Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 22 novembre 2015

C’è più di un modo in cui possiamo investigare e conoscere noi stessi?

Michael James

17 Novembre 2015
Is there more than one way in which we can investigate and know ourself?

Un amico recentemente mi ha inviato un’email nella quale ha chiesto:
Ti ho menzionato che nella mia visione sembrano esserci tre differenti approcci all’auto-investigazione, i) auto-indagine, che comporta il chiedersi chi sono io e andare alla radice del pensiero io, ii) meditare su io sono, escludere il sorgere di qualsiasi pensiero, e concentrarsi su io sono, e iii) cercare di notare l’intervallo tra due pensieri, espandere l’intervallo, ed essere senza alcun pensiero, summa iru. Tu hai risposto che questi non sono tre approcci differenti ma costituiscono un solo approccio. Potresti per favore approfondire il tuo commento?
Questo articolo è adattato dalla risposta che gli ho scritto.
  1. Nāṉ Yār? paragrafo 16: ātma-vicāra è solo la pratica di mantenere la propria attenzione su se stessi
  2. Il nostro fine dovrebbe essere distruggere l’illusione che siamo questo ego
  3. Upadēśa Undiyār versi 24 e 25: sperimentare noi stessi senza aggiunte è sperimentare ciò che siamo realmente
  4. Per distruggere il nostro ego dobbiamo cercare di essere attentivamente auto-consapevoli
  5. Essere attentivamente auto-consapevoli è ciò che è chiamato vṛtti-jñāna
  6. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: il nostro ego sorge e resiste attendendo ad altre cose, così esso morirà solo attendendo a se stesso
  7. Possiamo investigare e conoscere ciò che siamo realmente solo cercando di essere auto-attentivi
  8. Auto-indagine significa investigare chi sono io, non solamente chiederselo
  9. Poiché noi solo siamo la sorgente del nostro ego, investigare la nostra sorgente significa investigare ciò che siamo realmente
  10. L’investigazione comporta la meditare, ma non sempre la meditazione comporta l’investigazione
  11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: il nostro ego e i suoi pensieri sono mutualmente dipendenti
  12. Essere attentivamente auto-consapevoli comporta solo essere senza alcun pensiero
  13. Tutto ciò su cui abbiamo bisogno di focalizzarci è noi stessi, perché in questo modo stiamo facendo ogni cosa per cui Bhagavan ci ha istruito

1. Nāṉ Yār? paragrafo 16: ātma-vicāra è solo la pratica di mantenere la propria attenzione su se stessi

Quando dici ‘sembrano esserci tre differenti approcci all’auto-investigazione’, cosa intendi esattamente con ‘approcci’? Se intendi tre modi differenti di praticare l’auto-investigazione, questo sarebbe inesatto, perché c’è solo una pratica che può essere chiamata ātma-vicāra o ‘auto-investigazione’ nel senso in cui Bhagavan ha usato questo termine. Come egli ha detto nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
[...] சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்; [...]

[...] sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṟku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar; [...]

[…] Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a [la pratica di] mantenere la mente sempre in [o su] ātmā [se stessi]; […]
‘மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பது’ (maṉattai ātmāvil vaittiruppadu) significa letteralmente ‘mettere [porre, tenere o fissare] la mente in [o su] se stessi’, così poiché in molti linguaggi, inclusi sia il Tamil che l’Inglese, mettere o mantenere la propria mente su qualcosa (per cui in Tamil e in qualche altro linguaggio è usato il locativo invece che la preposizione Inglese ‘su’) sia un modo idiomatico di dire attendere a quella cosa, ciò che Bhagavan intende chiaramente in questa frase è che il termine ātma-vicāra o ‘auto-investigazione’ significa solo la semplice pratica di mantenere la nostra attenzione fissata fermamente su noi stessi. Quindi il solo modo per praticare l’auto-investigazione è cercare di essere il più possibile auto-attentivi.

Tuttavia, se ciò che intendi con ‘tre differenti approcci all’auto-investigazione’ è tre differenti angoli dai quali si può arrivare a questa unica pratica, nel senso di tre differenti modi in cui si può concettualizzarla o descriverla, allora sì, ci sono una varietà di ‘approcci’ differenti ad essa o modi in cui essa può essere concettualizzata o descritta. Tuttavia, tutti i differenti angoli dai quali si può approcciarla e modi in cui può essere descritta sono approcci o descrizioni di una sola pratica, vale a dire la pratica di semplice auto-attentività o ‘mantenere la [propria] mente sempre su se stessi’.

2. Il nostro fine dovrebbe essere distruggere l’illusione che siamo questo ego

Quindi, benché Bhagavan ha reso chiaro che c’è solo un modo corretto di praticare auto-investigazione (ātma-vicāra), egli ha descritto questa unica pratica in vari modi differenti perché c’è più di un modo in cui essa può essere concettualizzata. Tuttavia, poiché questa pratica non è oggettiva ma puramente soggettiva, nel senso che comporta l’essere consapevoli di nient’altro che solo noi stessi, è uno stato oltre il pensiero e dunque oltre il potere delle parole di descriverlo, così ha detto spesso che nessuna parola può descriverla adeguatamente. Quindi qualunque descrizione egli ha dato di essa era solo un indizio o un'indicazione, così tocca a ciascuno di noi comprendere ciò a cui le sue parole stavano puntando o indicando.

Per comprendere correttamente le sue descrizioni di questa pratica, abbiamo bisogno di considerarle nel contesto del suo intero nucleo di insegnamenti. Come spesso ha spiegato, siamo sempre auto-consapevoli, ma nella veglia e nel sogno non siamo consapevoli solo di noi stessi ma anche di altre cose, e diveniamo consapevoli di altre cose solo quando sorgiamo come un ego. Sorgere come un ego significa divenire consapevoli di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, in modo particolare un corpo, così egli spesso ha detto che ciò che è chiamato ‘ego’ non è nient’altro che la consapevolezza o esperienza ‘io sono questo corpo’.

Ogni volta che, nella veglia o nel sonno, siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, siamo consapevoli di noi stessi come un corpo, così poiché la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un pensiero o una costruzione mentale, la radice dei pensieri è solo questo pensiero primario ‘io sono questo corpo’, a cui Bhagavan si è riferito spesso come il pensiero chiamato ‘io’, che è il nostro ego. Poiché questo ego è una conoscenza errata o un’esperienza illusoria di noi stessi, lo possiamo distruggere solo sperimentando noi stessi come siamo realmente. Quindi il solo fine dell’auto-investigazione (ātma-vicāra) è sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi distruggere il nostro ego, l’esperienza illusoria ‘io sono questo corpo’.

Ma come possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente? Siamo sempre consapevoli di noi stessi, così sperimentare noi stessi come siamo realmente non comporta ovviamente il divenire consapevoli di qualcosa di cui non siamo già consapevoli. Come Bhagavan era solito dire spesso, l’auto-conoscenza (ātma-jñāna) deve essere ciò che già sperimentiamo, perché se fosse qualcosa che non sperimentiamo ora ma sperimenteremo solo a un certo punto nel futuro, non sarebbe permanente, poiché qualunque cosa appare o viene, prima o poi scompare o va. Quindi, se ātma-jñāna è la realtà eterna, deve esistere e risplendere (cioè, deve essere da noi sperimentata) anche ora.

Ciò che è chiamata ātma-jñāna è quindi semplicemente la nostra auto-consapevolezza sempre presente, così ciò che è descritto qualche volta come il conseguimento di ātma-jñāna non è realmente un conseguimento di qualcosa di nuovo ma è solo la rimozione della nostra apparente conoscenza errata o esperienza illusoria di noi stessi come questo ego. Come rimuovere o distruggere dunque questa errata conoscenza di noi stessi?

3. Upadēśa Undiyār versi 24 e 25: sperimentare noi stessi senza aggiunte è sperimentare ciò che siamo realmente

Questa conoscenza errata di noi stessi, che è il nostro ego o pensiero chiamato ‘io’, non è una non-consapevolezza di noi stessi, perché non possiamo mai cessare di essere consapevoli di noi stessi, poiché l’auto-consapevolezza (ātma-jñāna) è la nostra vera natura – ciò che siamo realmente. E’ solo una consapevolezza di noi stessi come qualcosa che non è realmente noi stessi, vale a dire un corpo, così è una mescolanza confusa della nostra reale auto-consapevolezza e una consapevolezza illusoria di un corpo e altre cose. Quindi per rimuovere o distruggere il nostro ego o conoscenza errata di noi stessi abbiamo bisogno di separare la nostra auto-consapevolezza essenziale dalla nostra consapevolezza non-essenziale di un corpo e di altre cose, per sperimentare soltanto la nostra pura auto-consapevolezza, in completo isolamento anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa.

Poiché siamo sempre auto-consapevoli, l’auto-consapevolezza come tale non è sufficiente a distruggere il nostro ego. Davvero il nostro ego non potrebbe sorgere o sembrare esistere se non fossimo auto-consapevoli perché è una mescolanza della nostra auto-consapevolezza reale e la consapevolezza di aggiunte estranee come un corpo. Questa consapevolezza di aggiunte estranee è ciò a cui Bhagavan si riferisce come உபாதி உணர்வு (upādhi-uṇarvu) nel verso 24 di Upadēśa Undiyār:
இருக்கு மியற்கையா லீசசீ வர்க ளொருபொரு ளேயாவ ருந்தீபற வுபாதி யுணர்வேவே றுந்தீபற.

irukku miyaṟkaiyā līśajī varga ḷoruporu ḷēyāva rundīpaṟa vupādhi yuṇarvēvē ṟundīpaṟa.

பதச்சேதம்: இருக்கும் இயற்கையால் ஈச சீவர்கள் ஒரு பொருளே ஆவர். உபாதி உணர்வே வேறு.

Padacchēdam (separazione delle parole): irukkum iyaṟkaiyāl īśa jīvargaḷ oru poruḷē āvar. upādhi-uṇarvē vēṟu.

Traduzione: Per [la loro] natura esistente, Dio e le anime sono solo una sostanza. Solo [la loro] consapevolezza di aggiunte è differente.
In questo contesto īśa o ‘Dio’ significa brahman, che è ciò che siamo realmente, mentre jīva o ‘anima’ significa il nostro ego, che è ciò che sembriamo essere. Poiché solo brahman esiste realmente e poiché è indivisibile, nella sua visione non c’è consapevolezza di aggiunte, mentre nella visione di noi stessi come questo ego c’è consapevolezza di aggiunte, così nel verso successivo Bhagavan dice:
தன்னை யுபாதிவிட் டோர்வது தானீசன் றன்னை யுணர்வதா முந்தீபற தானா யொளிர்வதா லுந்தீபற.

taṉṉai yupādhiviṭ ṭōrvadu tāṉīśaṉ ḏṟaṉṉai yuṇarvadā mundīpaṟa tāṉā yoḷirvadā lundīpaṟa.

பதச்சேதம்: தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம், தானாய் ஒளிர்வதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām, tāṉ-āy oḷirvadāl.

அன்வயம்: தானாய் ஒளிர்வதால், தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது தான் ஈசன் தன்னை உணர்வது ஆம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ-āy oḷirvadāl, taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu tāṉ īśaṉ taṉṉai uṇarvadu ām.

Traduzione: Conoscere [o sperimentare] se stessi lasciando da parte le aggiunte è conoscere Dio, perché [egli] risplende come se stessi.
‘தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது’ (taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu) significa letteralmente ‘Conoscere se stessi lasciando da parte le aggiunte’, che implica essere consapevoli di noi stessi senza essere consapevoli di qualsiasi altra cosa. Tuttavia, per distruggere il nostro ego, solamente essere consapevoli di noi stessi non è sufficiente, perché benché nel sonno siamo consapevoli soltanto di noi stessi il nostro ego non è distrutto a causa di ciò, così ciò che Bhagavan intende qui con ‘conoscere se stessi lasciando da parte le aggiunte’ è più che solo essere consapevoli soltanto di noi stessi come lo siamo nel sonno.

4. Per distruggere il nostro ego dobbiamo cercare di essere attentivamente auto-consapevoli

Come ho menzionato prima, l’auto-consapevolezza come tale non è sufficiente a distruggere il nostro ego, perché siamo sempre consapevoli di noi stessi. Per illustrare questo, Bhagavan qualche volta ha dato l’analogia della luce del sole, della quale la sola presenza non è sufficiente per bruciare un mucchio di cotone, ma che brucerà il cotone se è focalizzata da una lente d’ingrandimento in un punto intenso e distinto su di esso. Proprio come la luce del sole necessita di essere focalizzata intensamente per bruciare il cotone, la nostra auto-consapevolezza sempre presente necessita di essere focalizzata intensamente per consumare il nostro ego.

Come possiamo focalizzare la nostra auto-consapevolezza sempre presente? Solo per mezzo del nostro potere di attenzione o attentività. Cioè, benché siamo sempre auto-consapevoli, generalmente non siamo attentivamente auto-consapevoli, perché siamo più interessati ad essere consapevoli di altre cose di quanto lo siamo ad essere consapevoli soltanto di noi stessi, così la nostra attenzione è abitualmente diretta lontano da noi stessi e verso altre cose. Quindi per distruggere il nostro ego dobbiamo cercare di essere attentivamente auto-consapevoli. Cioè, dobbiamo cercare di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi.

L’attenzione o attentività è un mezzo molto potente, perché è anche il solo mezzo con cui possiamo conoscere o sperimentare qualsiasi cosa (e dunque è il mezzo con cui creiamo l’apparenza illusoria di questo intero universo). L’attenzione è essenzialmente la nostra capacità come questo ego di selezionare da una gamma di opzioni ciò di cui vogliamo essere consapevoli in ogni momento, così è un riflesso o forma limitata della nostra cit-śakti (il nostro potere di consapevolezza o coscienza), che è il potere supremo del nostro sé reale.

Quando rimaniamo come siamo realmente, siamo consapevoli solo di noi stessi (come siamo nel sonno), perché non c’è realmente niente altro che noi stessi di cui potremmo essere consapevoli, ma appena sorgiamo come questo ego, diveniamo consapevoli di molte cose diverse da noi stessi, così in quel momento siamo liberi (almeno in un grado limitato) di scegliere di quali fra quelle molte cose vogliamo essere principalmente consapevoli in ogni momento. Questa capacità di scegliere o selezionare ciò su cui focalizziamo la nostra consapevolezza è chiamata attenzione.

L’attenzione è quindi una funzione del nostro ego o mente e non del nostro sé reale (ātma-svarūpa), perché nella visione del nostro sé reale c’è solo una cosa di cui potremmo essere consapevoli, cioè noi stessi. Questo è il motivo per cui non possiamo essere attentivamente auto-consapevoli quando siamo addormentati, perché nel sonno il nostro ego non esiste, e senza il nostro ego non c’è attenzione, perché in quel momento niente esiste tranne la nostra pura auto-consapevolezza.

Sebbene nella veglia e nel sogno siamo auto-consapevoli, come lo siamo nel sonno, e sebbene abbiamo l’opzione e la capacità di essere attentivamente auto-consapevoli, perché il nostro ego e il suo potere di attenzione in quei due stati sono in funzione, generalmente non siamo attentivamente auto-consapevoli, perché siamo più interessati ad essere consapevoli di altre cose di quanto lo siamo ad essere consapevoli soltanto di noi stessi, come siamo nel sonno. Quando Bhagavan ci consiglia di cercare di essere addormentati mentre siamo svegli o stiamo sognando, ciò che intende è che dovremmo cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi, e il solo modo in cui nella veglia o nel sogno possiamo essere consapevoli soltanto di noi stessi è cercare di essere attentivamente auto-consapevoli. Cioè, invece di attendere a qualsiasi altra cosa e quindi di esserne consapevoli, dovremmo cercare di essere consapevoli e di attendere a noi stessi soltanto, perche solo essendo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi (cioè, solo focalizzando la nostra intera consapevolezza soltanto su noi stessi) possiamo distruggere l’illusione di essere questo ego, la cui natura è di essere sempre consapevole di qualcosa diversa da noi stessi.

5. Essere attentivamente auto-consapevoli è ciò che è chiamato vṛtti-jñāna

Come ho spiegato in Il nostro ego può essere distrutto solo da vṛtti-jñāna (auto-attentività) (la tredicesima sezione del mio articolo precedente, Il sonno è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza), in alcuni testi antichi l’auto-consapevolezza è riferita come jñāna (nel senso di ātma-jñāna o svarūpa-jñāna) mentre lo stato in cui è focalizzata intensamente è chiamato vṛtti-jñāna, e dunque in tali testi è detto che solo jñāna non è sufficiente per distruggere il nostro ego, perché può essere distrutto solo da vṛtti-jñāna. In questo contesto vṛtti-jñāna significa ātma-vṛtti o auto-attentività, che è lo stato in cui la nostra auto-consapevolezza è intensamente focalizzata per mezzo dell’attentività vigilante.

Il termine vṛtti non può essere tradotto precisamente in Inglese, perché non c’è un singolo termine in Inglese che trasmetta la stessa gamma di significati, ma nella maggioranza dei casi, in un contesto spirituale, significa ogni attività o funzione mentale e può quindi essere abitualmente tradotto come ‘pensiero’. In questo contesto particolare, comunque, esso significa attentività, perché l’attentività è una funzione del nostro ego o mente ed è solo dirigendo la sua attenzione lontano da se stesso che il nostro ego forma o produce i pensieri.

L’auto-attentività è descritta qualche volta usando termini come svarūpa-dhyāna o ātma-cintanā, che sono entrambi termini che Bhagavan ha usato in Nāṉ Yār? (rispettivamente nel decimo e tredicesimo paragrafo) e che significa meditare su se stessi o pensare a se stessi, perché possiamo meditare su noi stessi o pensare a noi stessi solo dirigendo la nostra attenzione verso noi stessi. Quindi proprio come svarūpa-dhyāna o ātma-cintanā significano entrambi auto-attentività, anche ātma-vṛtti significa auto-attentività, e vṛtti-jñāna significa auto-consapevolezza attentiva (perché in questo contesto jñāna significa auto-consapevolezza). Quindi quando è detto che il nostro ego può essere distrutto solo da vṛtti-jñāna o ātma-vṛtti, ciò che si vuole dire è che esso può essere distrutto solo dal nostro essere attentivamente auto-consapevoli.

6. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 25: il nostro ego sorge e resiste attendendo ad altre cose, così esso morirà solo attendendo a se stesso

Uno dei principi più fondamentali e importanti degli insegnamenti di Bhagavan è che attendendo a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, mentre attendendo solo a noi stessi lo dissolveremo, così l’insegnamento negli antichi testi che il nostro ego può essere distrutto solo da vṛtti-jñāna è in perfetto accordo con questo principio insegnato da Bhagavan, che ha espresso in modo particolarmente chiaro e magnifico nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட் டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku muruvaṯṟa pēyahandai yōr.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine; afferrando la forma resiste; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si diffonde, si espande, aumenta, si innalza o fiorisce] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato] prenderà il volo. Investiga [o conosci di conseguenza].
Poiché in questo verso Bhagavan descrive il nostro ego come un உருவற்ற பேய் (uru-v-aṯṟa pēy) o ‘fantasma senza forma’, con il termine ‘உரு பற்றி’ (uru paṯṟi) o ‘afferrando la forma’ intende il nostro ego che afferra qualsiasi cosa diversa da se stesso, e poiché il nostro ego può ‘afferrare’ qualsiasi cosa solo attendendo ad essa e perciò essendone consapevole, ‘afferrare la forma’ significa attendere a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi, poiché questo ego può sorgere e resistere solo attendendo ad altre cose, se esso cerca di attendere solo a se stesso sprofonderà e scomparirà, che è ciò che egli intende qui dicendo ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], prenderà il volo’. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto spesso che possiamo distruggere il nostro ego solo per mezzo dell’auto-investigazione (ātma-vicāra), termine con il quale intende dire osservare noi stessi o essere auto-attentivi.

7. Possiamo investigare e conoscere ciò che siamo realmente solo cercando di essere auto-attentivi

Lo scopo di ogni investigazione è ottenere conoscenza riguardo qualunque cosa è investigata, e ogni investigazione comporta l’osservazione, perché se non osserviamo qualcosa non possiamo ottenere diretta conoscenza esperienziale di esso. Lo strumento fondamentale che dobbiamo usare per osservare o investigare qualsiasi cosa è la nostra attenzione. Per osservare un fenomeno fisico, abbiamo anche bisogno di usare altri strumenti, come uno o più dei nostri cinque sensi, e in alcuni casi possiamo anche aver bisogno di ulteriori strumenti come un microscopio o un telescopio, ma per quanti altri strumenti possiamo aver bisogno di usare per osservare qualcosa, non possiamo usare questi strumenti senza usare il nostro strumento più fondamentale, vale a dire il nostro potere di attenzione.

Nel caso di cercare di conoscere noi stessi, per osservare o investigare noi stessi non possiamo usare alcun strumento tranne che la nostra attenzione, così l’auto-investigazione deve comportare l’essere auto-attentivi. Se non cerchiamo di essere attentivamente auto-consapevoli, non saremo in grado di conoscere o sperimentare noi stessi come siamo realmente, che è il fine e l’intento dell’auto-investigazione.

Quindi se consideriamo attentamente il nucleo degli insegnamenti di Bhagavan e i principi fondamentali attorno ai quali essi sono formati, come abbiamo fatto sopra, ci dovrebbe essere chiaro (1) che tutti i nostri problemi e difetti sono causati solo dal nostro sperimentare noi stessi come questo ego, che non è ciò che siamo realmente ma solamente ciò che sembriamo essere; (2) che possiamo distruggere questo ego illusorio solo sperimentando noi stessi come siamo realmente; e (3) che possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi distruggere questo ego solo cercando di essere auto-attentivi o attentivamente auto-consapevoli. Se abbiamo capito chiaramente questi principi fondamentali insegnati di Bhagavan, ci dovrebbe essere ovvio che ciò che egli intende con il termine ātma-vicāra o ‘auto-investigazione’ è solo cercare di essere vigilantemente e fermamente auto-attentivi – cioè, attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Ovviamente non possiamo investigare noi stessi senza attendere a noi stessi, e se attendiamo a qualsiasi altra cosa non stiamo investigando noi stessi ma solo qualunque cosa a cui stiamo attendendo. Quindi l’auto-investigazione deve comportare attendere solo a noi stessi e a niente altro. Se abbiamo compreso tutto questo chiaramente e coerentemente, ci sarà ovvio che non ci può essere più di un modo in cui possiamo investigare noi stessi, e che quell’unico modo è semplicemente cercare di essere il più possibile auto-attentivi.

Poiché la nostra consapevolezza di noi stessi è ora mischiata e confusa con la consapevolezza di aggiunte estranee e altre cose, quando iniziamo a praticare l’auto-investigazione la maggior parte di noi non può riuscire immediatamente a separare e sperimentare da sola la nostra pura auto-consapevolezza, in completo isolamento (kaivalya) anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa, ma questo è ciò che dovremmo ambire di sperimentare ogni volta che investighiamo noi stessi. Quindi benché la nostra auto-attentività non è ancora perfetta, essendo ancora mischiata in una certa misura con la consapevolezza di altre cose, la pratica di auto-investigazione non comporta altro che cercare di essere il più possibile perfettamente auto-attentivi.

Quindi, benché Bhagavan ha descritto la pratica di auto-investigazione in vari modi differenti, ciascuna delle sue descrizioni è solo un altro modo per descrivere quest’unica pratica – la pratica di cercare di essere perfettamente auto-attentivi. Dunque dovremmo considerare ciascuna delle sue descrizioni come un altro indizio che ci ha dato per aiutarci ad aggrapparci all’essere attentivamente auto-consapevoli o a ricuperare la nostro auto-attentività ogni volta che scopriamo che la nostra attenzione è stata distolta lontano verso qualche altra cosa.

Quindi, se correttamente compreso, ciò che hai descritto nella tua email come ‘tre differenti approcci all’auto-investigazione’ non sono realmente pratiche differenti ma solo differenti descrizioni della stessa unica pratica di cercare di essere attentivamente auto-consapevoli. Per chiarire questo consideriamo ciascuna delle tre descrizioni che hai dato.

8. Auto-indagine significa investigare chi sono io, non solamente chiederselo

La prima descrizione che hai dato era ‘auto-indagine, che comporta il chiedersi chi sono io e andare alla radice del pensiero io’. Il primo punto da chiarire qui è che la pratica che Bhagavan consigliava non era chiedersi chi sono io ma era solo investigare chi sono io, e c’è ovviamente una grande differenza tra investigare chi siamo e chiedere a noi stessi chi siamo. Non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente solamente ponendo a noi stessi la domanda ‘chi sono io?’ ma solo investigando noi stessi sperimentalmente.

Possiamo comprendere questo con l’aiuto di una semplice analogia. Supponiamo che Bhagavan ci abbia consigliato di investigare cosa è scritto in un particolare libro. Ovviamente non possiamo scoprire cos’è scritto in esso solo chiedendo a noi stessi cosa è scritto in questo libro?’. Non importa quante volte possiamo porre a noi stessi questa domanda, non possiamo conoscere cosa c’è scritto in esso se non lo apriamo e vediamo cosa c’è scritto. Nello stesso modo, non importa quante volte possiamo porre a noi stessi la domanda ‘chi sono io?’, non possiamo conoscere ciò che siamo se non osserviamo attentamente noi stessi per vedere o sperimentare ciò che siamo realmente. Osservare attentamente noi stessi è ciò che è chiamata auto-investigazione o investigare chi sono io.

Per usare un’altra analogia, supponiamo che notiate qualche oggetto non identificato e vogliate sapere cos’è. Solamente chiedere a voi stessi ‘cos’è quello?’ non vi aiuterà a sapere cos’è. Solo se vi avvicinate ad esso e lo osservate molto attentamente sarete in grado di scoprire cos’è. Per esempio, se l’oggetto non identificato è qualcosa che assomiglia a un serpente ma è realmente solo una corda, sarete in grado di vedere cos’è realmente solo osservandolo o ispezionandolo attentamente. Nello stesso modo, ciò che ora sembriamo essere è un ego limitato, ma saremo in grado di vedere cosa siamo realmente solo osservando o ispezionando attentamente noi stessi, e tale osservazione o ispezione è ciò che è chiamato investigare chi sono io.

9. Poiché noi solo siamo la sorgente del nostro ego, investigare la nostra sorgente significa investigare ciò che siamo realmente

La seconda parte della tua prima descrizione è ‘andare alla radice del pensiero io’, ma questo di nuovo non è affatto come Bhagavan ha descritto questa pratica. Il ‘pensiero io’ o ‘pensiero chiamato io’ è il nostro ego, che è la radice di tutti i nostri altri pensieri, così ciò che abbiamo bisogno di conoscere non è qualche altra radice di questa radice, ma solo la sorgente da cui questa radice è spuntata. La sorgente da cui siamo spuntati o sorti come questo ego è ovviamente solo noi stessi, perché le altre cose hanno origine solo quando sorgiamo come questo ego (come Bhagavan ci ha insegnato, per esempio, nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu e nel verso 7 di Śrī Aruṇācala Aṣṭakam), così non c’è niente altro che noi stessi da cui il nostro ego può essere sorto.

Quindi quando Bhagavan ci ha consigliato di investigare, perseguire o cercare la sorgente o luogo da cui il nostro ego o pensiero chiamato ‘io’ è sorto, ciò che intendeva è che dovremmo cercare di sperimentare o di essere consapevoli di ciò che siamo realmente. Dunque il solo mezzo con cui possiamo trovare o raggiungere la sorgente del nostro ego è osservare attentamente noi stessi per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi, come ho spiegato in uno dei miei primi articoli, Non c’è differenza tra investigare ‘chi sono io’ e investigare ‘da quale fonte io sono’, investigare da dove questo ego è sorto è solo un modo alternativo di descrivere la pratica di auto-investigazione o investigare ciò che siamo realmente.

10. L’investigazione comporta la meditazione, ma non sempre la meditazione comporta l’investigazione

La seconda descrizione che hai dato di questa pratica di auto-investigazione era ‘meditare su io sono, escludendo il sorgere di ogni pensiero, e concentrarsi su io sono’. Poiché ‘io’ è un pronome che si riferisce solo a noi stessi, e poiché ‘sono’ è un verbo che esprime l’esistenza di noi stessi, ‘meditare su io sono’ ovviamente significa meditare su noi stessi, che comporta dirigere la nostra attenzione solo verso noi stessi e non verso qualsiasi altra cosa. Quindi ‘meditare su io sono’ è ovviamente solo un altro modo per descrivere la semplice pratica di auto-attentività o essere attentivamente auto-consapevoli.

Poiché nessun pensiero può sorgere se non attendiamo ad esso, i pensieri sorgono solo quando permettiamo alla nostra attenzione di allontanarsi da noi stessi, così il solo modo effettivo per escludere il sorgere di ogni pensiero è dirigere tutta la nostra attenzione soltanto verso noi stessi. Quindi ‘meditare su io sono’ o ‘concentrarsi su io sono’ comporta necessariamente ‘escludere il sorgere di ogni pensiero’, così questa tua seconda descrizione (o ‘approccio’, come lo chiami) è solo una descrizione alternativa per la pratica di essere esclusivamente auto-attentivi.

Benché Bhagavan qualche volta ha descritto questa pratica di auto-investigazione come ‘meditare su se stessi’ o ‘meditare su io (o io sono)’, usando termini come svarūpa-dhyāna o ātma-cintanā (come ha fatto, per esempio, nel decimo e tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?), egli l’ha descritta più spesso come un’investigazione che come una meditazione, e ha avuto una buona ragione per farlo, perché non possiamo investigare qualcosa senza meditare su di essa (nel senso di osservarla o attendere ad essa), ma possiamo meditare su qualcosa senza investigarla, così ogni investigazione comporta meditazione, ma ogni meditazione non comporta investigazione.

Per esempio, se meditiamo su un nome o forma di Dio, non lo stiamo investigando, perché l’investigazione è meditazione fatta con un intento o un'intenzione particolare, vale a dire l’intento di scoprire, trovare o conoscere di più riguardo qualsiasi cosa su cui stiamo meditando. Se meditiamo su un nome o una forma di Dio, il nostro intento o intenzione può essere probabilmente esprimere il nostro amore per lui, o può essere la speranza che con questo otterremo da lui qualche beneficio, e se meditiamo sul nostro respiro o su qualche punto particolare del nostro corpo, la nostra intenzione può essere sviluppare il nostro potere di concentrazione, di controllare i nostri pensieri o qualunque cosa, così tale meditazione non è un’investigazione o tentativo di ottenere conoscenza riguardo l’oggetto su cui stiamo meditando.

Quando investighiamo noi stessi, d’altra parte, stiamo meditando su noi stessi per conoscere ciò che siamo realmente. Quindi la ragione per cui Bhagavan ha enfatizzato che questa pratica è un’investigazione è che non dovremmo considerarla solamente come un esercizio in concentrazione o un tentativo di scansare tutti gli altri pensieri, perché il nostro solo intento o fine dovrebbe essere sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Quindi benché l’auto-investigazione comporta il meditare su noi stessi, è davvero dissimile dalla maggior parte delle altre pratiche che sono chiamate meditazione, perché quando rivolgiamo la nostra attenzione verso noi stessi stiamo tentando di sperimentare direttamente ciò che siamo realmente, Questo è il motivo per cui Bhagavan ha descritto questa pratica di meditare su ‘io’ o ‘io sono’ come investigare chi sono io.

11. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: il nostro ego e i suoi pensieri sono mutualmente dipendenti

La descrizione finale che hai dato di questa pratica era ‘cercare di notare l’intervallo tra due pensieri, espandere l’intervallo, ed essere senza alcun pensiero, summa iru’. Cos’è esattamente ‘l’intervallo tra due pensieri’, e cosa esiste in quell’intervallo? Il sonno è un buon esempio di questo intervallo, così ciò che sperimentiamo in ogni intervallo tra due pensieri è esattamente ciò che sperimentiamo nel sonno, vale a dire soltanto noi stessi, e niente di più né niente di meno che quello. Quindi ‘cercare di notare l’intervallo tra due pensieri’ significa cercare di sperimentare noi stessi nella veglia o nel sogno come sperimentiamo noi stessi nel sonno.

Pensare è un processo di formare pensieri e simultaneamente sperimentarli, ma benché parliamo di formare e sperimentare pensieri come se fossero due parti separate di questo processo, essi sono realmente una cosa sola, perché formiamo pensieri solo sperimentando o essendo consapevoli di essi. Ciò che forma e sperimenta i pensieri è solo noi stessi come questo ego, così nessun pensiero può sorgere senza questo ego.

Tuttavia, come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, questo ego può sorgere e resistere solo ‘afferrando la forma’, che significa formare e sperimentare pensieri, così proprio come nessun pensiero può sorgere o resistere senza questo ego, questo ego non può sorgere o resistere senza ogni altro pensiero. Questo ego e i suoi pensieri sono quindi mutualmente dipendenti, come da lui indicato nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
அகந்தையுண் டாயி னனைத்துமுண் டாகு மகந்தையின் றேலின் றனைத்து — மகந்தையே யாவுமா மாதலால் யாதிதென்று நாடலே யோவுதல் யாவுமென வோர்.

ahandaiyuṇ ḍāyi ṉaṉaittumuṇ ḍāhu mahandaiyiṉ ḏṟēliṉ ḏṟaṉaittu — mahandaiyē yāvumā mādalāl yādideṉḏṟu nādalē yōvudal yāvumeṉa vōr.

பதச்சேதம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் என ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum eṉa ōr.

அன்வயம்: அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், அனைத்தும் இன்று. யாவும் அகந்தையே ஆம். ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே யாவும் ஓவுதல் என ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, aṉaittum iṉḏṟu. yāvum ahandai-y-ē ām. ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē yāvum ōvudal eṉa ōr.

Traduzione: Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Per cui] l’ego è ogni cosa. Quindi, sappi che solo investigare cos’è questo [ego] è rinunciare a ogni cosa.
Questo ego è solo un pensiero, perché può sorgere e resistere solo afferrando la forma di un corpo come se stesso, e ogni corpo che esso afferra come se stesso è solo un pensiero che esso forma e sperimenta all’interno di se stesso. Quindi, per enfatizzare che questo ego è solo un pensiero, Bhagavan spesso si è riferito ad esso come il pensiero chiamato ‘io’ o ‘io sono questo corpo’, e poiché esso è il pensiero che forma e sperimenta tutti gli altri pensieri, egli ha detto che è la radice di tutti i pensieri.

Quindi ‘l’intervallo tra due pensieri’ non è solo un intervallo tra due altri pensieri consecutivi, ma anche un intervallo tra due insorgenze consecutive di questo ego. In questo intervallo nessun pensiero – né il nostro ego né qualsiasi altro pensiero – può esistere, così ciò che esiste ed è sperimentato in ogni intervallo è solo noi stessi, la cui natura è pura auto-consapevolezza. Quindi ‘cercare di notare l’intervallo tra due pensieri’, significa cercare di essere consapevoli solo di noi stessi, ed ‘espandere l’intervallo’ significa cercare di aggrapparci alla nostra pura auto-consapevolezza così fermamente che non diveniamo consapevoli di qualsiasi altra cosa. Dunque questa descrizione finale che dai è ancora un’altra descrizione esattamente della stessa pratica, vale a dire cercare di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

12. Essere attentivamente auto-consapevoli comporta solo essere senza alcun pensiero

Nella parte finale di questa ultima descrizione dici ‘essere senza alcun pensiero, summa iru’, che equivale alla stessa cosa, perché se siamo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, nessun altro pensiero può sorgere (poiché i pensieri possono sorgere solo se attendiamo ad essi e siamo quindi consapevoli di essi), e perché essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi non è un’azione o un ‘fare’ di qualche genere ma solo il nostro stato naturale di solo essere (summā iruppadu). Attendere a qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un’azione o karma, perché comporta un movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi verso quell’altra cosa, mentre essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi non è un’azione, perché non comporta alcun movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi. Quindi ciò che è chiamato ‘solo essere’ (summā iruppadu) è solo lo stato in cui la nostra mente o ego rimane fusa in noi stessi, come Bhagavan dice nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār?:
சும்மா விருப்பதாவது மனத்தை ஆன்மசொரூபத்தில் லயிக்கச் செய்வதே.

summā-v-iruppadāvadu maṉattai āṉma-sorūpattil layikka-c ceyvadē.

Ciò che è ‘solo essere’ (summā-v-iruppadu) è solo far dissolvere la mente in ātma-svarūpa [il nostro sé reale].
Tuttavia, quando questo stato di ‘solo essere’ o essere attentivamente auto-consapevoli è descritto come ‘essere senza alcun pensiero’, non dovremmo confondere ‘essere senza alcun pensiero’ come il nostro fine, perché anche nel sonno siamo senza alcun pensiero ma il nostro ego non è per questo motivo distrutto. Essere consapevoli soltanto di noi stessi è essere senza alcun pensiero, come siamo nel sonno, ma (come ho spiegato in diversi dei miei articoli recenti, come Perché è necessario essere attentivamente auto-consapevoli, piuttosto che solo non consapevoli di ogni altra cosa?, e Il sonno è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza) per distruggere il nostro ego non dobbiamo solo essere consapevoli soltanto di noi stessi ma dobbiamo essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi. Come ho spiegato sopra (nella sezione 5), essere attentivamente auto-consapevoli è ciò che è chiamato vṛtti-jñāna, e come Bhagavan ha spiegato spesso, è il solo mezzo con cui il nostro ego può essere distrutto.

Quindi benché Bhagavan ha spiegato la pratica di auto-investigazione in una varietà di modi differenti, ciò che stava effettivamente descrivendo in ciascuno di questi modi era solo questa unica pratica di cercare di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, perché non c’è altro mezzo con cui la nostra illusione di essere questo ego può essere dissolta o annientata.

13. Tutto ciò su cui abbiamo bisogno di focalizzarci è noi stessi, perché in questo modo stiamo facendo ogni cosa per cui Bhagavan ci ha istruito

Dopo che ho scritto la risposta citata sopra al mio amico, egli ha replicato dicendo, ‘Ci sono così tante spiegazioni o interpretazioni dell’insegnamento di Bhagavan che uno si disorienta’, ed ha spiegato che a causa delle spiegazioni confondenti che ha letto in vari libri e articoli, non è mai sicuro ciò su cui dovrebbe focalizzarsi quando si siede per praticare auto-indagine: se investigare chi sono io, meditare su ‘io sono’, scartare i pensieri nel momento che sorgono, cercare di essere immobile, senza alcun pensiero, o focalizzarsi su chi è il pensatore dei pensieri nel momento che sorgono. Ho quindi risposto:

Tutto ciò su cui hai bisogno di focalizzarti è te stesso, che sei ciò che è consapevole di ogni altra cosa, e che è la sola cosa di cui sei consapevole in ciascuno dei tuoi tre stati (veglia, sogno e sonno). Se ti focalizzi o divieni consapevole di qualsiasi cosa di cui nel sonno non sei consapevole, questa è qualcosa diversa da te stesso, così dovresti allora cercare di rivolgere la tua attenzione verso te stesso, che sei consapevole di essa.

Questo è ciò che Bhagavan intendeva chiaramente nella frase del sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? che ho citato all’inizio della mia risposta precedente:
சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்.

sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṟku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar.

Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a [la pratica di] mantenere la mente [la propria attenzione] sempre su se stessi.
Questa è un’istruzione così chiara e semplice, e ci dice tutto ciò di cui abbiamo bisogno di conoscere per praticare ātma-vicāra: solo cercare di fissare la vostra mente o attenzione su voi stessi.

Ogni altra cosa che Bhagavan ha detto riguardo questa pratica è solo un indizio per aiutarci a mantenere la nostra attenzione su noi stessi. Per esempio, se cerchi di focalizzare tutta la tua attenzione solo su te stesso, questo è il modo corretto di fare ogni altra cosa che hai menzionato, vale a dire investigare chi sono io, meditare su ‘io sono’, scartare i pensieri nel momento che sorgono, essere immobili, senza alcun pensiero, e focalizzarsi su chi è il pensatore.

Altri pensieri possono sorgere solo se permettiamo alla nostra attenzione di sfuggire da noi stessi, finché la nostra attenzione è focalizzata solo su noi stessi, nessun altro pensiero può sorgere. Quindi se diveniamo consapevoli di qualche altro pensiero (cioè, qualsiasi cosa diversa da noi stessi), questo significa che la nostra attenzione è sfuggita da noi stessi, così dovremmo riportarla a noi stessi, terminando quindi (o ‘scartando’) qualsiasi altro pensiero è sorto.

Tuttavia, poiché la nostra mente è attiva solo quando attendiamo ad altri pensieri, possiamo realmente essere immobili (o solo essere, summā iru) solo se attendiamo soltanto a noi stessi. Dunque qualunque cosa Bhagavan ci ha istruito di fare può essere fatta correttamente solo attendendo soltanto a noi stessi, così ti prego di non essere tratto in inganno da chiunque ci consiglia di fare qualcosa diversa dal solo cercare di essere auto-attentivi.

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