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?):
[...] பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும். எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன? ஜாக்கிரதையாய் ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால் எனக்கென்று தோன்றும். நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்; எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும். இப்படிப் பழகப் பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது. [...]

[...] piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṯku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum. ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa? jāggiratai-y-āy ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum. nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṯku-t tirumbi-viḍum; eṙunda v-eṇṇamum aḍaṅgi-viḍum. ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṯku-t taṉ piṟappiḍattil taṅgi niṯgum śakti y-adhikarikkiṉḏṟadu. [...]

[...] Se altri pensieri sorgono, senza cercare di concluderli è necessario investigare a chi si sono presentati questi pensieri. Anche se molti pensieri sorgono, cosa [importa]? Appena appare ogni pensiero, se si investiga in modo vigilante a chi si è presentato, sarà chiaro che [la risposta sarà] a me. Se [in questo modo] si investiga chi sono io, la mente ritornerà al suo luogo di nascita; [e poiché ci si asterrà dal dare attenzione] al pensiero che era sorto, anch’esso sprofonderà. Quando [si] pratica e pratica in questo modo, aumenterà il potere della mente di rimanere stabilita fermamente nel proprio luogo di nascita. […]
Quando egli chiede, எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன?’ (ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa?), che significa ‘Anche se molti pensieri sorgono, cosa [importa]?’, ciò che intende è che non dovremmo infastidirci dei pensieri, ma invece dovremmo concentrare tutto il nostro interesse, lo sforzo e l’attenzione solo nell’investigare noi stessi, l’uno a cui tutti i pensieri si presentano. Focalizzando tutta la nostra attenzione soltanto su noi stessi, stiamo automaticamente ignorando i pensieri senza nemmeno cercare di farlo.

2. Dovremmo cercare di essere auto-attentivi proprio ora, non per un prolungato periodo di tempo

Per ciò che scrivi riguardo la durata, quello che è richiesto non è un tempo prolungato di auto-attentività, ma tentativi di essere auto-attentivi ripetuti con insistenza. La natura del nostro ego è pensare — cioè, dare attenzione a cose diverse da noi stessi — e senza pensare esso non può durare. Appena sorgiamo dal sonno come questo ego (nel nostro stato attuale, che sembra essere il nostro stato di veglia ma che è realmente solo un sogno, o in ogni altro sogno) iniziamo a pensare (cioè, a sperimentare cose diverse da noi stessi), e continuiamo a farlo finché torniamo a sprofondare nel sonno. Poiché non possiamo permanere come questo ego senza pensare, se cerchiamo di dare attenzione solo a noi stessi, inizieremo a sprofondare e a dissolverci in noi stessi (cioè, in ciò che siamo realmente), ma poiché come questo ego siamo attaccati allo sperimentare noi stessi come tali, siamo riluttanti a sprofondare e a dissolverci in noi stessi, così per sopravvivere come questo ego cerchiamo disperatamente di pensare a qualsiasi cosa diversa da noi stessi soltanto.

In altre parole, cercando di essere auto-attentivi, stiamo, per così dire, nuotando contro la corrente del nostro ego o mente. Cioè, stiamo cercando di andare nella direzione opposta al flusso naturale del nostro ego, che è esteriorizzante — e che dirige la nostra attenzione lontano da noi stessi e verso altre cose. Quindi, finché sperimentiamo noi stessi come questo ego — cioè, finché, come questo ego, non ci siamo dissolti completamente in noi stessi, essendo stati consumati completamente dalla perfetta chiarezza della pura auto-consapevolezza (come la foschia del mattino si dissolve nella splendente luce del sole nascente) — resisteremo ai nostri tentativi di essere auto-attentivi, e il solo modo in cui possiamo resistere è pensare (cioè, fabbricare e sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi).

Quindi, ogni volta che cerchiamo di essere auto-attentivi, allo stesso tempo cercheremo di pensare a qualcos’altro. I pensieri sono come una ringhiera di sicurezza fissata lungo il bordo di un dirupo, e cercare di essere auto-attentivi è come cercare di tirare noi stessi giù nel dirupo, nell’abisso senza fondo. Poiché non siamo ancora pronti a cadere in quell’abisso di pura auto-consapevolezza, ogni volta che cerchiamo di tirare noi stessi nel dirupo, cerchiamo anche di afferrare la ringhiera per salvarci. Se lasciamo andare la ringhiera e non la afferriamo di nuovo velocemente, cadremo nel dirupo e precipiteremo nell’immediato annientamento, così fino ad ora non abbiamo ancora avuto il coraggio sufficiente per lasciare andare completamente la ringhiera.

Quindi la nostra pratica di auto-investigazione è una lotta tra l’attrazione ad essere tranquillamente auto-attentivi (cioè, a sperimentare soltanto noi stessi) e l’attrazione opposta a continuare a sperimentare altre cose, che possiamo fare solo finché ci sperimentiamo come questo ego. Poiché non siamo ancora pronti a rinunciare per sempre a sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi, continuiamo a cercare di aggrapparci ad altre cose anche mentre stiamo cercando di essere esclusivamente auto-attentivi, e quindi fino ad ora, la nostra auto-consapevolezza è stata sempre mischiata, in misura variabile, con pensieri — cioè, con la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Tuttavia, se perseveriamo nei nostri tentativi di essere auto-attentivi, nutriremo gradualmente il nostro amore per essere consapevoli soltanto di noi stessi, e contemporaneamente indeboliremo il nostro attaccamento ad essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, così prima o poi riusciremo ad essere esclusivamente auto-attentivi — cioè, ad essere consapevoli di nient’altro che noi stessi — e così sprofonderemo e ci dissolveremo nella nostra sorgente, che è ciò che sempre siamo realmente.

Quindi, ritornando alla tua domanda riguardo la durata dell’auto-attentività (o ignorare i pensieri, come lo descrivi), più riusciamo ad essere esclusivamente auto-attentivi, minore sarà la durata del tempo in cui siamo in grado di aggrapparci a una tale intensità di auto-consapevolezza. Cioè, più vicini giungiamo ad essere consapevoli soltanto di noi stessi, più tenderemo a resistere ad essere così intensamente auto-consapevoli, e più disperatamente cercheremo di pensare a qualsiasi altra cosa, e quindi la durata del nostro tentativo di essere auto-attentivi tenderà ad essere minore. Quindi siamo generalmente in grado di mantenere un’auto-attentività parziale più a lungo di quando possiamo mantenere un’auto-attentività più esclusiva.

Mantenere un’auto-consapevolezza parziale è come guardare nel dirupo mentre ci si aggrappa fermamente alla ringhiera, mentre cercare di essere auto-attentivi più esclusivamente è come cercare di guardare nel dirupo senza tenersi alla ringhiera. Finché non siamo pronti a cadere e a perdere noi stessi per sempre nell’abisso della pura auto-consapevolezza, saremo troppo spaventati per lasciare andare completamente la ringhiera, così anche se possiamo allentare la nostra presa per alcuni momenti, molto velocemente la stringeremo nuovamente.

Se lasciamo completamente la presa anche solo per un momento, cadremo immediatamente nel dirupo, e quella sarà la fine della nostra storia. Quindi ciò di cui abbiamo bisogno non è un periodo di tempo prolungato di auto-attentività esclusiva — essere consapevoli soltanto di noi stessi – ma solo di un singolo momento di essa, così piuttosto che cercare per lungo tempo di essere auto-attentivi (cosa che, se ci riusciamo, tenderà ad essere solo un’auto-consapevolezza parziale), dovremmo solo cercare di essere esclusivamente auto-attentivi qui e ora, in questo preciso istante. Non appena pensiamo di estendere questo momento, non siamo più così esclusivamente auto-attentivi, così non dovremmo pensare in termini di durata, ma dovremmo cercare solo di essere in ogni momento più auto-attentivi possibile.

3. Possiamo essere auto-attentivi solo in questo preciso istante

Essere auto-attentivi è uno stato che possiamo praticare solo nel preciso istante presente, perché nello stato di pura auto-consapevolezza non c’è tempo. Il tempo è un’illusione di cui diveniamo consapevoli solo quando siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi. Quindi non dovremmo interessarci alla durata dell’auto-attentività, ma solo all’essere auto-attentivi in questo preciso istante. Se ci prendiamo cura del presente (il momento in cui sono io ora), possiamo lasciare che il futuro prenda cura di se stesso. Non dovremmo interessarci di ciò che saremo o che sarà, ma solo di ciò che siamo ora realmente, in questo preciso istante.

Quindi per riuscire in questo sentiero, non dovremmo interessarci né dei pensieri né del tempo (che è esso stesso solo un altro pensiero), ma solo dello sperimentarci come siamo realmente in questo preciso istante. Se questo è il solo nostro interesse, nessun pensiero può toccarci, perché i pensieri sembrano esistere solo quando li sperimentiamo, così non possono apparire quando stiamo sperimentando soltanto noi stessi. Quindi l’auto-attentività è il solo mezzo effettivo con cui possiamo ignorare tutti i pensieri.

4. Cercare deliberatamente di ignorare i pensieri sarebbe un tentativo controproducente

Cercare deliberatamente di ignorare i pensieri, sarebbe fare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi, così i nostri sforzi in questo senso sarebbero necessariamente controproducenti. Tuttavia, se invece di interessarci dei pensieri o del bisogno di ignorarli, focalizzassimo semplicemente tutto il nostro interesse, la sollecitudine, lo sforzo e l’attenzione nell’essere consapevoli soltanto di noi stessi, ignoreremmo automaticamente ogni tipo di pensiero senza nemmeno cercare di farlo. Quindi non infastidiamoci dei pensieri, ma concentriamoci solo a cercare di essere attentivamente auto-consapevoli.

5. Il pensiero può essere distrutto solo dall’auto-attentività

Come Bhagavan ha detto nel brano di Nāṉ Yār? citato sopra: ‘Anche se molti pensieri sorgono, cosa [importa]?’ e ‘Se altri pensieri sorgono, senza cercare di concluderli è necessario investigare a chi si sono presentati questi pensieri’. Il solo modo effettivo di prevenire il sorgere di ogni pensiero è quello di essere auto-attentivi, e quindi nel decimo e undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? egli ha detto:
தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். [...]

toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. [...]

Anche se viṣaya-vāsanā, che vengono da tempo immemorabile, sorgono [come pensieri] in numero illimitato come onde dell’oceano, esse saranno distrutte quando svarūpa-dhyāna [auto-attentività] aumenta ed aumenta. […]

மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். [...]

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. [...]

Finché viṣaya-vāsanā esistono nella mente, fino ad allora l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando sorgono i pensieri, in quel momento e lì è necessario annientarli per mezzo di vicāraṇā [investigazione o auto-attentività vigilante] proprio nel luogo dal quale sorgono. […]
L’ utpatti-sthāna (‘luogo del sorgere’, luogo di nascita, origine o sorgente), dal quale tutti i pensieri appaiono è solo noi stessi, così possiamo annientarli tutti proprio nella loro sorgente solo mantenendo la nostra attenzione fissata fermamente e vigilantemente soltanto su noi stessi.

Il termine viṣaya-vāsanā, che egli usa in entrambi questi brani, significa predisposizioni, propensioni, inclinazioni o desideri di sperimentare viṣaya, che sono qualsiasi cosa diversa da ciò che siamo realmente. Sono solo tali predisposizioni che sorgono o si manifestano in noi nella forma dei nostri pensieri, e poiché tutti i viṣaya sono solo pensieri, solo le nostre viṣaya-vāsanā danno origine all’esistenza apparente di ogni cosa diversa da noi stessi.

Tuttavia, queste vāsanā o predisposizioni non esistono indipendentemente dal nostro ego, perché ciò che è predisposto o incline a sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo noi stessi come questo ego. Il nostro ego è quindi la radice e il fondamento di tutte le nostre vāsanā e pensieri, così possiamo distruggerli solo distruggendo l’illusione di essere questo ego, e possiamo distruggere questa illusione solo sperimentando noi stessi come siamo realmente.

Quindi, se dobbiamo riuscire a impedire ed eventualmente ad annullare il sorgere di ogni pensiero, il lakṣya (obiettivo o fine) della nostra attenzione non dovrebbe essere alcun pensiero ma solo noi stessi. Se diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, stiamo aprendo la porta attraverso la quale sorgono i pensieri, mentre se cerchiamo di dare attenzione solo a noi stessi, stiamo iniziando a chiudere quella porta, e quando infine riusciamo nel nostro sforzo di essere consapevoli soltanto di noi stessi, saremo riusciti a chiuderla fermamente e per sempre.

6. Il solo modo in cui possiamo investigare noi stessi è cercare di essere auto-attentivi

In un’email successiva il mio amico ha scritto di aver notato che io paragono l’auto-investigazione (ātma-vicāra) con l’essere vigilantemente auto-attentivi, e ha chiesto se l’auto-investigazione non è effettivamente nient’altro che auto-attentività, a cui ho risposto:

Supponi di vedere qualcosa che si trova a terra e che sembra un serpente. Per investigare se ciò sia realmente un serpente, tutto quello che avresti bisogno di fare è osservarlo molto attentamente. Nello stesso modo per investigare se siamo realmente l’ego che ora sembriamo essere, tutto quello che abbiamo bisogno di fare è semplicemente osservare o guardare noi stessi molto attentamente — cioè, essere auto-attentivi.

Bhagavan usò vari verbi Tamil con il significato di ‘investigare’, ma tre verbi che ha usato più frequentemente erano நாடு, விசாரி e ஆராய், che tutti e tre (come la maggior parte delle altre parole che usò nello stesso senso) significano investigare, esaminare, scrutare, osservare, ispezionare o esplorare. Per investigare, esaminare o osservare qualsiasi cosa esterna a noi stessi abbiamo bisogno di usare la nostra vista, l’udito o altri sensi, e in alcuni casi altri strumenti come un microscopio, un telescopio o un computer che analizzino qualunque dato raccolto, ma per investigare noi stessi non c’è strumento che possiamo usare tranne che il nostro basilare potere di attenzione, che è la nostra capacità di essere selettivamente consapevoli di una cosa piuttosto che di un’altra.

Quindi l’auto-attentività (cioè, essere attentivamente auto-consapevoli) è il solo mezzo con cui possiamo investigare noi stessi e quindi imparare a sperimentarci come siamo realmente, perché possiamo sperimentarci come siamo realmente solo sperimentando noi stessi in completo isolamento da ogni altra cosa.

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