Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

venerdì 25 dicembre 2015

Il pensiero di sé stessi distruggerà tutti gli altri pensieri

Michael James

10 Dicembre 2015
Thought of oneself will destroy all other thoughts

In un commento ad uno dei miei articoli precedenti, C’è più di un modo in cui possiamo investigare e conoscere noi stessi?, un amico di nome Venkat ha scritto:
Dato che l’ego/mente è non-esistente, e solo un pensiero che passa attraverso lo schermo della consapevolezza, cos’è che sceglie di essere attentivamente auto-consapevole? È proprio la pura consapevolezza, e il corpo/mente/mondo sono solo pensieri/percezioni che attraversano quello schermo. Così il pensiero di essere attentivamente auto-consapevole è solo un altro pensiero su quello schermo. Sono combattuto su cos’è che dirige l’attenzione. Mi scuso se non sono molto chiaro.
Quando ho letto questo commento, l’ho annotato come uno a cui rispondere, ma esso ha portato velocemente a una serie di più di trenta commenti in cui altri amici hanno risposto e discusso ciò che egli aveva scritto, così in questo articolo (che in definitiva è divenuto estremamente lungo) risponderò sia a questo commento sia ad alcune delle idee espresse in altri commenti in quella serie, e anche a molti altri commenti a quell’articolo che non erano direttamente connessi a ciò che Venkat aveva scritto ma che nondimeno sono attinenti a questo soggetto cruciale dell’auto-investigazione (ātma-vicāra).
  1. Solo il nostro ego può ed ha bisogno di essere attentivamente auto-consapevole
  2. Upadēśa Undiyār verso 17: Evitare l’auto-disattenzione (pramāda) è il solo mezzo per distruggere il nostro ego
  3. Nāṉ Yār? paragrafo 6: cosa intende Bhagavan con ‘il pensiero chi sono io’, che distruggerà tutti i pensieri, incluso se stesso?
  4. Nāṉ Yār? paragrafo 13: il pensiero di sé stessi distruggerà tutti gli altri pensieri, inclusa la loro radice, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’ o ‘ego’
  5. Perché l’auto-attentività o ‘pensiero di se stessi’ è necessario, e perché la sola auto-consapevolezza è insufficiente?
  6. Come possiamo scegliere di attendere ad una cosa anziché ad un’altra?
  7. Il nostro ego e la sua creazione di sogno non esistono nella chiara visione del nostro sé reale
  8. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 7: il mondo sembra esistere solo perché è percepito dal nostro ego
  9. Il solo credere in ajāta o in qualsiasi altra cosa non è un mezzo adeguato per liberare noi stessi da questa illusione dell’ego
  10. Cos’è veramente reale?
  11. Perché è così importante distinguere ciò che è veramente reale da ciò che solamente sembra essere reale?
  12. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: perché Bhagavan dice che se il nostro ego non esiste, niente altro esiste?
  13. Un pensiero è qualsiasi cosa fabbricata dal nostro ego o mente, così ogni cosa diversa da noi stessi è un pensiero
  14. Nascita e morte sono entrambi solo pensieri, come lo è ogni genere di corpo che possiamo sperimentare come noi stessi
  15. L’auto-investigazione (ātma-vicāra) è un ‘metodo’ o solo un mezzo semplice e diretto?
  16. Poiché Bhagavan dice che ātma-vicāra è ‘il sentiero diretto per tutti’, dovremmo essere saggi a seguirlo dall’inizio
  17. C’è una qualche differenza tra attendere a noi stessi e attendere al nostro senso di ‘io’?
  18. L’analisi è di qualche utilità o attinenza all’auto-investigazione?
  19. Gli insegnamenti di Bhagavan e l’ātma-vicāra sono il più affilato di tutti i rasoi, paragonabili al rasoio di Ockhman nel loro scopo ed effetto
  20. ātma-vicāra è una pratica esclusiva o inclusiva?
  21. Spiegare l’efficacia unica di ātma-vicāra implica che stiamo ‘disapprovando’ tutti gli altri generi di pratica spirituale?
  22. Nāṉ Yār? paragrafo 9: perché ēkāgratā (concentrazione su un unico punto) è considerata così necessaria?
  23. Quale capacità è richiesta per praticare ātma-vicāra?
  24. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 40: annientare il nostro ego per mezzo di ātma-vicāra è realizzare il fine ultimo del sanātana dharma
1. Solo il nostro ego può ed ha bisogno di essere attentivamente auto-consapevole

Benché il nostro ego sia realmente non-esistente, esso sembra esistere, ed è solo perché sembra esistere che ogni altra cosa sembra esistere, e quello sforzo di essere auto-attentivi è quindi necessario. Paradossalmente, tuttavia, questo ego e ogni altra cosa che esso sperimenta sembrano esistere solo nella sua visione, così è solo una cosa non-esistente, che sembra esistere solo nella sua visione. Questo è il motivo per cui è chiamata māyā (quello che non è), che è giustamente detta essere anirvacanīya (inspiegabile).

Quando è detto che questo ego sembra esistere, cos’è che sembra essere questo ego? È solo noi stessi. Quindi, poiché sembriamo essere questo ego, sembriamo soffrire tutte le sue limitazioni, così per essere liberi da tutta la sofferenza e le limitazioni, abbiamo bisogno di sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi distruggere l’illusione di essere questo ego.

Bhagavan ci ha insegnato che il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi distruggere questo ego è cercare di essere attentivamente auto-consapevoli. L’attenzione è la nostra capacità di scegliere ciò di cui essere consapevoli, o ciò su cui focalizzare la nostra consapevolezza, così poiché solo questo ego è consapevole di più di una cosa su cui potrebbe scegliere di focalizzarsi, l’attenzione è una funzione solo di questo ego e non di noi stessi come siamo realmente, perché come siamo realmente non siamo e non possiamo essere consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi. Quindi ciò che deve scegliere di essere attentivamente auto-consapevole, e ciò che deve quindi dirigere la sua attenzione soltanto verso sé stesso, lontano da tutte le altre cose, è solo noi stessi come questo ego.

Come siamo realmente, siamo sempre consapevoli solo di noi stessi e di niente altro, perché solo noi siamo ciò che esiste realmente, e nella visione di ciò che esiste realmente niente altro sembra esistere. Quindi come il nostro vero sé (ātma-svarūpa) non possiamo mai essere consapevoli di nient’altro che noi stessi, così il nostro vero sé non può essere e non necessita di essere attentivamente auto-consapevole. Solo ciò che è ora negligentemente o disattentamente auto-consapevole necessita di essere attentivamente auto-consapevole, e questo è solo il nostro ego.

2. Upadēśa Undiyār verso 17: Evitare l’auto-disattenzione (pramāda) è il solo mezzo per distruggere il nostro ego

Ogni volta che noi come questo ego, siamo consapevoli o attendiamo a qualcosa diversa da noi stessi, stiamo mancando di attendere a noi stessi, e questa negligenza è ciò che è chiamata pramāda, che è detta essere la sola morte reale (poiché a causa della nostra pramāda ora sembriamo essere morti o inconsapevoli della realtà immortale che siamo realmente), e che è la causa radice di tutti i nostri problemi. Poiché il nostro ego ha origine apparente e resiste solo essendo consapevole di altre cose, la sua vera natura è pramāda, così pramāda e il nostro ego non sono due cose separate ma solo due modi di descrivere la stessa singola illusione. Quindi, poiché pramāda è la radice di tutti i nostri altri problemi, inclusa la morte, la soluzione ad essi può solo essere apramāda o non-negligenza, e poiché negligenza significa non-attentività, apramāda significa attentività.

Naturalmente come questo ego stiamo sempre attendendo a qualcosa, perché attenzione significa avere qualcosa in primo piano della propria consapevolezza, per così dire, e qualcosa è sempre in primo piano, almeno in misura più o meno ampia, mentre altre cose sono, relativamente parlando, in secondo piano. Quindi il nostro ego è sempre attento, ma è abitualmente attento solo a qualcosa diversa da sé stesso – cioè, a qualcosa diversa dalla propria auto-consapevolezza essenziale. Tuttavia, benché pramāda significa letteralmente ‘negligenza’ o ‘disattenzione’, nel contesto della filosofia advaita è usata come un termine tecnico che significa specificatamente auto-negligenza o non essere auto-attentivi, così apramāda significa auto-attentività.

Questi due termini, pramāda e apramāda, sono usati più notoriamente in un verso di un antico testo chiamato Sanatsujātīyam, che è parte del Mahābhārata, in cui è detto, ‘[…] pramādaṃ vai mṛtyum […] sadāpramādam amṛtatvaṃ […]’ (Sanatsujātīyam 1.4; Mahābhārata 5.42.4), che significa ‘[…] pramāda è davvero la morte […] perpetua apramāda è immortalità […]’, che è un’affermazione che è anche citata e a cui ci si riferisce in molti altri testi, come nel verso 321 del Vivēkachūḍāmaṇi. Nascita e morte sembrano esistere solo nella visione del nostro ego, che ha origine e resiste solo a causa della sua pramāda (auto-negligenza), così il solo mezzo con cui possiamo recuperare il nostro stato naturale di immortalità è cercare con persistenza di aggrapparci fermamente a apramāda (essere attentivamente auto-consapevoli), come Bhagavan intende nel verso 17 di Upadēśa Undiyār:
மனத்தி னுருவை மறவா துசாவ
மனமென வொன்றிலை யுந்தீபற
மார்க்கநே ரார்க்குமி துந்தீபற.

maṉatti ṉuruvai maṟavā dusāva
maṉameṉa voṉḏṟilai yundīpaṟa
mārgganē rārkkumi dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: மனத்தின் உருவை மறவாது உசாவ, மனம் என ஒன்று இலை. மார்க்கம் நேர் ஆர்க்கும் இது.

Padacchēdam (separazione delle parole): maṉattiṉ uruvai maṟavādu usāva, maṉam eṉa oṉḏṟu ilai. mārggam nēr ārkkum idu.

அன்வயம்: மறவாது மனத்தின் உருவை உசாவ, மனம் என ஒன்று இலை. இது ஆர்க்கும் நேர் மார்க்கம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): maṟavādu maṉattiṉ uruvai usāva, maṉam eṉa oṉḏṟu ilai. idu ārkkum nēr mārggam.

Traduzione: Quando uno investiga [esamina o scrutina] la forma della mente senza dimenticare [o trascurare], non esisterà qualcosa chiamata ‘mente’. Questo è il sentiero diretto [giusto o appropriato] per tutti.
Essendo un participio negativo del verbo மற (maṟa), che significa dimenticare, trascurare, ignorare o non far caso, மறவாது (maṟavādu) significa ‘non dimenticare’ o ‘non trascurare’, così in questo contesto implica non soccombere all’auto-negligenza (pramāda). Dunque in questo verso Bhagavan intende che riusciremo nella nostra auto-investigazione e quindi scopriremo che questo ego o mente non esiste affatto solo se ci aggrappiamo fermamente e con vigilanza ad apramāda, lo stato di essere attentivamente auto-consapevoli.

Tuttavia, poiché investigare noi stessi, che siamo la natura reale o ‘forma’ di questo ego o mente, non comporta altro che essere attentivamente auto-consapevoli, includendo questo participio மறவாது (maṟavādu) insieme con il verbo condizionale உசாவ (usāva), che significa ‘quando uno investiga [esamina o scrutina]’, Bhagavan sta usando in effetti una tautologia per enfatizzare con più grande intensità il nostro bisogno imperativo di essere attentivamente auto-consapevoli. Quindi ciò che intende nella prima riga di questo verso dicendo ‘மனத்தின் உருவை மறவாது உசாவ’ (maṉattiṉ uruvai maṟavādu usāva), che significa ‘quando uno investiga [esamina o scrutina] la forma della mente senza dimenticare [o trascurare]’, è che abbiamo bisogno di essere così attentivamente o vigilantemente auto-consapevoli da non soccombere più anche alla minima pramāda o auto-negligenza.

La nostra scelta e lo sforzo di essere attentivamente auto-consapevoli sono reali come questo ego, che fa questa scelta e questo sforzo. Quindi quando facendo questo sforzo riusciamo a sperimentare noi stessi come siamo realmente, scopriremo non solo che questo ego è non-esistente, ma lo è anche la sua scelta e lo sforzo di essere attentivamente auto-consapevole. Tuttavia, benché siano tutti in definitiva non-esistenti, finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, abbiamo bisogno di fare questa scelta e questo sforzo. Davvero, la vera natura del nostro ego è quella di scegliere e fare sforzo, così piuttosto che scegliere e fare uno sforzo in qualsiasi altra direzione, dovremmo scegliere e fare lo sforzo solo di essere attentivamente auto-consapevoli.

3. Nāṉ Yār? paragrafo 6: cosa intende Bhagavan con ‘il pensiero chi sono io’, che distruggerà tutti i pensieri, incluso se stesso?

Venkat dice che questo ego, mente, corpo e mondo sono solo pensieri o percezioni che scorrono sullo schermo della consapevolezza, ma di chi è la visione in cui essi scorrono? E' la visione solo di questo ego, che è esso stesso il primo pensiero che appare sullo schermo. Questo schermo di consapevolezza è la nostra pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, così è inconsapevole e non influenzato da alcun pensiero o percezione che può apparire su di esso nella visione di questo ego, perché nella sua visione questo ego e la sua progenie non esistono affatto e neppure sembrano esistere.

Venkat dice anche, ‘Così il pensiero di essere attentivamente auto-consapevoli è solo un altro pensiero su quello schermo’, che è vero, perché secondo Bhagavan ogni cosa diversa dal nostro sé reale è solo un pensiero. Tuttavia, come egli spesso diceva, distruggere tutti i pensieri pensando solo a noi stessi (che è un altro modo di dire essere attentivamente auto-consapevoli) è come usare una spina per rimuovere un’altra spina conficcata nel proprio piede.

Non solo pensare o attendere alla nostra auto-consapevolezza essenziale e sempre-presente sradicherà tutti gli altri pensieri, incluso il nostro pensiero primario, questo ego, ma facendo questo esso distruggerà anche se stesso, come Bhagavan ha detto nella seconda frase del sesto paragrafo di Nāṉ Yār?:
நானார் என்னும் நினைவு மற்ற நினைவுகளை யெல்லா மழித்துப் பிணஞ்சுடு தடிபோல் முடிவில் தானு மழியும்.

nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu maṯṟa niṉaivugaḷai y-ellām aṙittu-p piṇañ-cuḍu taḍi-pōl muḍivil tāṉ-um aṙiyum.

Il pensiero chi sono io [cioè, l’attentività usata per investigare cosa si è], avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine sarà anch’esso distrutto come un bastone per bruciare i cadaveri [un bastone che è usato per smuovere una pira funeraria per assicurarsi che il cadavere venga bruciato completamente].
L’attentività che usiamo per essere attentivamente auto-consapevoli è ciò a cui Bhagavan si riferisce qui come ‘நானார் என்னும் நினைவு’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu), che significa ‘il pensiero chi sono io’ o ‘ il pensiero chiamato chi sono io’.

Cioè, è la natura del nostro ego attendere a una cosa o a un’altra, e generalmente esso attende solo a cose diverse da sé stesso. Questa attenzione che esso dirige verso qualsiasi cosa diversa da sé stesso è ciò che è chiamato ‘pensiero’, e pensando ad altre cose esso nutre o sostiene sé stesso. Quindi, se invece di pensare o dirigere la propria attenzione verso qualche altra cosa, esso la dirige verso sé stesso, starà privando sé stesso di nutrimento, e quindi sprofonderà e scomparirà, e insieme con esso cesseranno anche tutti i suoi pensieri.

4. Nāṉ Yār? paragrafo 13: il pensiero di sé stessi distruggerà tutti gli altri pensieri, inclusa la loro radice, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’ o ‘ego’

Dirigere la nostra attenzione verso noi stessi non è letteralmente un pensiero nel senso abituale di questa parola, ma è qualcosa a cui ci si riferisce come 'pensiero’ solo metaforicamente, come Bhagavan ha fatto per esempio quando ha descritto l’auto-attentività come ‘நானார் என்னும் நினைவு’ (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu) o ‘il pensiero chi sono io’ nella summenzionata frase di Nāṉ Yār? o come ‘ஆன்மசிந்தனை’ (āṉma-cintaṉai), che è una forma Tamil del termine Sanscrito ātma-cintana, che significa letteralmente auto-pensiero o pensiero di se stessi, nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere completamente assorbiti in auto-dimora (ātma-niṣṭhā), non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero (cintana) diverso dal pensiero di sé stessi (ātma-cintana), è donare sé stessi a Dio.
Ciò che egli intende qui con il termine ‘donare sé stessi a Dio’ è rinunciare al proprio ego, che è il nostro pensiero primario chiamato ‘io’, così pensare a sé stessi distruggerà non solo tutti i pensieri riguardo altre cose ma anche questo pensiero primario chiamato ‘io’, che è la radice di tutti gli altri pensieri. Quindi, poiché ātma-cintana o ‘pensiero di sé stessi’ significa auto-attentività, e poiché l’attenzione è una funzione di noi stessi come questo ego e non di noi stessi come siamo realmente, quando questo ego è distrutto dalla propria auto-attentività, la sua auto-attentività sarà distrutta insieme con esso, e tutto ciò che allora rimarrà sarà la pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente. Questo è il motivo per cui egli ha paragonato l’auto-attentività al bastone usato per smuovere una pira funeraria, perché come quel bastone essa sarà bruciata completamente insieme con ogni altra cosa nell’intenso fuoco della pura auto-consapevolezza.

5. Perché l’auto-attentività o ‘pensiero di se stessi’ è necessario, e perché la sola auto-consapevolezza è insufficiente?

Tuttavia, benché l’intenso fuoco della pura auto-consapevolezza alla fine brucerà ogni cosa, per fare questo ha bisogno di essere costantemente smosso dal bastone dell’auto-attentività. Perché? Dal momento che siamo sempre auto-consapevoli, e continuiamo ad esserlo anche quando la nostra attenzione è occupata a formulare pensieri riguardo altre cose, l’auto-consapevolezza come tale non è sufficiente a distruggere gli altri pensieri, tanto meno il nostro primo pensiero chiamato ‘io’ o ‘ego’. Poiché il nostro primo pensiero, che è la radice di tutti gli altri pensieri, alimenta e nutre sé stesso solo attendendo ai suoi altri pensieri (che includono tutti i fenomeni di qualunque genere, o in altre parole, ogni cosa diversa da sé stesso), può privare sé stesso del suo nutrimento richiesto e quindi indebolire l’illusione della propria esistenza solo dirigendo tutta la sua attenzione solo verso sé stesso. Quindi, benché essere auto-consapevoli non è sufficiente per distruggere ogni pensiero, essere attentivamente auto-consapevoli è sufficiente a distruggere tutti i pensieri, inclusa la loro radice, il nostro pensiero originale chiamato ‘io’ o ‘ego’.

Smuovere il fuoco della pura auto-consapevolezza con il bastone dell’auto-attentività è un modo metaforico per dire che dobbiamo ricordare costantemente o mantenere la nostra attenzione fissata fermamente sulla nostra auto-consapevolezza essenziale. Questo è ciò che Bhagavan intendeva quando ha detto nel decimo paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும்’ (sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum), che significa ‘è necessario aggrapparsi tenacemente all’auto-attentività (svarūpa-dhyāna)’, e nell’undicesimo paragrafo, ஒருவன் தான் சொரூபத்தை யடையும் வரையில் நிரந்தர சொரூப ஸ்மரணையைக் கைப்பற்றுவானாயின் அதுவொன்றே போதும்’ (oruvaṉ tāṉ sorūpattai y-aḍaiyum varaiyil nirantara sorūpa-smaraṇaiyai-k kai-p-paṯṟuvāṉ-āyiṉ adu-v-oṉḏṟē pōdum), che significa ‘Se ci si aggrappa fermamente all’ininterrotto auto-ricordo (svarūpa-smaraṇa) fino a che si consegue svarūpa [il proprio sé reale], quello solo sarà sufficiente’.

Come egli indica chiaramente in queste due frasi, ricordare costantemente, pensare o meditare su sé stessi è sia necessario che sufficiente per distruggere il nostro ego, che implica che non c’è altro modo per farlo, perché finché permettiamo a noi stessi di attendere a qualsiasi cosa diversa da noi stessi (anche minimamente) stiamo alimentando e nutrendo il nostro ego, e dunque non possiamo distruggerlo finché non abituiamo noi stessi ad attendere solo a noi stessi.

Come ho detto prima, l’attenzione o attentività è una funzione solo del nostro ego, perché è la nostra capacità di scegliere su cosa focalizzare o centrare la nostra consapevolezza in ogni momento, e solo il nostro ego ha questa capacità, poiché nella chiara visione del nostro sé reale (ātma-svarūpa) non c’è nient’altro che noi stessi di cui possiamo essere consapevoli. Quindi come funzione del nostro ego, l’attenzione a qualsiasi cosa, incluso noi stessi, può essere chiamata un ‘pensiero’ nel senso più ampio di questo termine. Questo è il motivo per cui Bhagavan qualche volta si è riferito o ha descritto l’auto-attentività come ‘pensiero di se stessi’, ‘meditazione su se stessi’, ‘ricordo di se stessi’ o ‘il pensiero chi sono io’, usando termini come ஆன்மசிந்தனை (āṉma-cintaṉai o ātma-cintana), சொரூபத்யானம் (sorūpa-dhyāṉam o svarūpa-dhyāna), சொரூபஸ்மரணை (sorūpa-smaraṇai o svarūpa-smaraṇa) o நானார் என்னும் நினைவு (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu), ed è anche il motivo per cui in alcuni testi più antichi è descritto come ātma-vṛtti (che significa ‘pensiero di se stessi’) o ātmākāra-vṛtti (che significa ‘pensiero nella forma di se stessi’), in cui il termine vṛtti significa un pensiero o funzione mentale, che in questo caso implica la basilare funzione mentale di attenzione o attentività.

Come ho menzionato in Il nostro ego può essere distrutto solo da vṛtti-jñāna (auto-attentività) e in Essere attentivamente auto-consapevoli è ciò che è chiamato vṛtti-jñāna, Bhagavan qualche volta ha spiegato che il termine vṛtti-jñāna, che è usato in molti testi e commentari più antichi, significa ātma-vṛtti o ātmākāra-vṛtti, e che la ragione per cui in tali testi è detto che jñāna è in se stessa insufficiente per distruggere il nostro ego insieme con la sua ajñāna (auto-ignoranza) e che vṛtti-jñāna è quindi necessaria, è che jñāna in questo contesto significa pura auto-consapevolezza, che sola esiste realmente e che è quindi sempre presente, così essa è la realtà fondamentale senza la quale il nostro ego e la sua ajñāna non potrebbero nemmeno sembrare esistere, e perciò per distruggere la nostra illusione di essere questo ego è necessario qualcosa di più della sola auto-consapevolezza (jñāna). L’ingrediente extra richiesto è ciò che è chiamato vṛtti-jñāna o ātmākāra-vṛtti, che significa semplicemente auto-attentività o essere attentivamente auto-consapevoli.

6. Come possiamo scegliere di attendere ad una cosa anziché ad un’altra?

Nel suo secondo commento, che Venkat ha scritto in risposta ad alcuni amici che avevano risposto al suo primo commento, ha chiesto: ‘Come tu dici, “solo il nostro ego può scegliere di essere attentivo”. Ma il nostro ego è non-esistente, illusorio; è solo un pensiero. Come può un pensiero SCEGLIERE di essere attentivo? La scelta di essere attentivo implica qualche entità che può controllare l’attenzione. Ma noi tutti sappiamo ed accettiamo in primo luogo che non c’è entità. O stiamo dicendo che il pensiero-io può in qualche modo controllare il flusso di altri pensieri?’

Come ho spiegato prima, benché il nostro ego non esista realmente, esso sembra esistere, così abbiamo bisogno di un mezzo per liberare noi stessi dall’illusione di essere questo ego. Chi sperimenta questa illusione e quindi ha bisogno di essere libero da esso? Ciò che siamo realmente non sperimenta mai qualcosa diversa da sé stesso, così nella sua visione non c’è illusione e dunque non ha bisogno di liberarsi da esso. Quindi ciò che sperimenta questa illusione è solo noi stessi come questo ego, così come questo ego abbiamo bisogno di liberarci dalla condizione illusoria nella quale ora troviamo noi stessi, perché ciò che ora sembriamo essere non è ciò che siamo realmente.

Poiché non è ciò che siamo realmente, questo ego è solo un pensiero, ma esso è anche il pensatore e lo sperimentatore di tutti gli altri pensieri, così ha il controllo su di essi. Tuttavia, ci sembra che il nostro controllo sui nostri pensieri sia limitato, perché sebbene sembriamo in grado di controllare qualcuno di essi, non possiamo controllarli tutti. Tranne che la nostra auto-consapevolezza essenziale, ogni cosa che sperimentiamo è solo un pensiero, perché anche il mondo fisico che sembriamo percepire come se esistesse all’esterno di noi è solo una serie di impressioni mentali, e tutti i generi di impressioni mentali o fenomeni sono ciò che Bhagavan chiama ‘pensieri’ o ‘idee’: நினைவுகள் (niṉaivugaḷ) o எண்ணங்கள் (eṇṇaṅgaḷ). Quindi sebbene sembriamo in grado di controllare qualcuno dei nostri pensieri, non sembriamo in grado di controllarli tutti, perché non possiamo, per esempio, decidere di fermare tutte le guerre, il terrorismo e altre sofferenze che vediamo accadere nel mondo attorno a noi.

Perché è così? La ragione è che benché questi fenomeni siano tutti solamente i nostri pensieri, proprio come ogni cosa che sperimentiamo in un sogno, quando creiamo tutti questi fenomeni creiamo anche noi stessi come se fossimo una persona in questo mondo, così poiché sembriamo essere parte di questa creazione, non ci sembra essere qualcosa che abbiamo creato e che quindi possiamo controllare. Dopo che ci svegliamo da un sogno, realizziamo che ogni cosa che abbiamo sperimentato in quel songo era nostra creazione o costruzione mentale, ma finché stavamo sognando sembravamo essere proprio una persona in quel mondo di sogno, e come tali non abbiamo controllo sul mondo che ci sembrava essere. Nello stesso modo, poiché ora sembriamo solo una piccola e insignificante persona in questo vasto mondo, sembriamo essere impotenti nel cambiarlo a volontà, anche se è realmente solo la nostra creazione o costruzione mentale. In altre parole, poiché il creatore sembra essere divenuto una creatura nella sua creazione, in quanto creatura non può più controllare ciò che ha creato.

Tuttavia, benché non possiamo controllare molti dei pensieri che abbiamo creato, possiamo in grande misura controllare la nostra attenzione, che è lo strumento con cui abbiamo creato ogni cosa. Finché dirigiamo la nostra attenzione lontano da noi stessi, sembriamo in grado di controllare alcuni dei nostri pensieri ma non altri, ma se dirigiamo la nostra attenzione soltanto verso noi stessi, saremo in grado di fermare l’atto stesso della creazione.

Ora sperimentiamo noi stessi come se fossimo questo ego, ed essere attento a qualcosa o a un’altra è la vera natura di questo ego. Perché? Il motivo è che sembriamo divenire questo ego solo creando un corpo, che allora sperimentiamo come se fosse noi stessi, e attraverso i sensi di quel corpo proiettiamo un mondo apparentemente vasto, così divenendo questo ego abbiamo creato l’illusione di molte altre cose, e non possiamo ovviamente essere pienamente consapevoli di ciascuna cosa che abbiamo creato. Per operare in questo mondo di molteplici fenomeni creato dall’ego, abbiamo bisogno in ogni momento di essere più consapevoli di alcune cose di quanto lo siamo di altre, così abbiamo questa capacità di focalizzare in un dato momento la nostra consapevolezza su una o più cose selezionate, e questa capacità è ciò che chiamiamo attenzione.

Poiché come questo ego abbiamo bisogno di agire nell’ambiente rapidamente mutevole della nostra mente e del mondo che abbiamo noi stessi creato, abbiamo bisogno di essere in grado di muovere la nostra attenzione rapidamente da una cosa a un’altra, e spesso abbiamo bisogno di dare un certo grado di attenzione a più di una cosa nel medesimo tempo. Quindi la misura in cui diamo attenzione ad ogni cosa particolare è variabile, così la nostra attenzione è in qualche modo come la nostra vista: proprio come possiamo vedere molte cose nel medesimo tempo, ma alcune di queste cose sono nel centro o in primo piano alla nostra visione mentre altre sono in misura più o meno grande da un lato o alla periferia della nostra visione, così possiamo essere consapevoli di molte cose allo stesso tempo, ma alcune di queste sono nel centro o in primo piano della nostra attenzione mentre altre sono in misura più o meno grande da un lato o in secondo piano della nostra attenzione. La maggior parte del tempo la nostra attenzione o consapevolezza non è focalizzata nettamente solo su una cosa particolare, perché si muove rapidamente da una cosa a un’altra, ma possiamo e spesso scegliamo di focalizzarla nettamente su qualcosa, e nella misura in cui la focalizziamo su una cosa escludiamo altre cose dalla nostra consapevolezza.

Come ciascuno di noi conosce per esperienza propria, siamo in grande misura liberi e in grado di scegliere ciò a cui attendiamo in ogni momento, e anche la misura in cui focalizziamo la nostra attenzione su ciascuna cosa, ma Venkat chiede, ‘Come può un pensiero scegliere di essere attento?’ Ovviamente nessun pensiero tranne che il nostro ego può scegliere di attendere a qualcosa, perché nessun altro pensiero è consapevole di sé stesso o di ogni altra cosa. Poiché il nostro ego è il solo pensiero che è consapevole di qualsiasi cosa, e poiché è consapevole sia di sé stesso che di altre cose, può scegliere in ogni momento di essere attento a qualunque cosa o cose particolari delle quali vuole essere consapevole in modo predominante. Qualche volta la sua attenzione può sembrare essere forzatamente allontanata verso qualche altra cosa, come il suono di un’esplosione inattesa, ma la sua attenzione è allontanata verso tali cose solo perché in quel momento sceglie di rivolgerla verso di esse.

Venkat anche dice, ‘La scelta di essere attenti implica qualche entità che possa controllare l’attenzione. Ma tutti noi sappiamo ed accettiamo che in primo luogo non c’è entità’, che è un punto a cui ho già risposto all’inizio di questo articolo. Ora sperimentiamo noi stessi come un ego, e poiché ci sperimentiamo in questo modo sperimentiamo anche molte altre cose, così anche se Bhagavan ci insegna che questo ego non esiste realmente, a noi esso sembra esistere ed essere noi stessi.

Egli qualche volta ha detto che non c’è realmente ignoranza (ajñāna), perché non c’è nessuno che è ignorante, e che nessun insegnamento è quindi necessario, ma ha anche spiegato che benché questo sia il punto di vista ajāta che è la verità suprema (pāramārthika satya), non è una base appropriata per ogni insegnamento, perché gli insegnamenti sembrano essere necessari solo finché sembriamo essere un ego auto-ignorante. Quindi, benché egli ha detto che la sua esperienza è ajāta, per insegnare a noi ha adottato il punto di vista vivarta, secondo il quale questo ego e ogni cosa che esso sperimenta diversa dalla propria auto-consapevolezza è solo un’apparenza illusoria (vivarta).

Cioè, per il nostro beneficio egli ha ammesso che nella nostra visione questo ego sembra esistere, anche se proprio come un’apparenza illusoria, e quindi ci ha insegnato che il mezzo con cui possiamo liberare noi stessi dalla nostra illusione di essere questo ego è cercare di essere attentivamente auto-consapevoli. Ci ha anche insegnato che finché sembriamo essere questo ego, non abbiamo la libertà e la capacità di scegliere e cercare di essere attentivamente auto-consapevoli, così poiché questa libertà e capacità sono il solo mezzo con cui possiamo liberare noi stessi da questo ego e da tutti gli impedimento che esso comporta, se siamo saggi faremo un uso appropriato di essi cercando persistentemente di essere attentivamente auto-consapevoli.

7. Il nostro ego e la sua creazione di sogno non esistono nella chiara visione del nostro sé reale

Nel suo terzo commento, che ha anche scritto in risposta a un altro amico, Venkat ha chiesto: ‘Così secondo eka jiva vada, cos’è che ha il pensiero di rivolgere l’attenzione su sé stesso, dato che l’ego è parte del sogno? O il pensiero di rivolgere l’attenzione su sé stesso è anche solo parte del gioco che la consapevolezza sta osservando – e di fatto non c’è niente da essere compiuto e nessuno che rivolge l’attenzione?’

L’ego è l’ēka jīva, l’‘unica anima’ o solo sperimentatore, ed è parte del sogno perché lo sperimenta non come uno spettatore distaccato ma come un partecipante, poiché lo sperimenta solo sperimentando sé stesso come una persona nel proprio mondo di sogno. È anche quello che solo pensa e che solo possiede la funzione e la capacità dell’attenzione, così esso solo è ciò che ‘ha il pensiero di rivolgere l’attenzione su sé stesso’. Generalmente usa la sua attenzione per focalizzarsi su cose diverse da sé stesso, ma poiché può attendere a qualsiasi cosa all’interno della portata o estensione della propria consapevolezza, è in grado (e dovrebbe) attendere a sé stesso invece che a qualsiasi altra cosa.

Non ci potrebbe essere il rivolgere l’attenzione se non ci fosse ‘nessuno a rivolgerla’, perché non ci potrebbe essere ovviamente alcuna azione senza qualcosa che la sta facendo, né alcuna esperienza senza qualcosa che la sta sperimentando. Il nostro ego, che è il solo attore e sperimentare in questo sogno, è ‘nessuno’ nel senso che esso non esiste realmente, ma finché sembra esistere sembra essere qualcuno, così è questo apparente qualcuno che deve cercare di rivolgere la sua attenzione verso sé stesso per vedere se è realmente ciò che sembra essere. Se fa in questo modo, la sua apparente esistenza come un ego si dissolverà, e ciò che allorà rimarrà sarà ciò che è realmente, che è l’unico infinito e indivisibile spazio di pura auto-consapevolezza, che sola esiste realmente e che quindi non è mai consapevole di qualcosa diversa da sé stessa.

Quando Venkat chiede se il pensiero di rivolgere l’attenzione su se stessa è ‘solo parte del gioco che la consapevolezza sta osservando’, presumo che in questo contesto ciò che egli intende con ‘consapevolezza’ non sia il nostro ego ma ciò che siamo realmente, tuttavia, ciò che siamo realmente è solo pura auto-consapevolezza, che è una consapevolezza che non è consapevole di qualcosa diversa da se stessa, perché nella sua chiara visione non esiste nient’altro che se stessa, così non c’è niente diverso da se stessa da osservare. Ciò che è consapevole del nostro ego e di ogni suo sogno non è il nostro sé reale (ātma-svarūpa) ma solo il nostro ego, così tranne che questo ego non c’è consapevolezza che sta osservando esso e il suo gioco.

Il nostro ego e la sua creazione di sogno non esistono e neppure sembrano esistere nella visione di qualsiasi cosa diversa da sé stesso, perché nella chiara visione del nostro sé reale non esiste, non è mai esistito né mai potrebbe esistere, nient’altro che la nostra pura auto-consapevolezza. Quindi benché Bhagavan qualche volta ha detto che questo ego e tutti i fenomeni che sperimenta sono proprio come immagini che appaiono sullo schermo della pura coscienza o auto-consapevolezza, non intendeva che queste immagini appaiono nella visione della nostra pura consapevolezza ma solo che appaiono nella visione di noi stessi come questo ego.

Essere consapevoli dell’alterità o molteplicità non è reale conoscenza ma solo ignoranza, come Bhagavan dice nel verso 11 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘அறிவு உறும் தன்னை அறியாது அயலை அறிவது அறியாமை’ (aṟivu-uṟum taṉṉai aṟiyādu ayalai aṟivadu aṟiyāmai), che significa ‘non conoscendo se stessi, chi conosce, conoscere altre cose è ignoranza’, e anche nel verso 13 ‘நானாவாம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam aññāṉam ām), che significa ‘la conoscenza che è molti [o conoscenza della molteplicità] è ignoranza (ajñāna)’. Quindi, poiché l’ignoranza può essere un attributo solo del nostro ego e non del nostro sé reale, ciò che siamo realmente non può mai essere consapevole di qualcosa diversa da sé stesso, né può mai essere consapevole di sé stesso come molte cose differenti.

8. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 7: il mondo sembra esistere solo perché è percepito dal nostro ego

Nel suo quarto commento Venkat si è riferito a ciò che un altro amico aveva scritto e ha chiesto, ‘Tu dici “noi limitiamo la nostra consapevolezza… possiamo scegliere di aggrapparci” ma CHI è questo “noi”?’ Ciò che siamo realmente mai subisce alcun genere di cambiamento, così esso non limita mai sé stesso o si aggrappa a qualcosa. Quindi il ‘noi’ che ha limitato la nostra consapevolezza e quindi scelto di aggrapparsi è solo il nostro ego e non il nostro sé reale.

Noi sorgiamo e resistiamo come questo ego solo afferrando o aggrappandoci a cose diverse da noi stessi, come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, così finché scegliamo di continuare ad aggrapparci a qualsiasi cosa diversa da noi stessi perpetueremo l’illusione di essere questo ego. Quindi, se vogliamo liberare noi stessi (quello che ora sembra essere questo ego) da questa illusione, dobbiamo scegliere di aggrapparci solo a noi stessi.

Nello stesso commento Venkat ha anche scritto: ‘Quando Bhagavan parla riguardo chit-jada-granthi, lo comprendo nel significato che nel nostro sogno vediamo una serie di percezioni che sono strettamente e continuamente collegate a un punto particolare nello spazio-tempo (“il mio corpo”), come distinto dal resto del mondo. Come risultato sorge un pensiero-io che si identifica con questa particolare serie di percezioni e cerca di proteggere e accrescere sé stesso in relazione al resto delle percezioni (“il mondo”) che è visto. Dunque inizia la falsa idea della separazione’.

Come Bhagavan ha indicato nel verso 24 di Uḷḷadu Nāṟpadu, il termine cit-jaḍa-granthi (il nodo che lega insieme il cosciente e il non-cosciente come se fossero uno) è un altro nome per il nostro ego, che è ciò che egli chiamava anche ‘il pensiero chiamato io’ (o ‘pensiero-io’, come Venkat si è riferito ad esso), così è sbagliato considerarlo come il risultato di qualche percezione, perché possiamo solo percepire qualcosa diversa da noi stessi quando sorgiamo come questo ego. Le percezioni appaiono appena questo ego appare, così essi sono una coppia inseparabile, ma benché appaiono e scompaiono insieme, l’ego è la causa e le sue percezioni sono i suoi effetti, come Bhagavan intendeva nel verso 7 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உலகறிவு மொன்றா யுதித்தொடுங்கு மேனு
முலகறிவு தன்னா லொளிரும் […]

ulahaṟivu moṉḏṟā yudittoḍuṅgu mēṉu
mulahaṟivu taṉṉā loḷirum
[…]

பதச்சேதம்: உலகு அறிவும் ஒன்றாய் உதித்து ஒடுங்கும் ஏனும், உலகு அறிவு தன்னால் ஒளிரும். […]

Padacchēdam (separazione delle parole): ulahu aṟivum oṉḏṟāy udittu oḍuṅgum ēṉum, ulahu aṟivu-taṉṉāl oḷirum. […]

Traduzione: Benché il mondo e la mente sorgono e sprofondano simultaneamente, il mondo risplende per mezzo della mente. […]
உலகு (ulahu) è una parola Tamil derivata dalla parola Sanscrita लोक (lōka), o piuttosto dalla sua più antica forma Vedica उलोक (ulōka), che significa ‘mondo’ o ‘universo’, ma che etimologicamente significa ‘ciò che è visto’, così in questo contesto il mondo significa la somma totale di tutte le percezioni (poiché non c’è mondo diverso dalle nostre percezioni). அறிவு (aṟivu) è una parola Tamil che significa conoscenza o consapevolezza, ma poiché la sola consapevolezza che sorge e sprofonda è il nostro ego o mente, in questo contesto essa significa il nostro ego o mente. Il verbo Tamil ஒளிரும் (oḷirum) significa letteralmente ‘risplende’, ma in questo contesto è usato metaforicamente per intendere ‘sembra esistere’, ‘è noto’ o ‘è conosciuto’, così quando Bhagavan dice ‘உலகு அறிவு தன்னால் ஒளிரும்’ (ulahu aṟivu-taṉṉāl oḷirum), che significa ‘il mondo risplende per mezzo della mente’, ciò che intende è che esso sembra esistere solo perché è noto o conosciuto per mezzo del nostro ego o mente.

Quando Venkat scrive, ‘nel nostro sogno vediamo una serie di percezioni […] Come risultato sorge un pensiero-io che si identifica con questa particolare serie di percezioni’, egli intende che le percezioni sorgono prima e l’ego o ‘pensiero-io’ sorge come risultato di quelle percezioni, ma questo non può essere il caso, perché le percezioni sorgono solo quando le sperimentiamo, e noi che le sperimentiamo siamo ciò che è chiamato l’ego, il ‘pensiero-io’ o cit-jaḍa-granthi. Quindi ciò che sorge prima è il nostro ego, e come sorge simultaneamente dà origine alle percezioni, perché proprio come le percezioni non possono esistere senza il nostro ego, che è il loro percettore, il nostro ego non può esistere senza percepire o essere consapevole di qualcosa diversa da sé stesso.

Questo ego sorge proiettando e attaccando sé stesso a un corpo, e attraverso i cinque sensi di quel corpo proietta e percepisce un mondo. Quindi, poiché noi siamo fondamentalmente solo pura auto-consapevolezza, che è coscienza (cit), e poiché sembriamo sorgere come questo ego solo proiettando e sperimentando noi stessi come un corpo, che è non-cosciente (jaḍa), come questo ego siamo una mescolanza confusa di cit e jaḍa, così siamo definiti cit-jaḍa-granthi.

9. Il solo credere in ajāta o in qualsiasi altra cosa non è un mezzo adeguato per liberare noi stessi da questa illusione dell’ego

Nel suo settimo commento Venkat ha scritto: ‘Devo dire che la logica dell’advaita, e di ajata vada, devono inevitabilmente significare che non ci può essere metodo, né causa, né effetto, né uno legato, né uno da essere liberato. Noi sentiamo questo, diciamo di credere in essa… ma poi vogliamo realizzarla – che è chiaramente contraddittorio’.

Possiamo credere in ajāta vāda, ma è contrario alla nostra esperienza (come ho spiegato in Possiamo credere direttamente in vivarta vāda ma non in ajāta vāda), poiché ora sperimentiamo noi stessi come un ego limitato e dunque percepiamo un mondo in cui operano causa ed effetto, e come questo ego siamo legati da limiti dai quali desideriamo essere liberati. Quindi credere in ajāta vāda è per noi di scarsa utilità se non ci sforziamo di sperimentarla, e Bhagavan ci ha insegnato che il solo mezzo con cui possiamo sperimentarla è investigare noi stessi per vedere se siamo realmente questo ego che sembriamo essere.

Credere è una funzione della nostra mente, così possiamo credere in ajāta vāda o in qualsiasi altra cosa solo finché sperimentiamo noi stessi come questa mente. Nel sonno non crediamo in niente, perché in quel momento siamo liberi dall’illusione si essere questo ego o mente. Quindi il solo credere in qualcosa non può essere un mezzo adeguato per liberarci permanentemente dalle limitazioni che imponiamo su noi stessi sperimentandoci come questo ego. Ajāta non è solamente un vāda (un argomento o un assunto filosofico), ma è una descrizione di ciò che sperimenteremo se investighiamo interamente noi stessi, così se affermiamo di credere in ajāta dovremmo cercare di investigare o scrutinare noi stessi per scoprire ciò che siamo realmente.

Come ho spiegato prima (nella sesta sezione), sebbene l’esperienza di Bhagavan era ajāta, ha basato primariamente i suoi insegnamenti sul punto di vista vivarta, perché il punto di vista ajāta nega che ci sia un ego, o anche che un ego sembri esistere, così in sé stesso non può fornirci una soluzione al problema che affrontiamo, ovvero che ora sembriamo essere questo ego. Secondo il punto di vista vivarta, d’altra parte, questo ego sembra esistere, ma è solo un’apparenza illusoria (vivarta), come un serpente illusorio che è realmente solo una corda, così possiamo liberarci di esso investigando noi stessi e quindi scoprendo che non siamo realmente questa entità limitata chiamata ego ma solo infinita auto-consapevolezza, oltre alla quale niente esiste.

Nello stesso commento Venkat ha anche scritto: ‘Quello di Bhagavan è il ‘metodo’ più semplice e più elegante, realizzando il rasoio di Occam, senza aggiungere alcun ricamo o ulteriore concetto: guarda te stesso e continua a farlo finché vedi che tu sei l’osservatore, e non l’ego che è osservato. In un certo modo, non importa se tu ‘realizzi’ o no (tranne forse per ridurre la sofferenza nel presente) – poiché in ogni caso il sogno finirà con la ‘morte’ fisica’.

Ci sono due punti di confusione in questa affermazione. In primo luogo, l’insegnamento di Bhagavan non era ‘guarda te stesso e continua a farlo finché vedi che tu sei l’osservatore, e non l’ego che è osservato’, perché l’osservatore non è nient’altro che il nostro ego (poiché ciò che è consapevole di qualcosa diversa da se stesso è solo questo ego e non il nostro sé reale), così il fine dell’auto-investigazione non è vedere che siamo l’osservatore ma è solo vedere che non abbiamo mai osservato o non siamo mai stati consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi.

Inoltre, ci è realmente possibile guardare questo ego? Possiamo cercare di farlo, e dovremmo cercare di farlo, ma non riusciremo mai a vedere realmente questo ego, perché esso non esiste realmente. Benché ci può sembrare che quando cerchiamo di essere auto-attentivi stiamo guardando l’ego che osserva, non possiamo mai realmente guardarlo, perché come Bhagavan dice nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’, intendendo quindi che se cerchiamo di vederlo, esso scompare, perché non esiste realmente.

Cioè, sembriamo essere questo ego solo quando siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, ma se rivolgiamo la nostra attenzione per vedere l’ego che sembriamo essere, esso scomparirà, perché non ha esistenza reale. È solo un ‘உருவற்ற பேய்’ (uru-v-aṯṟa pēy) o ‘fantasma senza forma’ – qualcosa che sembra esistere finché non lo si guarda direttamente, ma che svanisce appena lo si guarda direttamente. Quindi osservare questo ego è come cercare di guardare con attenzione un serpente illusorio: proprio come sembriamo guardare un serpente solo finché non lo guardiamo con sufficiente attenzione, ma scopriamo che ciò che stavamo guardando era solo una corda quando la guardiamo con cura sufficiente, così sembriamo osservare un ego limitato o ‘pensiero-io’ solo finché non lo stiamo osservando con sufficiente attenzione, ma scopriamo che ciò che stavamo realmente osservando era solo pura e infinita auto-consapevolezza (che è ciò che sempre siamo realmente) quando lo osserviamo con sufficiente acutezza e vigilanza.

In secondo luogo, benché è ovviamente vero che il nostro attuale sogno finirà con la morte del nostro attuale corpo, il beneficio che otterremo con ciò non sarà più durevole del beneficio che otteniamo addormentandoci. Proprio come il sonno ci fornisce solo una tregua temporanea dal nostro ego, la morte fisica è anche solo una tregua temporanea, perché se non distruggiamo l’illusione fondamentale di essere questo ego cercando di essere attentivamente auto-consapevoli, questo ego continuerà a sorgere e a proiettare un sogno dopo l’altro.

Il sognatore di ogni sogno è il nostro ego, così finché questo ego resiste, ogni volta che uno dei suoi sogni giunge al termine esso prima o poi inizierà a sognare un altro sogno, così il termine di ogni sogno, incluso questo sogno della nostra attuale vita fisica, non è una soluzione reale a tutti i problemi che, come questo ego, affrontiamo o rischiamo di affrontare. Il nostro sogno attuale può ora sembrare relativamente piacevole e comodo, ma non c’è garanzia che esso continuerà ad essere così piacevole o che il nostro prossimo sogno sarà così piacevole, così contrariamente a ciò che ha scritto Venkat, importa se ‘realizziamo’ o no.

In questo contesto ‘realizzare’ significa ovviamente ‘sperimentare ciò che siamo realmente’, così in questo senso ‘realizzare’ è la sola cosa che realmente importa. Naturalmente non importa al nostro sé reale, perché come il nostro sé reale sperimentiamo sempre noi stessi come siamo realmente, ma importa a noi come questo ego, perché come questo ego siamo sempre soggetti a soffrire in diversi modi, e anche quando stiamo sperimentando un sogno relativamente piacevole, stiamo ancora soffrendo la limitazione di essere un’entità apparentemente limitata, così anche il più piacevole sogno è uno stato di sofferenza in confronto alla pace e alla gioia infinite di sperimentare noi stessi come siamo realmente.

10. Cos’è veramente reale?

In due commenti in risposta al secondo commento di Venkat (a cui ho risposto qui sopra nella sesta sezione), un altro amico di nome Sivanarul ha scritto riguardo ciò che può essere considerato reale. Nel primo di questo due commenti ha scritto: ‘Proprio come il sogno è reale finché si sta sognando, l’ego è reale finché il sogno della vita sta accadendo’.

Se Sivanarul intendeva le parole ‘è reale’ nel loro significato letterale, ciò che ha scritto in quella frase non è corretto, perché né l’ego né ognuno dei suoi sogni è mai reale. Tuttavia, benché essi non sono reali, sembrano essere reali finché li stiamo sperimentando, così se ciò che egli intendeva con ‘è reale’ è ‘sembra essere reale’, allora è corretto dire: ‘Proprio come un sogno sembra reale finché ci sembra sognare, l’ego sembra reale finché il sogno della via sembra accadere’.

Quando qualcosa è detta essere reale, questo significa che esiste realmente ed è realmente ciò che sembra, perché qualunque cosa non esiste realmente non può essere reale, anche se sembra esistere, e qualunque cosa non è ciò che sembra essere non è reale come la cosa che sembra essere ma solo come la cosa che è realmente. Quindi per essere reale, una cosa non solo deve sembrare esistere ma deve esistere realmente, così ‘reale’ significa ‘realmente esistente’.

Il nostro ego non esiste realmente, anche se sembra esistere, così non è reale, anche se lo sembra essere. Nello stesso modo i fenomeni non esistono realmente, anche se sembrano esistere, così non sono reali, anche se lo sembrano essere, perché i fenomeni sono solo un’illusione creata dal nostro ego, così sembrano esistere solo finché il nostro ego sembra esistere, come Bhagavan ha inteso chiaramente quando ha scritto nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu: ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Dunque] solo l’ego è ogni cosa’.

Poiché ogni sogno è solo una serie di fenomeni sperimentati dal nostro ego, è irreale quanto il nostro ego, e sembra essere reale solo quando noi sembriamo essere l’ego che lo sperimenta. E poiché il nostro stato attuale, che sembra essere uno stato di veglia finché lo sperimentiamo, è anche solo una serie di fenomeni sperimentati dal nostro ego, è solo un altro sogno, così è irreale quanto il nostro ego.

Secondo Bhagavan ciò che esiste realmente è solo noi stessi, come dichiara chiaramente ed enfaticamente nella prima frase del settimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே.

yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē.

Ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale].
Poiché noi soltanto esistiamo realmente, qualunque altra cosa sembri esistere non esiste realmente, così nient'altro che noi stessi è reale. Ogni altra cosa è solo una kalpanā (costruzione, immaginazione o idea creata dalla nostra mente o ego), come l’argento immaginario visto in una conchiglia, come egli dice nella seconda frase dello stesso paragrafo. E poiché ogni cosa diversa da noi stessi è sperimentata solo dal nostro ego, esso è la prima kalpanā, e la radice e la causa di tutte le altre kalpanā. Cioè, poiché il nostro ego non è ciò che siamo realmente ma solo ciò che sembriamo essere, non è reale ma è solo una kalpanā o costruzione illusoria.

Il fatto che solo ciò che esiste realmente può essere considerato reale è anche indicato da Bhagavan nelle prime frasi del quattordicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
சுகமென்பது ஆத்மாவின் சொரூபமே; சுகமும் ஆத்மசொரூபமும் வேறன்று. ஆத்மசுகம் ஒன்றே யுள்ளது; அதுவே ஸத்யம்.

sukham-eṉbadu ātmāviṉ sorūpamē; sukhamum ātma-sorūpamum vēṟaṉḏṟu. ātmasukham oṉḏṟē y-uḷḷadu; aduvē satyam.

Ciò che è chiamata felicità è solo la svarūpa di ātmā [la ‘propria forma’ o reale natura di se stessi]; la felicità e ātma-svarūpa [il proprio sé reale] non sono differenti. Soltanto ātma-sukha [la felicità di sé stessi] esiste; quella solo è reale.
Bhagavan usava definire la realtà dicendo che ciò che è reale deve essere eterno, immutabile e auto-risplendente (come spiega, per esempio, in un dialogo registrato nel terzo capitolo del secondo libro di Maharshi’s Gospel: edizione 2002, pagine 67-8). Deve essere eterna, perché qualunque cosa non esiste sempre è confinata entro i limiti del tempo, e il tempo non è reale, poiché esiste solo nella visione del nostro ego (come possiamo dedurre dal fatto che sperimentiamo il tempo solo nella veglia e nel sogno, quando sembriamo essere questo ego, ma non nel sonno, quando non siamo consapevoli di alcun ego). Deve essere immutabile, perché qualunque cosa cambia non è esattamente la stessa cosa in ogni momento, poiché ciò che era prima di ciascun cambiamento è differente da ciò che è dopo quel cambiamento, così ogni cosa in cui cambia è confinata entro i limiti del tempo. E cosa più importante, deve essere auto-risplendente (cioè, deve illuminare o rendersi conosciuta senza l’aiuto di qualche altra cosa, che significa che deve essere auto-consapevole), perché qualunque cosa non illumina e non conosce sé stessa deve dipendere da qualcosa diversa da sé stessa per essere conosciuta, così se essa è reale o no, dipende dalla realtà di quella cosa che illumina e conosce, e dunque non è indipendentemente reale.

Cos’è allora reale secondo questo modello? Nessun fenomeno è eterno, immutabile o auto-risplendente, perché i fenomeni sembrano esistere solo quando sono sperimentati dal nostro ego, e il nostro ego stesso è solo un fenomeno temporaneo che appare nella veglia e nel sogno e scompare nel sonno. Poiché è temporaneo, il nostro ego non è eterno, e poiché non ha forma, per la sua esistenza apparente, dipende da qualunque forma a cui si attacca, e poiché attacca sé stesso a forme differenti in momenti differenti (cioè, a un corpo nella veglia e a un altro corpo nel sogno), non è immutabile. Benché possa sembrare auto-risplendente, poiché è consapevole della propria esistenza, il nostro ego non risplende realmente della luce della propria consapevolezza ma solo della luce di consapevolezza che mutua dal nostro sé reale (ātma-svarūpa), come possiamo dedurre dal fatto che nel sonno continuiamo ad essere auto-consapevoli anche se in quel momento non siamo consapevoli di noi stessi come questo ego.

Quindi la sola cosa che è eterna, immutabile ed auto-risplendente è noi stessi, dunque noi solo siamo reali. Siamo eterni, perché non abbiamo mai sperimentato e non potremmo mai sperimentare un momento in cui non esistiamo. Siamo immutabili, perché qualunque cambiamento possiamo apparentemente sperimentare non è un cambiamento che accade a noi stessi ma solo ad altre cose, poiché noi rimaniamo sempre lo stesso ‘noi’ o ‘io’. E siamo auto-risplendenti, perché siamo sempre consapevoli di noi stessi, e la nostra consapevolezza di noi stessi non dipende da qualcos’altro, poiché continuiamo ad essere auto-consapevoli sia che altre cose sembrino esistere (come nella veglia e nel sogno) o meno (come nel sonno). Quindi secondo Bhagavan e secondo questo modello di realtà che ha definito, ciò che è reale è solo noi stessi e niente altro.

Nel secondo dei due commenti a cui mi sono riferito sopra Sivanarul ha scritto, ‘L’Advaita accetta tre ordini di realtà’, e poi spiega che questi ‘tre ordini di realtà’ sono pāramārthika satya, vyāvahārika satya e prātibhāsika satya. Sebbene questi tre termini siano usati nei testi e commentari advaita, è sbagliato dedurre che l’advaita accetti più di una realtà, perché ‘advaita’ significa non-dualità, così è il nome dato a una filosofia che non accetta che più di una cosa sia reale.

Ciò che è reale è solo noi stessi, così la realtà di noi stessi è chiamata pāramārthika satya, che significa la verità o realtà suprema. Gli altri due termini, vyāvahārika satya e prātibhāsika satya, sono ciascuno una descrizione di ciò che sembra essere reale ma non è veramente reale. Vyāvahārika satya significa ‘realtà transazionale’, la realtà apparente del mondo degli affari, del mercato e dell’attività, mentre prātibhāsika satya significa ‘realtà apparente’ o ‘realtà illusoria’. In alcuni testi è fatta una distinzione tra vyāvahārika satya e prātibhāsika satya, e ciò che sperimentiamo nello stato di veglia è detto vyāvahārika satya, mentre ciò che sperimentiamo nel sogno è detto prātibhāsika satya, ma secondo Bhagavan questo stato di veglia è solo un altro sogno, così vyāvahārika satya (realtà transazionale) è davvero solo prātibhāsika satya (realtà apparente). In altre parole, tranne che il nostro sé reale, qualunque cosa sembra essere reale non è veramente reale ma solo apparentemente reale.

11. Perché è così importante distinguere ciò che è veramente reale da ciò che solamente sembra essere reale?

Nella sezione 11 del mio articolo precedente, C’è più di un modo in cui possiamo investigare e conoscere noi stessi?, ho citato il verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui Bhagavan dice, ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Dunque] l’ego soltanto è ogni cosa’, e nella sezione 9 dell’articolo precedente a quello, Il sonno è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza , ho citato il verso 17 di Upadēśa Undiyār, in cui ha detto, ‘மனத்தின் உருவை மறவாது உசாவ, மனம் என ஒன்று இலை’ (maṉattiṉ uruvai maṟavādu usāva, maṉam eṉa oṉḏṟu ilai), che significa ‘Quando si investiga [esamina o scrutina] la forma della mente senza dimenticare [o trascurare], qualcosa chiamata ‘mente’ non esisterà’. Poiché egli ha spiegato nel verso successivo di Upadēśa Undiyār che la mente è in essenza solo il nostro ego o pensiero-radice chiamato ‘io’, ho estratto dal verso 17 l’ovvia deduzione, ‘il nostro ego o mente non esiste realmente, anche ora’.

Questo ha spinto un amico di nome Rudraksha a scrivere un commento in cui ha chiesto se ciò che Bhagavan dice nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu non è contrario a ciò che dice nel verso 17 di Upadēśa Undiyār. Tuttavia, non c’è realmente contraddizione tra questi due versi, perché sebbene il nostro ego o mente non esiste realmente, esso sembra esistere, e persisterà nell’apparire esistere fino a che investighiamo ciò che è realmente.

Quando una corda è confusa per un serpente, non c’è realmente un serpente, ma sembra esserci un serpente, e finché sembra esistere, il serpente rischia di fare paura. Nello stesso modo, ora confondiamo noi stessi come questo ego, anche se questo non è ciò che siamo realmente, così sebbene non c’è realmente nessun ego, esso sembra esistere, e finché sembra esistere crea per noi tutti i generi di problemi. Proprio come il solo modo per liberare noi stessi dalla paura causata dal serpente illusorio è guardare attentamente ciò che sembra essere un serpente, perché solo allora vedremo che non c’è serpente ma solo un’innocua corda, così il solo modo per liberare noi stessi da tutti i problemi causati da questo ego illusorio è guardare attentamente noi stessi, che siamo ciò che sembra essere questo ego, perché solo allora vedremo che non c’è ego ma solo la nostra infinita auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente.

Quindi dovremmo essere attenti a non confondere il nostro ego come reale, anche se sembra essere reale, perché non è veramente reale e perciò non è ciò che siamo realmente. Finché crediamo esso e ogni cosa che esso sperimenta come reale, continuerà ad illuderci e a causarci problemi e sofferenze senza fine, così Bhagavan ci consiglia di dubitare della sua realtà e di investigarlo per vedere se è veramente reale, come ora sembra essere.

Questo è il motivo per cui è così importante per noi distinguere ciò che esiste realmente ed è quindi veramente reale da ciò che solamente sembra esistere e quindi solamente sembra essere reale. Ciò che esiste realmente ed è reale è solo la nostra semplice auto-consapevolezza, che sperimentiamo senza interruzione nella veglia, nel sogno e nel sonno, perché ogni altra cosa, a partire dal nostro ego o mente, non esiste realmente anche se sembra esistere e sembra essere reale. Per conoscere questo per esperienza diretta, tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è investigare noi stessi per sperimentarci come siamo realmente, piuttosto che come ora sembriamo essere.

12. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 26: perché Bhagavan dice che se il nostro ego non esiste, niente altro esiste?

Come ho menzionato nelle due sezioni precedenti, nel verso 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice: ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Dunque] l’ego soltanto è ogni cosa’. Poiché ho citato questo verso nella sezione 11 del mio articolo precedente, in un recente commento a quell’articolo un amico di nome Algeciras ha fatto riferimento alla seconda frase di esso, ‘se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste’, e ha osservato, ‘Ovviamente non possiamo prendere letteralmente (parola per parola) quella proposizione’. Poi ha spiegato, ‘Per esempio, quando sto dormendo l’ego non esiste. Ma possiamo dire davvero che in quel momento niente esiste?’, e dopo aver elaborato su questo argomento ha concluso chiedendo: ‘Per cortesia potresti spiegare, in quale senso dovremmo comprendere correttamente questo verso?’

Bhagavan intendeva che noi prendessimo ciò che ha scritto in questo verso letteralmente, ma è difficile per noi accettare che l’esistenza apparente di ogni cosa che sperimentiamo dipende dall’esistenza apparente del nostro ego a meno che siamo disposti ad accettare che il nostro attuale cosiddetto stato di veglia è realmente solo un altro sogno. Gli argomenti che Algeciras fornisce sono basati sul presupposto che il mondo che ora sperimentiamo non sia solo una proiezione mentale, come ogni cosa che sperimentiamo in un sogno, ma secondo Bhagavan esso è solo una proiezione mentale, così sembra esistere solo finché siamo consapevoli della sua esistenza apparente, e siamo consapevoli di ciò solo quando sperimentiamo noi stessi come questo ego.

Poiché siamo attaccati alla nostra vita attuale e alla persona che ora sembriamo essere, siamo naturalmente riluttanti ad accettare che tutto questo sia solo una creazione del nostro ego e quindi non più reale di ogni altro sogno che sperimentiamo. Tuttavia, se vogliamo sperimentare ciò che è veramente reale, abbiamo bisogno di dubitare della realtà di ogni cosa che ora sperimentiamo. La sola cosa che deve necessariamente esistere è noi stessi, perché sia che ogni altra cosa sia reale o solo un’illusione, noi dobbiamo esistere per essere consapevoli di essa. Come Descarted sosteneva, ‘Io penso, quindi sono’, benché il suo ragionamento sarebbe stato più semplice e più solido se avesse sostenuto, ‘Io sono consapevole, quindi sono’ o ‘Io sperimento, quindi sono’.

Tranne che noi stessi, non c’è niente che certamente esiste o è certamente reale, perché ogni altra cosa che percepiamo o sperimentiamo potrebbe essere solo un’illusione, come ogni cosa che percepiamo o sperimentiamo in un sogno. Mentre stiamo sognando, sembriamo essere svegli, così ogni cosa che sperimentiamo in un sogno sembra essere reale finché stiamo sognando, ed è scoperta essere solo una creazione mentale, e perciò irreale, solo dopo che ci svegliamo. Quindi solo perché ora sembriamo essere svegli e non sembriamo sognare non significa che realmente non stiamo sognando, perché potremmo semplicemente sognare di essere svegli.

Algeciras ha argomentato che il ‘fatto’ che il mondo esiste nel sonno in assenza dell’ego ‘sarebbe facilmente provato con una videocamera che filmasse tutta la scena’, ma qualunque cosa possa essere filmata non proverebbe nulla, a meno che potessimo guardare il film mentre dormiamo, cosa che ovviamente non possiamo fare. Se qualcuno fosse con noi in un sogno a discutere che il mondo esiste mentre dormiamo, e ci mostrasse un film del nostro corpo che dorme nel nostro letto, proverebbe qualcosa? No, ovviamente non proverebbe nulla, perché il film che ci sarebbe mostrato sarebbe parte del nostro sogno, l’insieme del quale sarebbe solo una creazione del nostro ego. Nello stesso modo, anche se ora osservassimo un film del nostro corpo che dorme nel nostro letto, questo non proverebbe che il nostro corpo o il mondo esisteva mente eravamo addormentati, perché se il nostro stato attuale è solo un sogno, quel film sarebbe solo parte di questo sogno.

Un altro argomento in supporto alla visione di Ageciras è stato offerto da un amico di nome Samarender Reddy in un successivo commento, vale a dire che potremmo osservare il corpo di un amico mentre sta dormendo, così poiché ‘sappiamo per fatto certo’ che ‘il suo corpo e il mondo esistevano quando egli dormiva’, noi ‘possiamo certamente estrapolare e dedurre (che è una deduzione ragionevolmente buona dato che io non sono differente da lui) che la stessa cosa accadrebbe se io andassi a dormire ed egli sedesse in osservazione a lato del mio letto’. Questo argomento è nuovamente basato sulla supposizione che il nostro stato attuale non è un sogno, perché sebbene in un sogno possiamo vedere il corpo di un amico che dorme, non riterremmo ragionevole dedurre da questo, nel nostro stato attuale, che il nostro corpo di sogno e il mondo di sogno esistono anche quando siamo addormentati, poiché ora sappiamo che il corpo del nostro amico dormiente che vedevano nel nostro sogno era solo una creazione del nostro ego o mente. Quindi se il nostro stato attuale è anche solo un sogno, tutti gli amici che vediamo in questo sogno sono nello stesso modo solo creazioni del nostro ego, così essi e il resto di questo mondo non esistono e neppure sembrano esistere tranne quando li percepiamo in questo sogno.

Tranne che potendo provare che ora non stiamo sognando, non possiamo provare che ognuna delle cose che ora percepiamo esistono mentre siamo addormentati. Poiché non c’è mezzo con cui possiamo provare – sia a noi stessi che a chiunque altro – che la nostra esperienza attuale non è un sogno, non c’è mezzo con cui possiamo provare che qualsiasi cosa diversa da noi stessi esiste mentre siamo addormentati.

Potremmo sostenere che proprio come non possiamo essere sicuri che ora non stiamo sognando o che qualsiasi cosa diversa da noi stessi esiste mentre siamo addormentati, altrettanto non possiamo essere sicuri dell’opposto, vale a dire che ora stiamo sognando o che niente altro che noi stessi esiste mentre siamo addormentati. Questo sarebbe un argomento perfettamente ragionevole, ma mostrerebbe che dovremmo almeno dubitare che ogni cosa esista indipendentemente dalla nostra consapevolezza di essa, e che dovremmo ammettere la possibilità che ogni cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi possa essere solo una creazione di sogno del nostro ego.

Tuttavia, poiché Bhagavan ci ha mostrato che non possiamo essere il corpo o persona che ora sembriamo essere (poiché sperimentiamo noi stessi anche quando non sperimentiamo né questo corpo, né questa persona), e poiché ogni altra cosa che sperimentiamo sembra esistere solo quando sembriamo essere un corpo e una persona, è ragionevole per noi credere in lui quando dice che ogni altra cosa sembra esistere solo quando questo ego (la nostra consapevolezza illusoria di noi stessi come un corpo) sembra esistere, e che ogni volta che questo ego non sembra esistere niente altro esiste. Tuttavia, per accertarci tramite l'esperienza diretta se questo è realmente il caso, egli dice che abbiamo bisogno di investigare noi stessi e quindi sperimentarci come siamo realmente.

Credere in ciò che egli ci ha insegnato (in modo particolare in versi come il 25 e il 26 di Uḷḷadu Nāṟpadu) può certamente aiutarci nella nostra auto-investigazione, ma non è un sostituto adeguato all’auto-investigazione, perché tutti i suoi insegnamenti più essenziali ci sono stati dati per convincerci che abbiamo bisogno di investigare ciò che noi stessi siamo realmente. Come egli era solito dire, non possiamo conoscere la realtà di qualsiasi altra cosa finché non conosciamo la nostra realtà, e per conoscere la nostra realtà dobbiamo investigare quello che siamo realmente.

13. Un pensiero è qualsiasi cosa fabbricata dal nostro ego o mente, così ogni cosa diversa da noi stessi è un pensiero

In un commento iniziale al mio articolo precedente, un amico di nome Amrita ha citato alcune parti dalla sezione 11 di quell’articolo e ha chiesto, ‘Per comprendere le suddette affermazioni nel loro significato completo potresti per favore fornire una descrizione più dettagliata di cos’è un pensiero’.

La parola che Bhagavan ha generalmente usato in Tamil per intendere ‘pensiero’ o ‘idea’ era நினைவு (niṉaivu), ma in alcuni versi ha qualche volta usato invece எண்ணம் (eṇṇam), e occasionalmente ha usato una parola di origine Sanscrita come சிந்தனை (cintaṉai, che è una forma Tamil di cintana) o விருத்தி (virutti, che è una forma Tamil di vṛtti). Tuttavia, qualunque parola abbia usato per intendere ‘pensiero’, ciò che voleva dire con essa era generalmente qualsiasi cosa prodotta o costruita dal nostro ego o mente, così tutti i tipi di fenomeni mentali erano inclusi in ciò che egli chiamava ‘pensiero’, e poiché secondo i suoi insegnamenti tutti i fenomeni (inclusi quelli che ci sembrano essere fisici) sono realmente mentali (perché sono creati solo dalla nostra mente e sono sperimentati all’interno di essa), egli ci ha insegnato che ogni cosa diversa dal nostro sé reale (ātma-svarūpa) è solo un pensiero.

Come ha detto spesso, il primo pensiero e la radice di tutti gli altri pensieri è solo il pensiero chiamato ‘io’, che è il nostro ego, così senza questo pensiero nessun altro pensiero può sorgere, perché ogni altro pensiero è prodotto e sperimentato solo da questo primo pensiero, ‘io’. Poiché la nostra mente non è nient’altro che una serie di pensieri, e poiché nessun pensiero potrebbe sembrare esistere se non fosse sperimentato dal nostro ego, ciò che la nostra mente è essenzialmente è solo questo ego, il nostro pensiero primario chiamato ‘io’. Altri pensieri vanno e vengono e sono costantemente in cambiamento, ma finché la nostra mente è attiva il primo pensiero chiamato ‘io’ resiste, così la nostra mente non può esistere in assenza di questo pensiero.

Il motivo per cui Bhagavan descrive il nostro ego come un pensiero è che esso non è ciò che siamo realmente, ma solo ciò che sembriamo essere, e sembriamo essere questo ego solo quando sperimentiamo noi stessi come un corpo. Quindi il nostro ego è una mescolanza confusa di pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, e consapevolezza di un corpo, così poiché ogni corpo (o la nostra consapevolezza di esso) è solo un pensiero, il nostro ego è esso stesso solo un pensiero. Cioè come una mescolanza di ciò che è reale (vale a dire la nostra pura auto-consapevolezza) e di un pensiero (vale a dire la nostra consapevolezza-corpo), il nostro ego è un pensiero.

Poiché il nostro ego è l’esperienza illusoria ‘io sono questo corpo’, non può sembrare esistere senza sperimentare sé stesso come un corpo, così appena sorge proietta un corpo e lo sperimenta come sé stesso, e allora attraverso i cinque censi di quel corpo proietta e sperimenta un mondo. Poiché questo accade sia nella veglia che nel sogno, Bhagavan ha detto che questo cosiddetto stato di veglia è solo un altro sogno. Proprio come ogni cosa che sperimentiamo in un sogno (incluso il corpo che in quel momento sperimentiamo come noi stessi, e l’apparente mondo esterno che sperimentiamo attraverso i sensi di quel corpo) è solo una costruzione mentale, e dunque solo una serie di pensieri, così ogni cosa che sperimentiamo in questo cosiddetto stato di veglia è nello stesso modo solo una costruzione mentale, e dunque solo una serie di pensieri.

Poiché il nostro ego non può sorgere o resistere senza proiettare e sperimentare altri pensieri, iniziando con qualunque corpo attualmente sperimenta come sé stesso, esso è sostenuto e nutrito sperimentando altri pensieri, e non potrebbe neppure sembrare esistere se non fosse consapevole di essi. Questo è ciò che Bhagavan intende nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, e quindi nello stesso verso dice, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’, che significa che se cerchiamo di essere consapevoli solo del nostro ego, esso sprofonderà e scomparirà, e insieme con esso anche tutti i suoi pensieri cesseranno di esistere.

Questo è l’indizio fondamentale che egli ci dà per permetterci di liberare noi stessi dall’illusione di essere questo ego. Cioè, sembriamo essere questo ego solo finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così quando cerchiamo di essere consapevoli soltanto di noi stessi, il nostro ego si dissolverà e svanirà, e ciò che in quel momento rimarrà è solo pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente.

Poiché la produzione di ogni altro pensiero e la sua sperimentazione comporta dirigere la nostra attenzione lontano da noi stessi, l’attenzione è lo strumento con cui il nostro ego produce e sperimenta i pensieri. Quindi, poiché la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) comporta il dirigere la nostra attenzione verso noi stessi, Bhagavan qualche volta l’ha descritta come ‘pensiero di sé stessi’ o ‘pensare a sé stessi’, come ho spiegato nelle prime sezioni di questo articolo.

Tuttavia, benché egli abbia descritto l’auto-attentività come ‘pensiero di sé stessi’, è un ‘pensiero’ completamente diverso da ogni altro pensiero, perché mentre altri pensieri alimentano e nutrono il nostro ego, questo pensiero di noi stessi indebolisce e dissolve il nostro ego, e insieme con esso dissolve tutti i suoi pensieri. Quindi l’auto-attentività è un ‘pensiero’ che distruggerà sia il suo genitore, vale a dire il nostro ego o pensiero primario chiamato ‘io’, sia tutti i suoi fratelli vale a dire tutti gli altri pensieri.

Questo è tutto ciò di cui abbiamo bisogno di sapere riguardo i pensieri e la loro natura. Essi sono tutti irreali, essendo solo apparenze, ma di tutti questi, il solo pensiero irreale che distruggerà tutti gli altri è solo questo ‘pensiero di sé stessi’, che è la semplice pratica di cercare di essere attentivamente auto-consapevoli.

14. Nascita e morte sono entrambi solo pensieri, come lo è ogni genere di corpo che possiamo sperimentare come noi stessi

In un altro commento, un amico di nome Tirich Mir ha scritto, ‘Noi spesso vediamo debolezze del corpo, fragilità della vecchiaia, malattie e morte del corpo. Presupponiamo che molti di noi ricercatori siamo o saremo non in grado di rinunciare a ogni cosa e a distruggere questo ego per sempre prima della morte fisica. Quindi conoscere noi stessi può includere sapere se l’ego afferrerà qualche altra forma sottile di corpo dopo aver lasciato il corpo fisico a causa di morte’, e poi ha chiesto diverse domande riguardo a cosa possiamo sperimentare dopo la morte.

Prima di rispondere alle sue domande inizierò dicendo due cose in risposta alle sue osservazioni di apertura. Prima di tutto, perché dovremmo presupporre che ‘non saremo in grado di rinunciare ad ogni cosa e di distruggere questo ego per sempre prima della morte fisica’? Se presupponiamo questo, stabiliremmo una limitazione non necessaria su noi stessi, così è meglio non presupporre niente riguardo a quando possiamo distruggere il nostro ego. Se lo vogliamo realmente, possiamo distruggerlo qui e ora, così se non lo facciamo, è solo perché non vogliamo ancora essere liberi da esso più di quanto vogliamo qualsiasi altra cosa. In altre parole, siamo ancora attaccati alla nostra vita limitata come questo ego, così non siamo ancora pronti a lasciarlo andare.

Quanto siamo vicini all’essere pronti a lasciarlo andare è qualcosa che non possiamo sapere, perché non possiamo vedere quanto profondamente i nostri attaccamenti sono ancora radicati. Ci può sembrare che i nostri attaccamenti sono ancora molto forti, e dunque resistiamo costantemente ai nostri tentativi di essere tranquillamente auto-attentivi, ma forse la nostra attuale resistenza è solo l’ultima lotta disperata del nostro ego per sopravvivere, nel qual caso possiamo alla fine arrendere noi stessi molto prima di quanto ci aspettiamo. Cercare di sapere quanto vicini o quanto lontani siamo ora dal rinunciare a ogni cosa è uno sforzo inutile, così faremmo un uso migliore del nostro tempo e del nostro sforzo vedendo chi è che ora sembra resistere così fortemente.

Il nostro amore per arrenderci completamente può ora sembrare molto debole, ma abbiamo preso rifugio in Bhagavan e nei suoi insegnamenti, così poiché egli è l’unica realtà, mentre il nostro ego è solamente un’apparizione illusoria senza esistenza sostanziale, dovremmo confidare nel suo potere di salvarci, malgrado la nostra attuale mancanza di vero amore per fonderci in lui. Ora possiamo sentire noi stessi troppo deboli per usare l’arma suprema (brahmāstra) dell’auto-attentività (chi sono io?) che egli ci ha dato, ma come Sadhu Om una volta mi ha assicurato quando ho detto questo, egli che ci ha dato quest’arma ci darà anche sicuramente la forza per usarla con efficacia. Quindi perseveriamo nel fare i nostri deboli tentativi di essere attentivamente auto-consapevoli con completa fede nella promessa che Bhagavan ci ha dato nel ventesimo paragrafo di Nāṉ Yār?, vale a dire che noi siamo ora come la preda nelle fauci di una tigre, così tutto ciò che dobbiamo fare è evitare di resistere seguendo con persistenza il sentiero dell’auto-investigazione che egli ci ha mostrato.

In secondo luogo, non è corretto dire ‘conoscere noi stessi può includere sapere se l’ego afferrerà qualche altra forma di corpo sottile dopo aver lasciato il corpo fisico a causa di morte’, perché questo ego non è ciò che siamo realmente, così sapere quali forme può assumere in futuro non ha niente a che fare con il conoscere noi stessi come siamo realmente. Per conoscere quello che siamo realmente dobbiamo investigare noi stessi e quindi scoprire che non siamo e non siamo mai stati questo ego che ora sembriamo essere.

Le prime quattro domande di Tirich Mir erano riguardo ciò che possiamo sperimentare al momento della morte fisica in poi, quale genere di corpo il nostro ego può afferrare o quale genere di pensiero può avere in quel momento, se c’è una vita come un corpo astrale, quale influenza una tale vita può avere su un futuro corpo fisico, e se c’è qualche ‘mondo dall’altro lato del fiume chiamato vita (fisica)’. Secondo Bhagavan la nostra attuale cosiddetta vita ‘fisica’ è solo un sogno, così qualunque cosa sperimentiamo dopo questo sogno sarà o un sonno temporaneo o un altro sogno, e come noi tutti sappiamo per esperienza, in un sogno possiamo sperimentare qualsiasi cosa, così potremmo sognare di essere in paradiso o all’inferno, di vagare come un fantasma o rinascere in un altro mondo molto simile a quello in cui ora sembriamo essere, o in ogni altra condizione che possiamo immaginare. Tuttavia, tutto ciò che abbiamo bisogno di conoscere riguardo ogni possibile condizione futura di questo ego è che qualunque corpo o mondo possiamo sperimentare sarà solo un sogno e non sarà più reale della condizione attuale del nostro ego.

Riguardo a corpi ‘astrali’, mentali o fisici, non c’è fra tali cose una differenza significativa, perché sebbene qualunque corpo sperimentiamo come noi stessi in un sogno è realmente solo una costruzione mentale (un pensiero o idea), mentre stiamo sognando ci sembra un corpo fisico, e lo stesso si applica al corpo che ora sperimentiamo come noi stessi. Come ho menzionato nella sezione precedente, tutti i fenomeni – inclusi quelli che ci sembrano fisici – sono realmente solo fenomeni mentali, così benché qualunque corpo stiamo attualmente sperimentando come noi stessi (in questo sogno o in qualsiasi altro) ci sembri fisico, è realmente solo un pensiero o un'idea costruita dalla nostra mente, e dunque anche se ci sperimentassimo in paradiso o all’inferno, il corpo che in quel momento sperimenteremmo come noi stessi sarebbe nello stesso modo solo una creazione mentale, come lo sarebbe anche il paradiso o l’inferno in cui ci potremmo trovare.

Riguardo alla morte, sperimenteremo noi stessi come questo corpo solo finché è vivo, così il momento in cui muore sarà come la fine di qualsiasi altro sogno. Sprofonderemo temporaneamente in uno stato come il sonno, o inizieremo immediatamente a sognare un altro sogno. Durante le ultime poche ore, minuti o secondi della vita del nostro corpo attuale possiamo lottare per mantenerlo, come si può vedere spesso accadere al capezzale di una persona morente, ma una volta che questo corpo è realmente morto, questo sogno sarà finito. In alcuni casi si può in quel momento sperimentare il genere di condizione descritta da alcune persone che hanno avuto esperienze di pre-morte, come vedere il proprio giacere nel letto e le persone attorno che piangono, ma questo sarebbe solo un altro sogno, perché si sperimenterebbe se stessi non come il corpo morto ma come un altro corpo che sta vedendo la scena.

La verità è che qualunque cosa possiamo sperimentare diversa da noi stessi, sia prima della morte, che morendo o dopo morti, è solo un sogno, così non è reale e dunque non merita di pensarci. Se siamo saggi, dovremmo cercare di dirigere tutta la nostra attenzione solo verso noi stessi, perché questo è il solo mezzo con cui saremo in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente e di distruggere l’illusione di essere questo ego.

Poiché ogni cosa diversa da noi stessi è solo un pensiero, qualunque corpo possiamo sperimentare come noi stessi è ugualmente solo un pensiero, e così anche lo sono la sua nascita e la sua morte. Né la nascita né la morte sono reali, perché sono solo l’inizio e la fine di un sogno, e ogni sogno è irreale. Ciò che è reale è solo noi stessi, così il solo tentativo veramente utile è cercare di sperimentare ciò che siamo realmente.

Nella sua quinta e sesta domanda Tirich Mir ha chiesto se Bhagavan ha mai risposto a domande come le quattro precedenti che lui aveva chiesto, o se egli sempre consigliava l’interrogante a ‘cercare solo la sorgente del pensiero-io in questo momento’. Bhagavan ha adattato le risposte che ha dato ad ogni domanda secondo i bisogni della persona che la poneva, così non sempre ha risposto alla stessa domanda nello stesso modo, ma generalmente cercava di deviare le persone dal porre domande inutili dirigendo la loro attenzione verso loro stessi, l’ego che stava ponendo quelle domande.

Come egli ha detto spesso in risposta a domande come le prime quattro poste da Tirich Mir, quando non conosciamo cosa siamo realmente in questo preciso momento, come possiamo conoscere cosa saremo nel futuro. Qualunque cosa siamo realmente non è mai mutevole, così per sapere cosa saremo realmente nel futuro, tutto quello che dobbiamo fare è scoprire cosa siamo realmente qui e ora. Qualunque cosa possiamo ora credere riguardo ciò che saremo nel futuro non può essere vera, perche ciò che ora sperimentiamo come noi stessi non è vero. Anche ora non siamo questo ego che sembriamo essere, così non saremo qualcosa che questo ego può sembrare diventare nel futuro. Quindi dovremmo rinunciare a indagare riguardo il passato o il futuro, e dovremmo invece investigare ciò che siamo realmente ora, in questo preciso momento.

15. L’auto-investigazione (ātma-vicāra) è un ‘metodo’ o solo un mezzo semplice e diretto?

In diversi commenti, iniziando da questo, un amico anonimo ha sostenuto ripetutamente che i ‘metodi’ non funzionano, e in supporto a questa affermazione discutibile non ha offerto sia qualche prova sia qualche argomento logico ma solo altre affermazioni discutibili, o che non supportavano la sua asserzione o che la contraddicevano direttamente. Quindi non penso che sia il caso di sprecare tempo nel cercare di respingere ciascuna delle sue affermazioni false, discutibili o semplicemente superficiali, ma c’è un’implicazione in ciò che ha scritto che merita di essere discussa, vale a dire l’implicazione che l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è solo uno tra molti metodi, nessuno dei quali può permetterci di sperimentare ciò che siamo realmente.

Bhagavan ci ha insegnato che l’auto-investigazione è il mezzo semplice e diretto con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, ma è corretto chiamarla un ‘metodo’? Guardare qualcosa è in definitiva il mezzo per vederla, perché se non la guardiamo non saremo in grado di vederla, ma potremmo dire che guardare è un metodo per vedere? Molti di noi direbbero di no, perché guardare è troppo semplice e anche troppo essenziale per essere chiamato un metodo per vedere. Generalmente il termine ‘metodo’ significa un mezzo artificioso o elaborato per compiere qualcosa, così un mezzo semplice, naturale e indispensabile come guardare non è considerato un metodo. Potrebbe essere parte di un metodo (proprio come, per esempio, guardare una prova può essere parte di un metodo scientifico di ricerca), ma non è in sé stesso un metodo.

Proprio come guardare è il mezzo semplice, naturale e indispensabile per vedere qualcosa, o proprio come ascoltare è il mezzo semplice, naturale e indispensabile per sentire qualcosa, essere auto-attentivi è il mezzo semplice, naturale e indispensabile per sperimentare o essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi, poiché l’auto-investigazione non comporta niente altro che essere semplicemente attentivamente auto-consapevoli, non è un metodo, anche se è il mezzo diretto per sperimentare ciò che siamo realmente e dissolvere l’illusione di essere questo ego.

Un metodo è necessario solo quando nessun mezzo semplice e diretto è disponibile o sarebbe sufficiente per compiere qualcosa, così per realizzare il nostro fine di conoscere ciò che siamo realmente, nessun metodo è richiesto, perché tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è investigare noi stessi semplicemente guardando, osservando, attendendo a o essendo attentivamente consapevoli di noi stessi. Questo è il più semplice e più diretto di tutti i mezzi, è sufficiente in sé stesso, ed è anche indispensabile, perché non possiamo conoscere ciò che siamo realmente a meno che esaminiamo o scrutiniamo noi stessi in questo modo. Quindi l’auto-investigazione è solo il mezzo semplice, diretto e ovvio per conoscere noi stessi, ma è troppo semplice e diretto per essere chiamato un metodo.

Riguardo l’efficacia dell’auto-investigazione, cioè, se essa ‘funziona’ o meno come un mezzo per realizzare il proprio fine, la semplice logica richiede che essa sia efficace. Proprio come guardare attentamente un serpente illusorio è il solo mezzo efficace per vedere che esso è realmente solo un’innocua corda, così guardare attentamente noi stessi, che ora sembriamo essere questo ego, è il solo mezzo efficace per vedere ciò che siamo realmente. Se non guardiamo attentamente il ‘serpente’ non vedremo mai realmente che è solo una corda, e ugualmente se non guardiamo attentamente noi stessi non vedremo mai realmente ciò che siamo realmente. Quindi investigare noi stessi osservandoci attentamente è logicamente il solo mezzo efficace per conoscere noi stessi come siamo realmente, e dunque è indispensabile, come Bhagavan ci ha ripetutamente spiegato.

16. Poiché Bhagavan dice che ātma-vicāra è ‘il sentiero diretto per tutti’, dovremmo essere saggi a seguirlo dall’inizio

In uno dei commenti che ha scritto al mio articolo precedente Sivanarul ha detto, ‘Io sono un fermo credente del fatto che l’oceano può essere raggiunto da vari fiumi seguendo vari sentieri, anche se gli ultimi dieci piedi è un singolo sentiero. Considero Vichara come gli ultimi 10 piedi e non il solo sentiero dall’inizio alla fine che tutti i fiumi devono seguire’. Questa è un’analogia adatta. Tutti gli altri sentieri sono come affluenti che devono prima o poi fondersi nel fiume dell’auto-investigazione (ātma-vicāra), poiché come Bhagavan ci ha insegnato, in definitiva l’auto-investigazione è il solo sentiero che può distruggere il nostro ego e quindi liberarci nell’infinito oceano della gioia che sempre esiste all’interno di noi come il nostro vero sé.

Benché almeno negli ultimi dieci piedi del nostro viaggio, per così dire, dobbiamo viaggiare lungo la via reale dell’auto-investigazione, non abbiamo bisogno di attendere quei metaforici dieci piedi finali prima di unirci a questo sentiero. Come Bhagavan era solito dire, poiché questo è il sentiero più veloce e più diretto da qualunque punto possiamo ora trovarci, se siamo davvero decisi a liberare noi stessi dal nostro ego dovremmo iniziare a cercare di praticare l’auto-investigazione dal momento in cui ci viene fatto intendere che questo è il solo mezzo con cui il nostro ego può alla fine essere distrutto. Questo è il motivo per cui egli ha terminato il verso 17 di Upadēśa Undiyār (che ho citato per esteso nella seconda sezione di questo articolo) dichiarando, ‘மார்க்கம் நேர் ஆர்க்கும் இது’ (mārggam nēr ārkkum idu), che significa ‘Questo è il sentiero diretto [giusto o appropriato] per tutti’.

In questa frase finale del verso 17, மார்க்கம் (mārggam) è una forma Tamil della parola Sanscrita मार्ग (mārga), che significa via, strada, sentiero o mezzo; நேர் (nēr) significa giusto, diretto, appropriato, adatto, opportuno o corretto; ஆர்க்கும் (ārkkum) significa letteralmente ‘per chiunque’, così esso significa ‘per ognuno’ o ‘per tutti’; e இது (idu) significa ‘questo’, riferendosi alla pratica di auto-investigazione descritta nella prima frase di questo verso. Dunque in questa frase Bhagavan afferma che questo sentiero è adatto non solo per certe persone ma per chiunque veramente desidera arrendere completamente sé stesso abbandonando l’illusione di essere questo ego o mente. Quindi nessuno di noi ha bisogno di attendere o rimandare il nostro progresso fino a che abbiamo ottenuto una maggiore purezza di mente o di maturità spirituale seguendo qualche altro sentiero prima di iniziare a cercare di praticare questo semplice sentiero di auto-investigazione, né è per noi necessario praticare qualsiasi altra cosa se stiamo sinceramente facendo ogni sforzo possibile per seguire questo sentiero.

Questo è illustrato chiaramente da ciò che Bhagavan ha detto durante il seguente evento. Una volta un gruppo di paesani vennero a lui e gli chiesero qual è la via migliore per ottenere la liberazione (mukti), ed egli ha risposto spiegando in termini semplici che tutto ciò che uno ha bisogno di fare per ottenere la liberazione è investigare chi è sé stesso, chi cerca di ottenere la liberazione. Dopo che i paesani se ne andarono egli uscì per la sua camminata abituale, al che Kavyakantha Ganapati Sastri, che era stato presente mentre parlava con loro, si rivolse al suo seguito e osservò:
Perché Bhagavan raccomanda sempre il suo sentiero di ātma-vicāra a tutti, anche a questi paesani ignoranti? Il suo sentiero può essere il migliore per alcune persone, ma è adatto solo per coloro che sono colti, così come possono dei paesani comprenderlo o praticarlo? Anche per una persona molto istruita come me è difficile seguirlo, così come può aspettarsi che tali persone non istruite siano in grado di farlo? Sicuramente sarebbe stato più utile ad essi se egli li avesse consigliati di fare una pratica semplice come japa. O se a lui non piace insegnare japa, li avrebbe potuti dirigere a me, sapendo che io avrei insegnato loro mantra-japa.
Quando Bhagavan ritornò dalla sua camminata, qualcuno gli disse ciò che Kavyakantha aveva detto in sua assenza, al che egli rispose:
Che fare? Io posso solo insegnate ciò che conosco. Non conosco niente riguardo mantra o tantra, perché non sono mai stato attratto a imparare tali cose o praticarle. Quello che so è che liberazione significa essere liberi dall’ego, e per essere liberi da esso dobbiamo conoscere chi siamo realmente, e possiamo conoscere chi siamo realmente solo investigando noi stessi. Questo è il motivo per cui consiglio a tutti quelli che chiedono come ottenere la liberazione di cercare di scoprire chi essi sono.

Questo è il sentiero più facile e più semplice, così può essere praticato da tutti, e per praticarlo non c’è bisogno di essere istruiti. Di fatto può essere più facile praticarlo per una persona non istruita che per una persona colta, perché le menti delle persone colte tendono ad essere piene di pensieri inutili e contro-argomentazioni, che li confondono e distraggono la loro attenzione lontano da sé stessi, rendendo loro più difficile rivolgere semplicemente la loro attenzione verso sé stessi.

Io so che se consigliassi a qualcuno di praticare japa o qualche altro sentiero diverso da ātma-vicāra, prima o poi dovrei dire loro che tali pratiche non sono sufficienti, perché alla fine il solo modo per distruggere il proprio ego è di investigare sé stessi e quindi di sperimentare sé stessi come si è realmente. Quindi perché dovrei raccomandare qualche sentiero sapendo che dopo dovrei dire che non è abbastanza? Se facessi questo froderei le persone. Poiché tutti devono alla fine praticare ātma-vicāra per annientare il loro ego, è meglio consigliarli di praticarla sin dall’inizio.

Non solo ātma-vicāra è sufficiente dall’inizio e necessaria alla fine, ma è anche il sentiero più semplice, facile e veloce da qualunque punto si può iniziare. Se alcune persone voglio praticare altri sentieri, che lo facciano, ma se qualcuno vuole realmente essere libero dal proprio ego, posso solo consigliarlo di praticare questo semplice e facile sentiero di auto-investigazione e di completo abbandono. Quando un aeroplano è disponibile ed è il mezzo più veloce per raggiungere la nostra destinazione, perché dovremmo consigliare qualcuno di viaggiare con un mezzo più lento come un carro tirato da un bue o un treno?
Queste non sono le parole esatte che Bhagavan ha detto, ma sono l’essenza di ciò che mi è stato riferito che egli disse in quell’occasione. Ho sentito questa storia per la prima volta da Kunju Swami, e successivamente mi fu confermata da Swami Natananandar e altri che erano presenti in quel tempo, ed è anche stata registrata più brevemente da Joan e Matthes Greenblatt a pagina 74 del loro libro Bhagavan Sri Ramana: A Pictorial Biography, che fu pubblicato da Ramanasramam nel 1981 come una delle loro pubblicazioni speciali nella commemorazione del centenario della nascita di Bhagavan. Kunju Swami riferì anche di questo evento piuttosto indirettamente nel paragrafo finale dei suoi ricordi come presentati da David Godman nella Parte Due di The Power of the Presence (2005, pag. 95-6), e nelle note a piè di pagina David ha citato la sua completa descrizione di esso come registrato in Pictorial Biography.

17. C’è una qualche differenza tra attendere a noi stessi e attendere al nostro senso di ‘io’?

Un altro amico di nome Viswanathan ha scritto un commento in cui ha citato qualcosa che David Godman ha scritto recentemente (nella sua risposta a un commento al suo video sull’auto-indagine, in cui qualcuno di nome James Austin gli ha chiesto riguardo due frasi del sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? che egli aveva citato nel suo commento al verso 389 di Guru Vācaka Kovai), vale a dire:
Benché Bhagavan definisca l’auto-indagine come ‘mantenere la mente fissata nel Sé’ in ‘Chi sono io?’, penso che questo sia un livello avanzato della pratica a cui la maggior parte delle persone aspirano piuttosto che sperimentano. Finché ciò non è possibile, l’attenzione al senso di ‘io’ e un rifiuto concomitante di tutti i pensieri che cercano di attaccarsi ad esso è la strada di ritorno al Sé prescritta da Bhagavan.
Questo implica che attendere al senso di ‘io’ è in qualche modo differente da ‘mantenere la mente fissata nel Sé’, che è un’idea che potrebbe causare confusione nelle menti di coloro che desiderano praticare ciò che Bhagavan ci ha insegnato, perché se il ‘sé’ che stiamo cercando di conoscere è qualcosa diversa dall’ ‘io’ che sta cercando di conoscerlo, ciò significherebbe che abbiamo più di un ‘io’ o sé, che non è ovviamente il caso. Quindi per chiarire quello che è realmente la pratica di ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine) e per rimuovere ogni confusione che potrebbe sorgere da questa affermazione di David, consideriamo attentamente il significato delle parole che egli ha usato qui per cercare di comprendere se c’è realmente qualche differenza tra attendere al nostro sé e attendere al nostro senso di ‘io’.

La frase nel sedicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (Chi sono io?) a cui David si è riferito quando ha scritto che Bhagavan definisce l’auto-indagine come ‘mantenere la mente fissata nel Sé’ è quella che ho citato e discusso nella prima sezione del mio articolo precedente, dove ho spiegato che le parole ‘மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பது’ (maṉattai ātmāvil vaittiruppadu) usate da Bhagavan in quella frase significano letteralmente ‘mettere [porre, mantenere o fissare] la mente in [o su] se stessi (ātmā)’, che è un modo idiomatico di dire attendere a se stessi, così ciò che egli intendeva chiaramente in quella frase è che il termine ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine) significa solo la semplice pratica di mantenere la nostra attenzione fermamente fissata su noi stessi.

Benché la parola ஆத்மா (ātmā), che è una forma Tamil della parola Sanscrita आत्मन् (ātman), sia usata spesso per riferirsi in modo specifico al nostro sé reale (che in Inglese è riferito spesso come ‘il Sé’, nel significato di noi stessi come siamo realmente), è realmente solo un pronome generico, il significato basilare del quale è ‘se stessi’, e che secondo il contesto può significare quindi me stesso, tu stesso, lei stessa, lui stesso, o esso stesso. In questo contesto possiamo prenderlo nel significato del nostro sé reale o di noi stessi in generale, senza fare alcuna distinzione tra il nostro sé reale e il nostro ego, perché ciò che sembra essere questo ego è solo il nostro sé reale, così quando sembriamo attendere al nostro ego ciò a cui stiamo realmente attendendo è il nostro sé reale, proprio come nel caso di un serpente illusorio, quando sembriamo guardare un serpente ciò che stiamo realmente guardando è solo una corda. Quindi in pratica non fa differenza se interpretiamo ஆத்மா (ātmā) in quella frase nel significato del nostro sé reale o di noi stessi in generale, perché in entrambi i casi ciò che Bhagavan intende chiaramente è che il termine ātma-vicāra si riferisce solo alla pratica di essere auto-attentivi.

Cosa intende allora David con attendere al senso di ‘io’? In questo contesto ‘senso’ significa presumibilmente consapevolezza, e ‘io’ è ovviamente un pronome che si riferisce a noi stessi, così il senso di ‘io’ deve semplicemente significare la nostra consapevolezza di noi stessi. Poiché l’auto-consapevolezza è la nostra vera natura, attendere alla nostra auto-consapevolezza ha esattamente lo stesso significato di attendere a noi stessi. Quindi è difficile vedere quale differenza ci possa essere tra attendere al senso di ‘io’ e mantenere la propria mente fissata su sé stessi. Questi sono semplicemente due modi differenti di descrivere la semplice pratica di essere auto-attentivi.

Quando in questo contesto David ha usato il termine ‘il senso di io’ può aver inteso specificatamente il nostro ego, ma poiché il nostro ego è solamente ciò che ora sembriamo essere, quando attendiamo al nostro ego stiamo attendendo a noi stessi (come ho spiegato in maggiore dettaglio in un articolo precedente, Dando attenzione al nostro ego stiamo dando attenzione a noi stessi ), e se attendiamo a noi stessi (questo ego o senso di ‘io’) in modo sufficientemente intenso, scopriremo che ciò che siamo realmente è solo il nostro sé reale, che non è questo ego limitato ma solo l’unico spazio infinito di pura auto-consapevolezza. Proprio come un serpente illusorio e la corda che sembra essere quel serpente non sono due cose differenti, questo ego illusorio e il nostro sé reale non sono due cose differenti, perché il nostro ego è solamente ciò che il nostro sé reale sembra essere (nella visione di questo ego).

Questo è il motivo per cui in quella frase di Nāṉ Yār? Bhagavan ha detto:
சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்.

sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṟku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar.

Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a [la pratica di] mantenere la mente [la propria attenzione] sempre su sé stessi.
In questa frase தான் (tāṉ) è usato come un suffisso intensificativo, che può significare ‘sé stesso’, ‘solo’ o ‘definitivamente’, ma che in questo contesto significa chiaramente ‘solo’, così la chiara implicazione di questa frase è che il termine ‘ātma-vicāra’ non significa nient’altro che ‘மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பது’ (maṉattai ātmāvil vaittiruppadu), ‘mantenere la mente su sé stessi’ o ‘mantenere la mente fissata nel Sé’. In altre parole, ciò che Bhagavan afferma qui è che ātma-vicāra è solo la semplice pratica di essere auto-attentivi. Quindi mantenere la propria mente o attenzione fissata su sé stessi (o almeno cercare di farlo) non è solamente ‘un livello avanzato della pratica’ (come ha scritto David) ma è la sola pratica dall’inizio alla fine.

Poiché mantenere la propria mente su sé stessi significa essere auto-attentivi, non è in alcun modo differente dalla pratica di attendere al proprio senso di ‘io’, così David ha ragione nel dire che ‘attenzione al senso di ‘io’ e un rifiuto concomitante di tutti i pensieri che cercano di attaccarsi ad esso è la strada di ritorno al Sé prescritta da Bhagavan’. Il suo solo malinteso è pensare che questo è in qualche modo differente da ciò che Bhagavan ha descritto come ‘மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பது’ (maṉattai ātmāvil vaittiruppadu), che significa ‘mantenere la mente su sé stessi’ o ‘mantenere la mente fissata nel Sé’.

La frase ‘mantenere la mente fissata nel Sé’ può essere interpretata come qualcosa diversa da attendere semplicemente al proprio senso di ‘io’ solo se si prende il termine ‘il Sé’ nel significato di qualcosa diversa da sé stessi. Ma come potrebbe ‘il Sé’ riferirsi a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, poiché ovviamente non abbiamo più di un sé? In questo contesto il termine ‘sé’ o ‘il Sé’ deve riferirsi solo a noi stessi, perché non ci può essere alcun sé tranne che di chiunque esso è il sé. Io e me stesso non siamo due cose differenti, proprio come un tavolo e sé stesso non sono due cose differenti, perche niente può essere mai differente da sé stesso. Quindi non abbiamo ‘sé’ o ‘Sé’ diverso da noi stessi, così ‘mantenere la mente fissata nel Sé’ può solo significare mantenere la propria mente su sé stessi.

Tuttavia, nelle scritture Tamil e Sanscrite non ci sono lettere maiuscole, né in tali linguaggi c’è un equivalente dell’articolo Inglese ‘il’, perciò la parola ஆத்மா (ātmā) usata da Bhagavan in questo contesto significa semplicemente ‘sé’ o ‘se stessi’, così non fa distinzione tra sé stessi e ‘il Sé’. Quindi ‘mantenere la mente su ātmā’ significa semplicemente mantenere la propria attenzione su sé stessi o essere auto-attentivi, così ha esattamente lo stesso significato di attendere al proprio senso di ‘io’, perché il proprio senso di ‘io’ è semplicemente la propria consapevolezza di sé stessi. Poiché l’auto-consapevolezza è la nostra vera natura, non c’è differenza tra noi stessi e la nostra consapevolezza di noi stessi, così attendere alla nostra consapevolezza di noi stessi è lo stesso di attendere a noi stessi.

Bhagavan ha usato molti termini differenti per descrivere la pratica di ātma-vicāra, ma qualunque termine abbia usato il significato era semplicemente essere auto-attentivi. Per esempio, in Nāṉ Yār? ha usato termini come ஆன்மசிந்தனை (āṉma-cintaṉai o ātma-cintana) o ‘pensiero di sé stessi’, நானார் என்னும் நினைவு (nāṉ-ār eṉṉum niṉaivu) o ‘il pensiero chiamato chi sono io’, சொரூபத்யானம் (sorūpa-dhyāṉam o svarūpa-dhyāna) o ‘meditazione su sé stessi’, e சொரூபஸ்மரணை (sorūpa-smaraṇai o svarūpa-smaraṇa) o ‘auto-ricordo’, ma tutti questi termini significano solo essere auto-attentivi. Ugualmente, quando egli ha descritto ātma-vicāra come guardare sé stessi, rivolgersi verso sé stessi, essere di fronte a sé stessi, investigare l’ego, investigare da dove esso sorge, o investigare la sua sorgente,il luogo di nascita o luogo di ascesa, erano tutti solo modi alternativi di descrivere quest’unica e semplice pratica di scrutinare sé stessi essendo intensamente auto-attentivi. Quindi ha riassunto con cura il significato essenziale di tutte queste varie descrizioni scrivendo in questa frase: சதாகாலமும் மனத்தை ஆத்மாவில் வைத்திருப்பதற்குத் தான் ‘ஆத்மவிசார’ மென்று பெயர்’ (sadā-kālam-um maṉattai ātmāvil vaittiruppadaṟku-t tāṉ ‘ātma-vicāram’ eṉḏṟu peyar), che significa ‘Il nome ‘ātma-vicāra’ [si riferisce] solo a mantenere la mente sempre su se stessi’.

Nel commento a cui mi sono riferito all’inizio di questa sezione, dopo aver citato ciò che David aveva scritto riguardo questa frase, Viswanathan ha allora citato un’altra frase che David gli aveva scritto quando gli chiese riguardo ad essa, vale a dire ‘Il Sé è ciò che rimane quando chi dirige l’attenzione scompare’. Questo è esatto, perché chi dirige l’attenzione è solo il nostro ego, e quando questo ego dirige la sua intera attenzione verso sé stesso invece che verso qualsiasi altra cosa, sprofonderà e comparirà, e ciò che allora rimarrà sarà ciò che siamo realmente.

Una parola importante in questa frase è il verso ‘rimane’, perché quando qualcosa è detta rimanere, questo implica che era già presente. Non è qualcosa di cui non siamo già consapevoli, ma è solo noi stessi, la sola cosa di cui siamo sempre consapevoli. Tuttavia, poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi, ora confondiamo noi stessi come questo ego, che non è ciò che siamo realmente ma solo ciò che sembriamo essere ogni volta che attendiamo a qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi quando attendiamo solo a noi stessi, questo ego illusorio scompare, e ciò che rimane è ciò che siamo essenzialmente, che è solo pura auto-consapevolezza.

Quindi, benché David abbia scritto che ‘attenzione al senso di ‘io’ e un rifiuto concomitante di tutti i pensieri che cercano di attaccarsi ad esso è la strada di ritorno al Sé prescritta da Bhagavan’, egli stava presumibilmente usando il termine ‘strada di ritorno al Sé’ in un senso metaforico piuttosto che in un senso letterale, perché ‘il Sé’ è ciò che siamo sempre, così non è qualcosa a cui letteralmente abbiamo bisogno di tornare o che abbiamo bisogno di raggiungere. Ciò che si intende con ritornare a noi stessi o raggiungere noi stessi è semplicemente rimanere come siamo realmente invece di sorgere come questo ego.

Come Bhagavan ha ripetutamente enfatizzato, il solo mezzo con cui possiamo rimanere come siamo realmente è cercare di essere auto-attentivi, perché finché attendiamo a qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, che ha origine, resiste e prospera solo attendendo a o ‘afferrando’ qualsiasi cosa diversa da noi stessi (come egli ci ha insegnato nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu). Poiché attendere a qualsiasi cosa diversa da noi stessi sostiene la nostra illusione fondamentale di essere questo ego, possiamo liberarci da esso e quindi rimanere come siamo realmente solo attendendo esclusivamente a noi stessi.

Questo è il motivo per cui Bhagavan qualche volta ha descritto questa pratica di essere auto-attentivi come சும்மா விருப்பது (summā-v-iruppadu), che significa ‘solo essere’, ‘essere silenziosamente’, ‘essere senza attività’ o ‘essere immobili’. Così finché attendiamo a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, il nostro ego e la nostra mente sono attivi, ma quando cerchiamo di attendere solo a noi stessi, essi sprofondano e divengono inattivi, così essere auto-attentivi è il solo mezzo con cui possiamo semplicemente essere quello che siamo, che è eternamente immobile (acala) e dunque inattiva auto-consapevolezza (come significa il termine acala nel nome aruṇācala o ‘Arunachala’).

Quindi benché, in un brano tratto da un’intervista con David che Viswanathan ha citato in un commento successivo, David abbia detto che ‘summa iru’ (‘sii quieto’ o ‘sii immobile’) era il ‘consiglio primario’ di Bhagavan, ma che ‘egli sapeva che la maggioranza delle persone non potrebbero naturalmente stare quieti. Se queste persone chiedevano un metodo, una tecnica, egli spesso raccomandava una pratica conosciuta come auto-indagine’, e benché alcune persone possano confondere che questo significhi che che essere quieti (summā iruppadu) e l’auto-indagine (ātma-vicāra) sono due pratiche distinte (come un altro amico di nome Steve ha sottolineato in un commento che questo sembra intendere), io presumo che questo non sia ciò che David intendeva, perché secondo Bhagavan ātma-vicāra è la pratica di essere auto-attentivi, che è il solo mezzo con cui possiamo sprofondare nel nostro stato naturale di solo essere, che è ciò che è indicato con il termine ‘summā iruppadu’.

18. L’analisi è di qualche utilità o attinenza all’auto-investigazione?

Verso la fine dello stesso commento a cui mi sono riferito all’inizio della sezione precedente Viswanathan ha scritto che quando ha chiesto a David alcune domande ulteriori riguardo la pratica di auto-investigazione, David ha risposto ‘Troppe parole e troppa cavillosità. L’auto-indagine non è qualcosa che analizzi in questo modo. È qualcosa che fai per mantenere la mente lontano da attività prive di senso come queste’.

Ovviamente la maggior parte delle analisi che le persone fanno è riguardo a cose diverse da noi stessi e il mezzo con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente, così tali analisi distrarrebbero la nostra mente dall’impegno necessario di investigare noi stessi, e dunque impegnarsi in esse sarebbe ‘attività senza senso’ per coloro di noi che vogliono sperimentare noi stessi come siamo realmente. Anche l’analisi di noi stessi e la pratica di auto-investigazione può essere una distrazione se non è fatta in modo appropriato, perché un’analisi confusa o fuorviata può condurre a ulteriore confusione. Quindi quando analizziamo questa pratica o ogni altro aspetto dell’insegnamento di Bhagavan, dovremmo stare attenti ad essere guidati dalle sue parole e dovremmo cercare di evitare di fraintenderle.

Tuttavia, non tutta l’analisi è dannosa, e se fatta nel modo giusto e per il giusto scopo può essere benefica, perché il fine dell’analisi è (o almeno dovrebbe essere) semplificare e chiarire la propria comprensione e quindi liberare dalla confusione e dal malinteso. Ciascuno di noi è giunto a Bhagavan perché siamo confusi riguardo ciò che siamo realmente. La nostra confusione è più di una semplice confusione intellettuale o concettuale, perché è una confusione esperienziale profondamente radicata, poiché ciò che sperimentiamo come noi stessi non è ciò che siamo realmente. Quindi per aiutarci a rimuovere la nostra confusione Bhagavan inizia insegnandoci che non siamo ciò che ora sembriamo essere, e spiega questo insegnandoci ad analizzare la nostra esperienza di noi stessi in ciascuno dei tre stati di veglia, sogno e sonno.

Questa analisi della nostra esperienza di noi stessi in questi tre stati è il fondamento concettuale dei suoi insegnamenti. Poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi, non possiamo essere qualcosa di cui non siamo sempre consapevoli, così poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi come un corpo nella veglia, come un altro corpo nel sogno e come nessun corpo nel sonno, non possiamo essere alcun corpo che sperimentiamo temporaneamente come noi stessi. Nello stesso modo, poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi come un ego o mente limitata nella veglia e nel sogno ma non nel sonno, questo ego o mente non può essere ciò che siamo realmente. Quindi Bhagavan ci consiglia di investigare noi stessi per sperimentarci come siamo realmente.

Benché egli ci ha insegnato che la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) è essere semplicemente auto-attentivi, e benché non ci potrebbe essere qualcosa di più semplice che essere attentivamente auto-consapevoli, la nostra mente è abituata ad occuparsi della complessità, la desidera ardentemente e si nutre di essa, perché non può sopravvivere senza sperimentare cose diverse da sé stessa, cosa che conduce inevitabilmente alla complessità. Quindi benché la pratica di ātma-vicāra sia estremamente semplice, la nostra mente è complessa, e poiché la vera semplicità di ātma-vicāra minaccia l’esistenza apparente della nostra mente, essa tende a farla sembrare molto più complicata di quanto lo sia realmente.

Per molte persone l’idea di cercare di essere auto-attentivi sembra completamente sconcertante, così chiedono come attendere a sé stessi e cos’è il ‘sé’ o ‘io’ a cui si dovrebbe attendere. Altre persone si confondono anche con le parole molto semplici che Bhagavan usa per spiegare questa pratica, così chiedono se l’‘io’ a cui dovrebbero attendere è l’ego o il Sé, come se ci fosse più di un ‘io’ o ‘sé’ a cui dovrebbero attendere. Un’altra comune confusione è che quando Bhagavan ci consiglia di investigare chi sono io o investigare a chi accadono i pensieri, molte persone confondono ‘investigare’ con ‘indagare’ nel senso di porre una domanda, così essi presuppongono che egli intendesse che dovremmo chiederci costantemente ‘chi sono io?’ o dovremmo attendere il prossimo pensiero che sorge per porre la domanda ‘a chi viene questo pensiero?’.

Anche quando è spiegato che indagare o investigare chi sono io significa semplicemente osservare se stessi o essere auto-attentivi, è difficile per molti credere che possa essere così semplice, così iniziano ad immaginare che ci sono stadi differenti di questa pratica, e che benché l’'io’ a cui stanno ora cercando di attendere o che stanno ora cercando di osservare è solo il loro ego, ad uno stadio avanzato scopriranno qualcosa chiamato sphurana o sperimenteranno uno stato nuovo e meraviglioso chiamato nirvikalpa samādhi.

In questi e in così molti altri modi le persone si confondono riguardo la più semplice delle pratiche, così per rimuove tale confusione e per prevenire il sorgere di ulteriore confusione, è necessario per molti di noi riflettere ripetutamente su ciò che Bhagavan ci ha insegnato e analizzare attentamente le sue parole per essere sicuri di non averle fraintese o di non essere riusciti a comprendere il loro pieno significato. Tale riflessione ed analisi, che è ciò che è chiamata manana, non è ovviamente un sostituto per la pratica reale, ma è nondimeno necessaria per impedirci di fraintendere i suoi insegnamenti e per essere sicuri che li stiamo praticando correttamente.

Quando leggiamo per la prima volta i suoi insegnamenti, la nostra comprensione di essi è relativamente superficiale, ma come andiamo più in profondità nel praticarli, siamo in grado di vedere una nuova profondità di significati nelle sue semplici parole, così finché il nostro ego è stato completamente annientato, non dovremmo immaginare di aver compreso perfettamente i suoi insegnamenti e che quindi non abbiamo più alcun bisogno di leggerli o di riflettere su di essi. Ogni volta che la nostra mente non è profondamente intenta ad essere auto-attentiva, dovremmo leggere o riflettere sui suoi insegnamenti, perché essi ci ricordano costantemente la necessità di essere auto-attentivi e ci incoraggiamo in così tanti modi, inoltre ci forniscono indizi sottili per aiutarci a praticare più efficacemente.

Naturalmente dovremmo evitare di occuparci in cavillosità riguardo qualsiasi soggetto non necessario o irrilevante, ma se fatta correttamente, la ‘cavillosità’ nel senso di fare distinzioni sottili riguardo la pratica di auto-investigazione è necessaria, perché l’auto-investigazione comporta il fare la distinzione più sottile di tutte, poiché comporta la spaccatura dell’ego, che è più fine e più sottile anche del capello più sottile, e possiamo spaccarlo solo distinguendo la nostra pura auto-consapevolezza da tutte le aggiunte con cui ora la stiamo confondendo. Se non siamo in grado di afferrare correttamente a un livello concettuale ciò che abbiamo bisogno di distinguere mentre pratichiamo ātma-vicāra, non saremo in grado di distinguerlo in pratica. Quindi avere una comprensione sottile e finemente sfumata della pratica è necessaria, e una tale comprensione viene dalla pratica persistente supportata da attenta riflessione e analisi delle parole di Bhagavan riguardo questa pratica.

Le parole di Bhagavan, particolarmente come da lui scritte nelle sue opere originali, hanno un tremendo potere di trasmettere chiarezza, così leggerle e pensare attentamente ad esse, profondamente e ripetutamente, può aiutarci grandemente nel nostro tentativo di praticare auto-investigazione e auto-abbandono correttamente e persistentemente. Quindi non dovremmo sminuire qualsiasi tentativo dei nostri amici aspiranti di analizzare e cercare di comprendere ciò che egli ci ha insegnato, né dovremmo scoraggiarli dal farlo. Naturalmente se qualcuno di essi ci pone qualche domanda o ci parla riguardo i suoi insegnamenti in modo da mostrare che li sta analizzando scorrettamente o si è formato una comprensione confusa di essi, dovremmo gentilmente indicargli dove e perché pensiamo che si sta sbagliando, ma non dovremmo scoraggiarlo da cercare di comprenderli correttamente.

Il punto importante da tenere in mente è che gli insegnamenti di Bhagavan e la pratica che ha raccomandato sono estremamente semplici, sebbene anche molto sottili ed astratti, così per comprenderli e praticarli correttamente la nostra comprensione di essi deve essere ugualmente semplice e sottile. Quindi quando analizziamo ciò che ci ha insegnato riguardo la pratica di auto-investigazione e auto-abbandono il nostro fine dovrebbe essere quello di semplificare e quindi chiarire la nostra comprensione di essi. Se la nostra analisi conduce a qualche complicazione o confusione, questo è un segno che li stiamo analizzando e comprendendo non correttamente, mentre se la nostra analisi conduce alla semplicità e alla chiarezza, questo è un segno che li stiamo analizzando e comprendendo correttamente.

19. Gli insegnamenti di Bhagavan e l’ātma-vicāra sono il più affilato di tutti i rasoi, paragonabili al rasoio di Ockhman nel loro scopo ed effetto

Nel commento di Venkat che ho discusso nella nona sezione ha scritto, ‘Quello di Bhagavan è il ‘metodo’ più elegante, facendo avverare il rasoio di Occam, senza aggiungere alcun ricamo o ulteriori concetti’. Questo è corretto, perché la pratica di auto-investigazione e gli insegnamenti di Bhagavan in generale si conformano perfettamente con il principio della parsimonia, popolarmente conosciuto come il rasoio di Ockham (o di Occam), che è il principio secondo cui la pluralità o complessità dovrebbe essere mantenuto ad un minimo assoluto, o che nessuna complessità dovrebbe essere accettata se non assolutamente necessaria. Poiché la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) non comporta altro che essere auto-attentivi o attentivamente auto-consapevoli, e poiché l’auto-consapevolezza è la nostra vera natura (cioè, ciò che essenzialmente siamo), questa pratica comporta solo una entità, vale a dire noi stessi essendo consapevoli di noi stessi, e dunque è il più semplice o più parsimonioso stato possibile.

Il principio della parsimonia è chiamato rasoio di Ockham perché William di Ockham (un monaco e filosofo del quattordicesimo secolo) lo usava frequentemente ed efficacemente per tagliare tutte le inutili complessità e perciò per mantenere più semplici possibile le teorie filosofiche, teologiche e scientifiche. Non solo le basi filosofiche degli insegnamenti di Bhagavan ugualmente tagliano tutta l’inutile complessità (che esiste in abbondanza in molte delle descrizioni della filosofia advaita e vēdānta), mantenendo quindi le sue spiegazioni più semplici possibile, ma la reale pratica di auto-investigazione che egli ha insegnato taglia anche la nostra consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi dovremmo usare il rasoio affilato dei suoi insegnamenti per tagliare tutte le inutili idee complesse e la risultante confusione per arrivare a una comprensione semplice e chiara, e dovremmo usare il sempre più affilato e più letale rasoio dell'auto-investigazione per tagliare la nostra consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Il primo richiede un’analisi attenta per determinare quali idee sono necessarie e la sintesi per connettere insieme queste ide necessarie in una comprensione coerente eppure semplice, mentre il secondo richiede intensa discriminazione (vivēka) per distinguere e isolare noi stessi da ogni altra cosa.

20. ātma-vicāra è una pratica esclusiva o inclusiva?

In uno dei suoi commenti più recenti Sivanarul si è appellato a me ‘ti prego di cercare di ridurre l’”apparenza” di disapprovare altre Sadhana’ e si è riferito ad alcuni dei suoi primi commenti, in uno dei quali ha scritto, ‘E’ mia onesta convinzione, che gli aspiranti serviranno meglio loro stessi e Bhagavan, se sono più inclusivi di tutti i sentieri, proprio come lo era Bhagavan’, e in un altro in cui ha spiegato ciò che intende con modo esclusivo di promuovere ātma-vicāra e con modo inclusivo di promuoverla, prima di scrivere alla fine: ‘Molti di noi sono realmente allontanati dalla promozione esclusiva e saremmo grandemente beneficiati se l’”apparenza” diviene più inclusiva. Ci deve essere un modo con cui l’importanza di Vichara può essere messa in evidenza senza sembrare di disapprovare altre Sadhana’.

Prima di rispondere al suo appello direttamente, mi piacerebbe prima di tutto dire che c’è un senso in cui ātma-vicāra è onni-esclusiva e un altro senso in cui è onni-inclusiva. È onni-esclusiva nel senso che comporta il cercare di focalizzare la propria intera attenzione soltanto su sé stessi, escludendo quindi ogni altra cosa dalla propria consapevolezza. La ragione per cui è necessario escludere ogni altra cosa dalla nostra consapevolezza è che ciò che è consapevole di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo il nostro ego, così finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente ma solo come questo ego, che è ciò che sembriamo essere e non ciò che siamo realmente, e dunque per sperimentare noi stessi come siamo realmente non dobbiamo essere consapevoli che di noi stessi.

Questo è il motivo per cui lo stato di liberazione (mukti, mōkṣa o nirvāṇa) è spesso chiamato kaivalya, che significa isolamento o solitudine. Poiché l’isolamento o solitudine perfetta comporta l’escludere ogni cosa diversa da noi stessi, la liberazione è uno stato onni-esclusivo in cui soltanto se stessi esiste, e poiché il nostro fine esclude qualsiasi cosa diversa da noi stessi, il mezzo per ottenerlo deve anche escludere qualsiasi cosa diversa da noi stessi. In altre parole, l’isolamento esclusivo o kaivalya non è solo il nostro fine ma anche il solo mezzo con cui in definitiva possiamo sperimentarlo.

Tuttavia ātma-vicāra è anche onni-inclusiva nel senso che può essere praticata da chiunque, qualunque sia la sua religione o se creda in qualche religione o meno, perché chiunque è auto-consapevole, così investigare o attendere alla propria auto-consapevolezza per osservare se si è ciò che si sembra essere non è in conflitto con alcuna religione, filosofia o scienza. È anche onni-inclusiva nel senso che si può praticarla in ogni momento e in ogni circostanza, perché non richiede alcuna restrizione o osservanza esteriore, e nel senso che si può praticarla sia come propria unica pratica spirituale sia a fianco di qualche altra pratica spirituale di proprio gradimento.

E’ particolarmente compatibile con ogni pratica devozionale, ed è specialmente adatta per devoti che credono che Dio o il guru sia essenzialmente il proprio vero sé ed è quindi più intimamente e immediatamente presente ed accessibile come se stessi, che è una convinzione che deve essere logicamente sostenuta da chiunque creda realmente che Dio è infinito, perché se egli è l’infinito niente può essere diverso da lui, perché se fossimo diversi da lui, sarebbe di conseguenza limitato e quindi non infinito. Perciò per ogni devoto che crede fermamente che solo Dio è reale e che come un’entità apparentemente separata (questo ego) siamo nulla, dovrebbe essere ovvio che il bisogno più imperativo e pressante è quello di guardare dentro sé stessi per vedere al di là dell’illusione del proprio sé separato e quindi riconoscere sperimentalmente che ciò che esiste realmente all’interno di sé stessi come il proprio sé reale è solo Dio.

Questo è il motivo per cui Bhagavan ha terminato la sua discussione dell’efficacia relativa di ciascuno dei vari tipi di pratica devozionale come pūja (adorazione fisica o corporea di Dio) nei versi 4 e 8 di Upadēśa Undiyār dicendo nel verso 8 che piuttosto che அனியபாவம் (aṉiya-bhāvam or anya-bhāva), che significa ‘meditazione su ciò che è altro’ e che in questo contesto implica meditazione su Dio o devozione a lui come se fosse qualcosa diversa da se stessi, அனனியபாவம் (aṉaṉiya-bhāvam or ananya-bhāva), che significa ‘meditazione su ciò che non è altro’ e che in questo contesto significa meditazione su Dio come nient’altro che se stessi, è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), che significa ‘la migliore di tutte’ o ‘la migliore fra tutte’ e che in questo contesto significa la migliore, la più importante, la più elevata, la più grande o più eccellente tra tutte le pratica di devozione (bhakti) e tutte le forme o varietà di meditazione.

Se comprendiamo il pieno significato del principio che Dio non è diverso da noi stessi, che è uno dei principi fondamentali sia della filosofia advaita che degli insegnamenti di Bhagavan, ananya-bhāva o meditazione su Dio come non diverso da se stessi significa non solamente meditare sul pensiero ‘io sono Dio’ (saha, śivōham o ahaṁ brahmāsmi), perché un tale pensiero è qualcosa diversa da noi stessi, ma significa solo meditare soltanto su se stessi, così è solo un modo alternativo di descrivere la pratica di ātma-vicāra. Quindi nel verso 8 di Upadēśa Undiyār Bhagavan intende chiaramente che ātma-vicāra è la migliore fra tutte le pratiche di devozione (bhakti).

Dicendo questo, egli non intende ‘disapprovare’ altre pratiche (come Sivanarul e un altro amico anonimo sembrano pensare quando qualcuno cerca di spiegare perché egli ci ha insegnato che ātma-vicāra è una pratica così speciale ed efficace), ma intendeva solo insegnarci l’efficacia relativa di ogni genere di pratica e quindi di mostrarle tutte in una chiara prospettiva. Egli non ha mai denigrato o ha inteso denigrare ogni pratica devozionale o ogni altra pratica che è stata compiuta per amore di Dio o per ottenere la liberazione, ma per coloro di noi che vogliono conoscere qual'è la migliore o più efficace pratica devozionale o mezzo per liberare noi stessi dal nostro ego, non ha mai esitato a spiegare perché ātma-vicāra è அனைத்தினும் உத்தமம் (aṉaittiṉum uttamam), la migliore fra tutte.

Egli ci ha anche insegnato attraverso i versi di Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam e attraverso l’esempio della sua devozione ad Arunachala e dei molti suoi insegnamenti orali che le pratiche di devozione dualistica non sono incompatibili con la pratica di ātma-vicāra, ma sono di fatto complementari ad essa, così, se scegliamo, possiamo combinare altre pratiche devozionali con essa. La ragione per questo è che molti di noi non hanno ancora sufficiente bhakti per mantenere sempre la nostra attenzione immersa solo in noi stessi, così per la maggior parte del tempo la nostra attenzione scorre verso altre cose, e dunque ogni volta che non stiamo cercando di essere esclusivamente auto-attentivi possiamo invece pregare Bhagavan di darci più amore di essere auto-attentivi o fare qualche altra pratica devozione che può attrarci in quel momento, come aruṇācala-pradakṣiṇa (camminare in modo reverenziale attorno ad Arunachala). Una tale miscela di apparente devozione dualistica e amore di essere auto-attentivi è meravigliosamente espressa in molti versi di Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam e anche in numerosi versi toccanti cantati da devoti come Sri Muruganar e Sri Sadhu Om, che furono entrambi fedeli e intransigenti avvocati dell’efficacia unica di ātma-vicāra.

Un altro senso in cui ātma-vicāra è onni-inclusiva è espressa da Bhagavan nel verso 10 di Upadēśa Undiyār e nel verso 14 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham. Dopo aver detto nel verso 8 di Upadēśa Undiyār che ananya-bhāva o auto-attentività è la migliore fra tutte le pratiche, nel verso 9 dice che con பாவ பலம் (bhāva-balam), la forza di bhāva (nel significato di forza, potere, intensità o fermezza di ananya-bhāva o auto-attentività), essere in sat-bhāva (lo ‘stato di essere’ o ‘essere reale’), che trascende bhāvana (pensare, pensiero, immaginazione o meditazione) è பரபத்தி தத்துவம் (parabhatti-tattuvam or parabhakti-tattva), la reale essenza o vero stato di suprema devozione, e poi nel verso 10 dice:
உதித்த விடத்தி லொடுங்கி யிருத்த
லதுகன்மம் பத்தியு முந்தீபற
வதுயோக ஞானமு முந்தீபற.

uditta viḍatti loḍuṅgi irutta
ladukaṉmam bhattiyu mundīpaṟa
vaduyōga jñāṉamu mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உதித்த இடத்தில் ஒடுங்கி இருத்தல்: அது கன்மம் பத்தியும்; அது யோகம் ஞானமும்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uditta iḍattil oḍuṅgi iruttal: adu kaṉmam bhatti-y-um; adu yōgam jñāṉam-um.

Traduzione: Sprofondare ed essere nel luogo da cui si è sorti: quello è karma e bhakti; quello è yōga e jñāna.
Ciò che Bhagavan descrive qui come ‘உதித்த இடத்தில் ஒடுங்கி இருத்தல்’ (uditta iḍattil oḍuṅgi iruttal), che significa ‘sprofondare ed essere nel luogo da cui si è sorti’ o ‘essere essendo sprofondati nel luogo da cui si è sorti’, è lo stesso stato di solo essere che egli ha descritto nel verso precedente come ‘பாவனாதீத சத் பாவத்து இருத்தலே’ (bhāvaṉātīta sat-bhāvattu iruttalē), che significa ‘solo essere in sat-bhāva [il proprio stato reale di essere], che trascende bhāvana [pensiero o meditazione]’, così nel contesto dei versi 8 e 10 ciò che egli intende in questo verso con ‘உதித்த இடத்தில் ஒடுங்கி இருத்தல்’ (uditta iḍattil oḍuṅgi iruttal) è rimanere in (e come) se stessi, la sorgente da cui si è sorti, essendo sprofondati lì per l’intensità o la fermezza della propria ananya-bhāva o auto-attentività. Quindi ciò che intende in questo verso è che sprofondare e dimorare in sé stessi per mezzo di auto-attentività intensamente focalizzata equivale a praticare perfettamente tutti i quattro tipi di pratica spirituale, vale a dire karma (niṣkāmya karma azione senza desiderio), bhakti (amore o devozione), yōga (una serie di pratiche che includono il prāṇāyāma e vari tipi di meditazione) e jñāna (conoscenza, che comporta l’auto-investigazione).

Cioè, poiché il fine ultimo di ciascuno di questi quattro tipi di pratica spirituale è la rimozione del proprio ego, e poiché questo ego può essere completamente ed effettivamente rimosso solo per mezzo di ātma-vicāra, praticare ātma-vicāra e fondersi nel proprio sé reale, che è la sorgente da cui si è sorti come questo ego, è il culmine e la vetta di karma, bhakti, yōga e jñāna. Ugualmente nel verso 14 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham egli intendeva più o meno la stessa cosa:
வினையும் விபத்தி வியோகமஞ் ஞான
மினையவையார்க் கென்றாய்ந் திடலே — வினைபத்தி
யோகமுணர் வாய்ந்திடநா னின்றியவை யென்றுமிறா
னாகமன லேயுண்மை யாம்.

viṉaiyum vibhatti viyōgamañ ñāṉa
miṉaiyavaiyārk keṉḏṟāyn diḍalē — viṉaibhatti
yōgamuṇar vāyndiḍanā ṉiṉḏṟiyavai yeṉḏṟumiṟā
ṉāhamaṉa lēyuṇmai yām
.

பதச்சேதம்: வினையும், விபத்தி, வியோகம், அஞ்ஞானம் இணையவை யார்க்கு என்று ஆய்ந்திடலே வினை, பத்தி, யோகம், உணர்வு. ஆய்ந்திட, ‘நான்’ இன்றி அவை என்றும் இல். தானாக மனலே உண்மை ஆம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉai-y-um, vibhatti, viyōgam, aññāṉam iṉaiyavai yārkku eṉḏṟu āyndiḍal-ē viṉai, bhatti, yōgam, uṇarvu. āyndiḍa, ‘nāṉ’ iṉḏṟi avai eṉḏṟum il. tāṉ-āha maṉal-ē uṇmai ām.

Traduzione: Investigare a [o per] chi sono questi karma, vibhakti, viyōga e ajñāna, è esso stesso karma, bhakti, yōga e jñāna. Quando si investiga, senza ‘io’ [l’ego] essi [karma, vibhakti, viyōga e ajñāna] mai esistono. Solo essere permanentemente come se stessi è vero.
Nella prima riga di questo verso வினை (viṉai) significa azione o karma; விபத்தி (vibhatti) significa vibhakti, ma nel senso speciale di ‘mancanza di devozione’ piuttosto che nel suo usuale senso di ‘separazione’; வியோகம் (viyōgam) significa ‘separazione’; e அஞ்ஞானம் (aññāṉam) significa ajñāna o ‘ignoranza’ nel senso di auto-ignoranza. Poiché questi difetti sembrano esistere solo finché il nostro ego sembra esistere, e poiché essi sono difetti inerenti al nostro ego, possiamo liberarci interamente di essi solo liberandoci del nostro ego. Quindi, poiché questi difetti non possono esistere senza questo ego (come egli dice nella frase successiva), e poiché investigare questo ego rivelerà che esso non esiste realmente, Bhagavan dice che investigare a chi o per chi questi difetti sembrano esistere è karma, bhakti, yōga e jñāna. Dunque la semplice pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) include in sé tutti i benefici di praticare ogni altro tipo di pratica spirituale, così in questo senso è onni-inclusiva.

21. Spiegare l’efficacia unica di ātma-vicāra implica che stiamo ‘disapprovando’ tutti gli altri generi di pratica spirituale?

Tuttavia, mi rendo conto che l’appello di Sivanarul a me non riguardava direttamente la domanda se ātma-vicāra è inclusiva o esclusiva, ma riguardava piuttosto ciò che egli percepisce come un’’apparenza’ che la mia presentazione di essa sembra ‘disapprovare’ altre pratiche e dunque sembra essere insufficientemente inclusiva, così rivolgerò il suo appello più direttamente. Paradossalmente, una delle ragioni per cui nei miei scritti tendo a promuovere quasi esclusivamente ātma-vicāra piuttosto che ogni altra pratica è precisamente perché sono fermamente convinto dagli insegnamenti di Bhagavan che essa includa all’interno di sé i benefici di praticare ogni altro tipo di pratica spirituale, così sento che non sarei fedele alla mia comprensione dei suoi insegnamenti se promuovessi qualche altra pratica invece di ātma-vicāra.

Tuttavia, questo non è il solo modo in cui posso spiegare perché mi focalizzo così tanto su ciò che io percepisco essere l’efficacia unica di ātma-vicāra come insegnata da Bhagavan, così cercherò di spiegare questo in diversi altri modi. Prima di tutto, ātma-vicāra riguarda primariamente investigare e sperimentare ciò che siamo realmente, così poiché noi stessi siamo ciò che è più caro e che è di più grande interesse per ciascuno di noi, logicamente ātma-vicāra dovrebbe attrarre tutti noi, particolarmente se crediamo in Bhagavan quando dice che ciò che siamo realmente è felicità infinita, e che sembriamo soffrire solo perché non sperimentiamo noi stessi come siamo realmente. Questo è espresso meravigliosamente da lui nel primo paragrafo di Nāṉ Yār?, che non fa parte di alcuna risposta che diede a Sivaprakasam Pillai ma è stata da lui aggiunta quando ha riscritto le domande e le risposte registrate da Pillai nella forma di un saggio, e che fu in gran parte un sommario di ciò che aveva scritto nella prima frase della sua introduzione (avatārikai) alla sua traduzione Tamil di Vivēkacūḍāmaṇi (di cui fornisco una traduzione verso la fine del primo capitolo di Felicità e l’Arte di Essere).

Tuttavia, benché dovremmo logicamente voler sperimentare noi stessi come siamo realmente e dovremmo quindi essere attratti dalla pratica di ātma-vicāra, di fatto molti di noi non lo sono, perché siamo riluttanti a lasciare andare tutte le illusioni che abbiamo riguardo noi stessi e ogni altra cosa. Poiché ātma-vicāra è una minaccia diretta a tutte le nostre illusioni custodite caramente, molte persone non hanno affatto interesse in essa anche se ne hanno sentito parlare, e anche tra coloro di noi che hanno sentito parlare di essa e dell’importanza centrale che Bhagavan ha assegnato ad essa, molti di noi rifuggono da essa e trovano una scusa o un’altra per non praticarla.

Alcune persone come me riconoscono il motivo per cui Bhagavan l’ha raccomandata così vivamente e quindi ammettono che dovremmo praticarla, sebbene a causa dei nostri persistenti attaccamenti alle nostre illusioni riguardo a noi stessi e a ogni altra cosa ci scopriamo riluttanti ad essere auto-attentivi per quanto lo potremmo essere, così i nostri tentativi di praticare ātma-vicāra affrontano tremende resistenze interne, che possono essere superate solo dalla paziente persistenza. Altri che affrontano simili resistenze interne preferiscono credere che poiché Bhagavan non cercò di dissuadere chiunque preferiva praticare qualche altro tipo di pratica spirituale, egli considerava tutti i tipi di pratica spirituale come ugualmente efficaci, o che almeno riteneva che benché ātma-vicāra sia la pratica più veloce e più efficace, è adatta solo a certe persone, così altre possono raggiungere lo stesso fine con altri mezzi.

Quando a tali persone è fatto notare che in Nāṉ Yār? egli ha insegnato esplicitamente che altre pratiche come prāṇāyāma (contenimento del respiro), mūrti-dhyāna (meditazione su una forma di Dio) o mantra-japa (ripetizione di una parola o frase sacra, abitualmente costituita da o contenente un nome di Dio) sono solo aiuti ma non causeranno manōnāśa (annientamento della mente), e che tranne ātma-vicāra non c’è un mezzo adeguato con cui possiamo sradicare il nostro ego e la nostra mente, e anche che questo messaggio è da lui ripetuto e spiegato ulteriormente in Uḷḷadu Nāṟpadu, Upadēśa Undiyār e altri testi, essi sono riluttanti ad accettare che questi testi siano le espressioni più pure e più vere dei suoi insegnamenti fondamentali, e argomentano che nella sua condotta quotidiana e in molte risposte che diede alle domande dei devoti registrate in libri come Talks with Sri Ramana Maharshi e Day by Day with Bhagavan egli ha mostrato di essere più inclusivo e accettava che si potesse ottenere la liberazione seguendo qualsiasi sentiero spirituale a cui le persone possono essere attratte. Se ci sentiamo propensi ad accettare una tale visione dei suoi insegnamenti e quindi disposti a respingere o dare meno importanza agli insegnamenti chiari, espliciti e inequivocabili che ha scritto in testi come Nāṉ Yār?, Upadēśa Undiyār e Uḷḷadu Nāṟpadu, e se crediamo quindi che quei devoti che conferiscono importanza centrale a quei testi stanno per questo escludendo coloro che non accettano che ātma-vicāra sia unicamente efficace e sia in definitiva il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e liberarci dalle grinfie del nostro ego, dovremmo forse considerare ciò che ci motiva ad assumere una tale visione, piuttosto che deplorare coloro che non sono disposti ad accordarsi alla nostra visione.

Il solo motivo per cui non sembriamo essere in grado di sperimentare noi stessi come siamo realmente qui e ora, e per cui troviamo difficile praticare ātma-vicāra, è che siamo ancora attaccati troppo fortemente a tutte le nostre illusioni su noi stessi e su ogni altra cosa, così se preferiamo credere che ātma-vicāra non sia in definitiva il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente o che non è unicamente efficace, e che possiamo ottenere la liberazione anche con altri mezzi, in ultima analisi la ragione per questa preferenza sembrerebbe essere semplicemente che siamo riluttanti ad abbandonare tutte le nostre illusioni su noi stessi e su ogni altra cosa, o anche a riconoscere che questa riluttanza è in definitiva il solo ostacolo che noi tutti affrontiamo, non importa quale sentiero spirituale possiamo scegliere di seguire. Poiché tutte le nostre illusioni sono incarnate nel nostro ego, che è la sola loro radice e base, la differenza fondamentale tra ātma-vicāra e ogni altro tipo di pratica spirituale è che ātma-vicāra affronta direttamente questa radice non dando ad essa assolutamente spazio per sollevare la sua testa ignobile, mentre altre pratiche spirituali la affrontano più indirettamente, dando ad essa spazio per resistere ma facendo di tutto per tenerla sotto controllo.

Bhagavan non solo ha affermato esplicitamente che ātma-vicāra è il solo mezzo con cui possiamo rinunciare o abbandonare interamente il nostro ego, ma ha anche spiegato chiaramente e logicamente il perché. Come ci ha indicato in così tanti modi, ciò che è consapevole di qualsiasi cosa diversa da sé stesso è solo il nostro ego, ed esso non può sorgere o durare anche per un momento senza essere consapevole di qualcosa diversa da sé stesso, così essere consapevole di altre cose è il mezzo con cui esso si nutre e sopravvive. Questa è una legge della natura semplice e inviolabile (e diversamente da altre leggi della natura, come le leggi della fisica, che sono leggi che reggono alcuni sogni ma non necessariamente tutti, questa è una legge che regge necessariamente tutti i sogni, perché è la legge fondamentale sulla quale è fondata l’apparenza di ogni sogno), ed è quindi uno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti, che è da lui espresso chiaramente nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui usa la frase ஓர் பற்றி’ (uru paṯṟi) o ‘afferrare la forma’ per intendere che afferrare o essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi nutre e sostiene la nostra illusione fondamentale di essere questo ego, logicamente il solo mezzo con cui possiamo distruggere questa illusione è cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi. Questo è il motivo per cui egli dice nello stesso verso: ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso [questo ego] prenderà il volo’.

Cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi comporta il cercare di focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi, così questa semplice pratica di essere attentivamente auto-consapevoli è il solo modo in cui possiamo investigare noi stessi e sperimentare ciò che siamo realmente. Quindi poiché ogni tipo di pratica spirituale diversa dall’auto-investigazione (ātma-vicāra) comporta l’essere consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, nessuna di queste pratiche può essere un mezzo diretto per annientare il nostro ego e quindi stabilirci fermamente nel nostro stato naturale di auto-consapevolezza assolutamente pura, che solo è lo stato di vera liberazione.

Questo non vuol dire che altre pratiche non sono di alcuna utilità. Come Bhagavan ha detto, esse possono essere aiuti per raggiungere la liberazione, ma nessuna di esse può essere un mezzo diretto per raggiungerla, così alla fine devono tutte condurre alla semplice pratica dell’auto-attentività, che sola ci libererà infine dal nostro ego.

Non intendo scusarmi per ripetere questo ancora e ancora quando rispondo a domande che mi sono poste riguardo gli insegnamenti di Bhagavan o quando scrivo su questo blog, anche se questo fa sembrare ad alcuni amici che io stia promuovendo ātma-vicāra troppo esclusivamente e ‘disapprovando’ altre pratiche, perché se non la enfatizzassi esplicitamente e inequivocabilmente, non sarei fedele alla mia comprensione di ciò che credo Bhagavan ci ha insegnato non meno esplicitamente o inequivocabilmente. Questa pratica di auto-attentività è insegnata più o meno esplicitamente in numerosi testi antichi (come nella Bhagavad Gītā 6.25-6), ma per quanto ne so nessuno prima di Bhagavan l’aveva mai enfatizzata così fortemente o spiegato la sua efficacia unica così chiaramente come egli ha fatto, così in questo importante particolare i suoi insegnamenti sono molto speciali, e questo è ciò che ha attratto a lui molti di noi e ci ha incoraggiato a cercare di praticare ātma-vicāra.

Naturalmente egli non cercò di forzare nessuno a praticare l’essere auto-attentivi se non erano disposto a provare, così ogni volta qualcuno non era chiaramente disposto anche solo a provare ad essere auto-attentivo, egli lo incoraggiava a continuare a fare qualunque pratica spirituale voleva fare. La pratica di essere auto-attentivi richiede sincera bhakti o amore per sperimentare ciò che è reale, così egli sapeva che sarebbe stato inutile cercare di forzare qualcuno a praticarla, ma quando gli venivano poste domande egli non esitava a incoraggiare le persone almeno a provare un po’ per volta ad essere attentivamente auto-consapevoli per scoprire chi o cosa essi erano realmente.

22. Nāṉ Yār? paragrafo 9: perché ēkāgratā (concentrazione su un unico punto) è considerata così necessaria?

Una qualità che è considerata di massima importanza in ogni tipo di yōga o pratica spirituale è ēkāgratā, che significa ‘concentrazione su un unico punto’ e che significa una risoluta devozione al perseguimento dell’unico fine tramite l’unico mezzo. La ragione per cui è considerata così necessaria è spiegata da Bhagavan nel nono paragrafo di Nāṉ Yār?:
மனம் அளவிறந்த நினைவுகளாய் விரிகின்றபடியால் ஒவ்வொரு நினைவும் அதிபலவீனமாகப் போகின்றது. நினைவுக ளடங்க வடங்க ஏகாக்கிரத்தன்மை யடைந்து, அதனாற் பலத்தை யடைந்த மனத்திற்கு ஆத்மவிசாரம் சுலபமாய் சித்திக்கும்.

maṉam aḷaviṟanda niṉaivugaḷ-āy virigiṉḏṟapaḍiyāl ovvoru niṉaivum adi-bala-v-īṉam-āha-p pōgiṉḏṟadu. niṉaivugaḷ aḍaṅga v-aḍaṅga ēkāggira-t-taṉmai y-aḍaindu, adaṉāl balattai y-aḍainda maṉattiṟku ātma-vicāram sulabham-āy siddhikkum.

Poiché la mente sparge innumerevoli pensieri [disperdendo quindi la sua energia], a ogni pensiero essa s’indebolisce. Quando i pensieri [progressivamente] diminuiscono sempre di più, per la mente che ha ottenuto forza [a causa di ciò] realizzando ēkāgratā [concentrazione su un unico punto] ātma-vicāra [auto-investigazione] sarà compiuta facilmente.
Se abitualmente permettiamo alla nostra mente di disperdersi in molte direzioni, le mancherà il potere di rimanere focalizzata per qualche tempo su una cosa soltanto, così questa mente sarà un misero strumento per praticare sia ātma-vicāra sia ogni altro tipo di yōga o di pratica spirituale. Quindi per perseguire con successo ogni forma di pratica spirituale è necessario addestrare la propria mente ad essere concentrata solo sul suo perseguimento, e dunque in ogni forma di yōga la concentrazione su un unico punto(ēkāgratā) è considerata assolutamente necessaria.

Se vogliamo dilettarci a fare vari tipi di pratica spirituale, come un po’ di ātma-vicāra insieme con un po’ di bhakti e un po’ di raja yōga, e forse anche un po’ di vipassanā come anche un po’ di Buddhismo Tibetano e di meditazione Zen, e anche aggiungere un po’ di pratiche Sufi e preghiere Cristiane come misura aggiuntiva, sarebbe OK, perché impegnarsi in queste pratiche è senza dubbio meglio che impegnarsi in molti altri generi di attività più terrene che potremmo invece fare, ma spargere la nostra energia, lo sforzo e l’interesse in molte direzioni diverse non ci permetterebbe di andare in profondità in ognuna di queste pratiche. Quindi se vogliamo fare progressi significativi in qualsiasi sentiero spirituale, dovremmo decidere di focalizzarci primariamente solo su un sentiero che conduca ad un fine chiaramente definito.

Il termine ēkāgratā e il termine sinonimo ēkāgratva sono centrambi composti da due parole ed un suffisso: ēka significa uno, singolo o solo; agra significa primo, principale, sommo, punta, punto, scopo, fine o culmine; e i suffissi e tva sono entrambi equivalenti al suffisso Inglese ‘-ness’. Quindi ēkāgratā e ēkāgratva significano entrambi ‘concentrazione su un unico punto' o avere un singolo scopo o punto focale, entrambi nel senso di focalizzare la propria attenzione solo su una cosa e nel senso di avere solo uno scopo. Dunque per sviluppare ēkāgratā o concentrazione su un unico punto dobbiamo prima scegliere un singolo scopo verso il quale desideriamo lavorare e poi scegliere un singolo mezzo con cui possiamo raggiungere quello scopo.

Come Bhagavan intendeva nelle due frasi di Nāṉ Yār? riportate sopra, possiamo ottenere bala (forza, potere o capacità) necessaria per raggiungere il nostro fine solo se la cerchiamo con assiduità piuttosto che permettere alla nostra energia e alla nostra attenzione di essere disperse in molte direzioni differenti. Dunque se prendiamo lui come nostro guru e con tutto il cuore accettiamo che il solo fine che dovremmo cercare di realizzare è l’annientamento del nostro ego, che è ciò che è anche chiamato completo auto-abbandono, dovremmo cercare di focalizzare tutti i nostri interessi, lo sforzo e l’attenzione sul praticare con concentrazione focalizzata ātma-vicāra, che come egli ci ha insegnato è il solo mezzo con cui possiamo realizzare questo fine.

Focalizzarci con concentrazione su un singolo sentiero che conduce a un singolo fine non significa che stiamo disapprovando tutti gli altri tipi di pratiche spirituali. Possiamo risolutamente interessarci e cercare di praticare solo il sentiero che abbiamo scelto mentre allo stesso tempo riconoscere e ammettere che altre persone hanno scelto altri sentieri perché sono più adatti alle loro particolari convinzioni, interessi, fini e aspirazioni.

Non tutti sono ancora pronti ad accettare che l’annientamento del proprio ego è il fine migliore da ricercare, e anche tra coloro che lo accettano, non tutti sono pronti ad accettare che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto per realizzare questo fine. Per esempio, in alcune tradizioni di bhakti fondersi completamente in Dio (che è un modo alternativo di descrivere l’annientamento o completo abbandono del proprio ego) non è considerato il fine, perché essi sostengono che Dio è come il miele, così è meglio essere un’ape e bere il miele che cadere in esso e affogare. Quindi in queste tradizioni la liberazione (mukti) non è considerata uno stato di assoluta unità con Dio, ma uno stato in cui si ama lui perpetuamente e lo si adora come qualcuno diverso da sé stessi. Per i devoti che credono questo, danzare e cantare in celebrazione di Dio sembrerà naturalmente un sentiero migliore che ātma-vicāra (anche se essi possono essere devoti di Sri Krishna, che insegnò la pratica di ātma-vicāra nella Bhagavad Gītā 6.25-6).

Benché Bhagavan ci abbia insegnato che l’analogia del miele usata da questi devoti non è appropriata (perché Dio non è insenziente come il miele, così se essi divengono uno con lui annegando in lui e quindi perdendo il loro ego, godranno la felicità infinita che è lui come nostro sé), se uno di questi devoti fosse venuto a lui, egli lo avrebbe incoraggiato a continuare a praticare assiduamente il sentiero che aveva scelto, sapendo che proprio come un’ape che beve da una ciotola di miele si inebria talmente da cadere in esso e annegare, ogni devoto che pratica la bhakti dualistica con amore assiduo diventerà infine così inebriato dall’amore di Dio che la sua mente si volgerà all’interno e annegherà in Dio, che è sempre risplendente all’interno di ciascuno di noi come il nostro sé.

Tuttavia, per coloro di noi che sono venuti a lui cercando di conoscere il mezzo più semplice e più diretto per realizzare la felicità perfetta che tutti stiamo cercando in un modo o in un altro, egli ha insegnato che il mezzo più semplice, più veloce e più diretto è ātma-vicāra, così se siamo convinti dai suoi insegnamenti dovremmo cercare di praticare ātma-vicāra con concentrazione focalizzata. Cercare di praticare ātma-vicāra con concentrazione focalizzata non significa che non dovremmo cercare l’aiuto della sua grazia ogni volta che la nostra mente è trascinata all’esterno dai nostri antichi attaccamenti e viṣaya-vāsanās (inclinazioni o desideri a sperimentare cose diverse da noi stessi), o che non dovremmo esprimere il nostro intenso desiderio della sua grazia attraverso pratiche dualistiche di devozione verso la sua forma umana o la sua forma come Arunachala, ma ātma-vicāra dovrebbe essere il punto focale di tutte le nostre pratiche, e se preghiamo Bhagavan o Arunachala dovremmo pregare solo perché lui ci dia l’amore di praticare ātma-vicāra come ci ha insegnato.

In Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam e altrove Bhagavan ha indicato chiaramente che l’intento di adorare Arunachala è lo stesso intento di praticare ātma-vicāra, vale a dire l’annientamento del nostro ego. Uno dei credi tradizionali riguardo Arunachala è che il solo pensiero di Arunachala concederà la liberazione (mukti), e poiché Bhagavan ci ha insegnato che Arunachala è il nostro sé reale, il ‘pensiero di Arunachala’ è un modo metaforico di descrivere il pensiero di sé stessi (ātma-cintana) o auto-attentività. Questo è indicato chiaramente da Bhagavan nel primo verso di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai:
அருணா சலமென வகமே நினைப்பவ
ரகத்தைவே ரறுப்பா யருணாசலா.

aruṇā calameṉa vahamē niṉaippava
rahattaivē raṟuppā yaruṇācalā
.

பதச்சேதம்: அருணாசலம் என அகமே நினைப்பவர் அகத்தை வேர் அறுப்பாய் அருணாசலா.

Padacchēdam (separazione delle parole): aruṇācalam eṉa ahamē niṉaippavar ahattai vēr aṟuppāy aruṇācalā.

Traduzione: Arunachala, tu sradichi l’ego di coloro che pensano nel profondo del cuore ‘Arunachalam’.
Poiché அகம் (aham) è sia una parola Tamil che significa dentro, all’interno, cuore o mente, sia una parola Sanscrita che significa ‘io’ o ego, அகமே (ahamē) nella prima riga di questo verso può significare all’interno, nel profondo del cuore, nel petto o nella propria mente, o può significare ‘solo io’. Quindi un’interpretazione alternativa di questo verso, che è stata enfatizzata da Sri Muruganar nel suo commentario, è:
Arunachala, tu sradichi l’ego di coloro che pensano che Arunachalam è solo ‘io’.
Dunque, come in molti altri versi di Śrī Aruṇācala Stuti Pañcakam, in questo verso Bhagavan ci ha dato spazio per interpretare ciò che egli ha cantato con riferimento ad Arunachala come la forma esteriore di una collina o come il nostro vero sé, e così facendo egli ha meravigliosamente e significativamente armonizzato l’apparente devozione dualistica con la devozione a ciò che siamo realmente, perché finché non sradichiamo il nostro ego e rimaniamo come siamo realmente, queste due forme di devozione sono come due ali che insieme ci permettono di volare alla nostra destinazione, o come due remi che ci permetteranno di remare fino alla liberazione, la sponda di questo oceano del saṁsāra. Tuttavia, l’uso che facciamo di queste due ali dovrebbe essere assiduo nel loro fine, ovvero sradicare il nostro ego.

Quando il nostro bisogno di seguire con concetrazione focalizzata il sentiero che Bhagavan ci ha mostrato è spiegato alle persone, alcuni sostengono che questo non significa necessariamente che dovremmo praticare solo ātma-vicāra, perché quando egli ha spiegato il bisogno di concentrazione focalizzata nelle due frasi del nono paragrafo di Nāṉ Yār? che ho citato all’inizio di questa sezione lo ha fatto al fine di spiegare come sia mūrti-dhyāna (meditazione su una forma di Dio) sia mantra-japa (ripetizione di una parola o frase sacra, usualmente consistente o contenente un nome di Dio) sono aiuti per contenere la mente. Tuttavia, benché egli ha detto che la mente otterrà concentrazione focalizzata (ēkāgratā) sia per mezzo di mūrti-dhyāna che di mantra-japa, ha chiaramente indicato che la concentrazione focalizzata risultante dovrebbe allora essere usata per praticare ātma-vicāra, perché mūrti-dhyāna e mantra-japa sono solo aiuti ma non determineranno manōnāśa (annientamento della mente), che può essere realizzato solo per mezzo di ātma-vicāra.

Per riuscire ad annientare il nostro ego per mezzo di ātma-vicāra (che è ciò che egli intendeva con le parole ‘ஆத்மவிசாரம் சித்திக்கும்’ (ātma-vicāram siddhikkum) o ‘ātma-vicāra sarà compiuta’ nella seconda delle due frasi citate all’inizio di questa sezione) ovviamente abbiamo bisogno di sviluppare concentrazione focalizzata per praticare ātma-vicāra dall’inizio. Sadhu Om usava spiegare questo con la seguente analogia:

Supponiamo che siamo a Tiruvannamalai e abbiamo bisogno di raggiungere più velocemente possibile Vellore, che è una città a nord di Tiruvannamalai, e che il mezzo di trasporto più veloce disponibile è una bicicletta, ma non abbiamo ancora imparato ad andare in bicicletta. Ovviamente il modo più veloce di raggiungere Vellore sarebbe imparare ad andare in bicicletta sulla strada per Vellore, perché nel tempo che impiegheremmo per imparare ad andare in bicicletta saremmo già a un buon punto sulla strada per Vellore. Potremmo naturalmente iniziare ad imparare ad andare in bicicletta sulla strada per Tirukoilur, che è una città a sud di Tiruvannamalai, ma nel tempo che impiegheremmo per imparare ad andare in bicicletta saremmo più lontani dalla nostra destinazione di quanto lo eravamo al punto di partenza, così dovremmo tornare indietro e pedalare fino a Tiruvannamalai prima di continuare da lì per Vellore.

Nello stesso modo, poiché la concentrazione focalizzata di cui abbiamo bisogno per riuscire a raggiungere il fine di ātma-vicāra è un punto focale concentrato soltanto su noi stessi, il modo migliore per ottenere quella concentrazione focalizzata è cercare di focalizzare la nostra attenzione solo su noi stessi. È come imparare ad andare in bicicletta sulla strada per Vellore. Se invece cercassimo di ottenere concentrazione su un unico punto focalizzando la nostra attenzione su una mūrti (una forma di Dio) o un mantra (una parola o una frase sacra), usualmente consistente o contenente un nome di Dio), sarebbe come imparare ad andare in bicicletta sulla strada per Tirukoilur, perché nel tempo che impiegheremmo a ottenere concentrazione focalizzata su una mūrti o un mantra che abbiamo scelto, avremmo potuto invece voltarci e cercare di ottenere concentrazione focalizzata soltanto su noi stessi. Poiché il punto focale di cui abbiamo bisogno è soltanto noi stessi, è logico cercare di coltivare concentrazione su un unico punto focalizzandoci su noi stessi dal momento che comprendiamo che questo è il nostro fine.

Nel nono paragrafo di Nāṉ Yār? il fine di Bhagavan era quello di spiegare come mūrti-dhyāna e mantra-japa possono essere ciascuna un aiuto indiretto all’ātma-vicāra, ma questo non significa che egli raccomandasse di praticare mūrti-dhyāna o mantra-japa. Poiché egli ha chiarito in altri paragrafi che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto e adeguato con cui il nostro ego può essere annientato, possiamo dedurre che il modo migliore di ottenere la concentrazione focalizzata richiesta per realizzare il fine di ātma-vicāra (vale a dire sperimentare noi stessi come siamo realmente) è praticare solo ātma-vicāra dall’inizio cercando di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

Quindi la mia risposta all’appello di Sivanarul di presentare ātma-vicāra in un modo inclusivo e ‘ridurre ‘l’apparenza’ di disapprovare altre Sadhana’ è che poiché questo blog è inteso primariamente riguardo gli insegnamenti di Bhagavan e il suo unico sentiero di ātma-vicāra, e poiché la concentrazione focalizzata è richiesta perché ciascuno di noi tragga il pieno beneficio di questo sentiero, credo che farei un disservizio se non mi focalizzassi risolutamente e con tale concentrazione sulla necessità di ātma-vicāra e sull’efficacia e i benefici di praticarla con concentrazione focalizzata. Il mio fine non è ‘disapprovare’ ogni altra sādhana o sentiero spirituale, ma è solo spiegare ciò che è così speciale ed unico riguardo l’efficacia e i benefici di questo sentiero, per incoraggiare me stesso e altri ad aggrapparci con concentrazione focalizzata e con tenacia a questa semplice pratica di essere attentivamente auto-consapevoli.

23. Quale capacità è richiesta per praticare ātma-vicāra?

In uno dei suoi commenti Sivanarul ha scritto, ‘Tutti noi sappiamo che Vichara era vicino al cuore di Bhagavan e alcuni di noi sono altamente esperti in questa pratica, mentre altri lottano con essa’, e in un commento successivo ha scritto:
Prendiamo le nostre capacità mondane come un esempio. Non è ovvio che ognuno di noi è altamente esperto in certe cose e davvero poco in certe altre? Persone con grande dote artistica usualmente sono molto povere di doti analitiche e persone che hanno grandi doti analitiche sono povere di doti artistiche. È ben stabilito dalla scienza, parti differenti del cervello sono coinvolte in differenti capacità.

Le capacità/pratiche spirituali non sono diverse. Il cervello è ancora usato e alcuni di noi hanno predisposizioni devozionali e altri hanno predisposizioni analitiche.
Se ognuno di noi fosse altamente esperto nella pratica di ātma-vicāra, saremmo in grado di dissolvere molto velocemente l’illusione di essere questo ego, perché il nostro ego è solo una falsa entità, così come Bhagavan ci ha insegnato esso non può durare nella chiara luce della vigilante e salda auto-attentività. Come ha detto nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), che significa ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’.

Il motivo per cui il nostro ego non ha ancora preso il volo e non è ancora scomparso per sempre è precisamente perché non siamo ancora altamente esperi nella pratica di ātma-vicāra. Tuttavia ‘capacità’ non è forse la parola più appropriata da usare in questo contesto, perché la capacità è richiesta per fare qualsiasi cosa complessa o difficile, mentre essere attentivamente auto-consapevoli è la cosa più semplice e più facile. La sola ‘capacità’ che ci è richiesta per essere auto-attentivi è una sincera predilezione o amore ad esserlo. Come ho scritto in un primo commento allo stesso articolo in risposta a una domanda posta da un altro amico:
La perseveranza in questa pratica di essere attentivamente auto-consapevoli è il solo mezzo con cui possiamo coltivare l’amore necessario (bhakti) di essere consapevoli soltanto di noi stessi, e questo amore ci darà l’abilità o capacità di mantenere la nostra intera attenzione fissata fermamente su noi stessi senza permetterle di distrarsi verso qualsiasi altra cosa.
Altri tipi di pratica spirituale possono richiedere una particolare capacità, perché possono comportare il fare qualcosa di complesso o difficile, ma ātma-vicāra non richiede assolutamente capacità tranne che l’amore di essere auto-attentivi e dunque consapevoli soltanto di sé stessi. Essa non comporta l’usare il cervello in qualche modo particolare, perché il cervello può essere necessario per fare qualcosa, mentre essere attentivamente auto-consapevoli non comporta niente da fare, poiché è semplicemente uno stato di solo essere (summā iruppadu). Né essa richiede una predisposizione analitica piuttosto che una devozionale. Di fatto è proprio il contrario: benché una predisposizione analitica può aiutarci a comprendere la pratica e le sue semplici basi teoriche più chiaramente, il metterla effettivamente in pratica richiede una forte predisposizione devozionale, perché senza una risoluta devozione o amore di essere consapevoli soltanto di sé stessi non è possibile reggersi fermamente sull’essere attentivamente auto-consapevoli.

24. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 40: annientare il nostro ego per mezzo di ātma-vicāra è realizzare il fine ultimo del sanātana dharma

In molti dei suoi commenti Sivanarul si è riferito al sanātana dharma, che significa il ‘dharma eterno’ e che è un termine che generalmente si riferisce alla religione Hindu o a quelle parti della famiglia dharmica delle religioni, filosofie, credi e pratiche (che includono tutte le varie forme di Induismo, Jainismo, Buddhismo e Sikhismo) che in un modo o in un altro onorano i Vēda. Per esempio, in un commento ha scritto che il sanātana dharma ‘non esclude alcuna religione, pratica spirituale o anche il materialismo. Esso articola tutti i 4 (Dharma, Artha Kama e Moksha) come realizzazioni aperte a tutto il genere umano e sostiene che Artha e Kama quando praticati con Dharma, condurranno infine a Moksha. Bhagavan fu uno dei più grandi esponenti del Sanatana Dharma’.

Benché sia vero che Bhagavan fu uno dei più grandi esponenti del sanātana dharma, egli non insegnò tutti gli aspetti di esso, né ogni aspetto di esso rappresenta i suoi insegnamenti, perché il sanātana dharma è una chiesa estremamente larga, per così dire, visto che comprende un’ampia gamma di filosofie, fini, credi e pratiche molto differenti e spesso conflittuali. Per esempio, come dice Sivanarul, il sanātana dharma riconosce quattro puruṣārthas o fini legittimi della vita umana, vale a dire dharma (retta condotta), artha (prosperità o ricchezza materiale), kāma (piaceri sensuali) and mōkṣa (liberazione), ma sebbene Bhagavan ovviamente non perdonava alcun comportamento che non si conformava con il dharma (nel senso ampio di essere retti, etici e non causare danno), e sebbene non avrebbe perdonato cercare artha o kāma con qualche mezzo che non si conformasse con il dharma, non raccomandava nessuno di questi tre come un meritevole fine della vita, perché rese chiaro che il solo fine realmente meritevole che dovremmo cercare è mōkṣa (come indicato da Sri Muruganar nel verso 8 e 1204 di Guru Vācaka Kōvai).

Tuttavia, benché tutte le forme di sanātana dharma generalmente riconoscono che mōkṣa è il fine ultimo della vita umana, all’interno del sanātana dharma ci sono molte concezioni differenti di ciò che mōkṣa comporta realmente, mentre Bhagavan non accettava che ci fosse più di un tipo di vera liberazione, come ha reso chiaro nel verso 40 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருவ மருவ முருவருவ மூன்றா
முறுமுத்தி யென்னி லுரைப்ப — னுருவ
மருவ முருவருவ மாயு மகந்தை
யுருவழிதன் முத்தி யுணர்.

uruva maruva muruvaruva mūṉḏṟā
muṟumutti yeṉṉi luraippa — ṉuruva
maruva muruvaruva māyu mahandai
yuruvaṙitaṉ mutti yuṇar
.

பதச்சேதம்: உருவம், அருவம், உருவருவம், மூன்று ஆம் உறும் முத்தி என்னில், உரைப்பன்: உருவம், அருவம், உருவருவம் ஆயும் அகந்தை உரு அழிதல் முத்தி. உணர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uruvam, aruvam, uru-v-aruvam, mūṉḏṟu ām uṟum mutti eṉṉil, uraippaṉ: uruvam, aruvam, uru-v-aruvam āyum ahandai uru aṙidal mutti. uṇar.

அன்வயம்: உறும் முத்தி உருவம், அருவம், உருவருவம், மூன்று ஆம் என்னில், உரைப்பன்: உருவம், அருவம், உருவருவம் ஆயும் அகந்தை உரு அழிதல் முத்தி. உணர். Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uṟum mutti uruvam, aruvam, uru-v-aruvam, mūṉḏṟu ām eṉṉil, uraippaṉ: uruvam, aruvam, uru-v-aruvam āyum ahandai uru aṙidal mutti. uṇar.

Traduzione: Se è detto che la mukti che uno sperimenterà è tre, forma, senza forma, o né forma né senza forma, io dirò: sappi che la distruzione della forma dell’ego, che distingue forma, senza forma, o né forma né senza forma, è mukti.

Traduzione parafrasata: Se è detto che mukti [liberazione] che uno sperimenterà è di tre tipi, con forma, senza forma, o né con forma né senza forma [cioè, uno stato in cui uno può alternare tra essere una forma o essere senza forma], io dirò: sappi che la distruzione della forma dell’ego, che distingue [questi tre tipi di liberazione], con forma, senza forma, o con forma o senza forma, è [solo vera] mukti.
Come Bhagavan ha chiarito in questo verso, nella sua visione la sola liberazione reale è la distruzione del nostro ego, così questo è il solo vero puruṣārtha, fine o scopo della vita umana. Allora perché la liberazione è descritta in così molti altri modi dai saggi e nei testi sacri? La risposta a questo è stata data da Bhagavan nelle parole che ha aggiunto prima di questo verso per collegarlo al precedente quando ha composto la versione kalivenbā di Uḷḷadu Nāṟpadu, vale a dire ‘மனத்துக்கு ஒத்தாங்கு’ (maṉattukku ottāṅgu), che significa ‘così come si adatta alla mente’, e che implica ‘per adattarsi ai diversi credi, desideri e aspirazioni delle varie menti’.

Il sanātana dharma consiste di una gamma estremamente ampia di diverse filosofie, fini, credi e pratiche perché è inteso tener conto dei bisogni di tutte le persone prima di condurli infine al fine ultimo della vita, che è solo l’annientamento della nostra illusione fondamentale di essere un ego limitato, mentre gli insegnamenti di Bhagavan sono intesi tener conto specificatamente dei bisogni di quelli fra noi che vogliono terminare questo lungo viaggio più velocemente possibile. Dunque il sanātana dharma è come il leggendario oceano di latte e gli insegnamenti di Bhagavan sono come l’amṛta (l’ambrosia o nettare di immortalità) che fu burrificato da esso. Quindi essendo stati benedetti nel ricevere questa amṛta, siamo intenti nel berla pienamente piuttosto che interessarci a qualche altro contenuto del vasto oceano del sanātana dharma.

La maggior parte dei credi e delle pratiche prescritte nel sanātana dharma sono per beneficio di coloro che non sono ancora pronti per iniziare lo stadio finale del lungo viaggio dell’anima o ego verso il suo annientamento, mentre gli insegnamenti di Bhagavan ci sono stati dati per permetterci di completare questo stato finale più direttamente e più velocemente possibile. Non confondiamo quindi altre parti del sanātana dharma con i suoi insegnamenti, perché esse sono una preparazione per i suoi insegnamenti ma non i suoi insegnamenti stessi. Seguendo i suoi insegnamenti con assiduità stiamo realizzando l’intento finale del sanātana dharma, così con questo non stiamo mostrando alcuna mancanza di rispetto per esso, anche se per completare il nostro viaggio abbiamo bisogno di ignorare la maggior parte di esso.

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