Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

mercoledì 23 marzo 2016

Mentre siamo addormentati siamo consapevoli di noi stessi, così ciò che siamo realmente è soltanto pura auto-consapevolezza

Michael James

16 Marzo 2016
We are aware of ourself while asleep, so pure self-awareness alone is what we actually are


In molti dei miei articoli in questo blog, incluso il più recente, Il ruolo della logica nello sviluppo di una comprensione chiara, coerente e semplice degli insegnamenti di Bhagavan (in modo particolare le sezioni sei e dodici), ho scritto riguardo l’insegnamento di Bhagavan che mentre dormiamo siamo consapevoli di noi stessi, ma questo è un aspetto dei suoi insegnamenti così cruciale che non ho esitato a scriverne ripetutamente, perché è un concetto che molte persone sembrano avere difficoltà ad afferrare, e perché pensare ad esso e comprenderlo chiaramente è un aiuto estremamente prezioso nella nostra pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra). Di fatto, finché non siamo in grado di riconoscere chiaramente che siamo consapevoli di noi stessi anche quando non siamo consapevoli di niente altro, come nel sonno, cercando di investigare noi stessi non saremo in grado di distinguere la nostra auto-consapevolezza fondamentale dalla nostra consapevolezza di tutte le altre cose, incluso il nostro corpo e la nostra mente.
  1. Tutti gli insegnamenti di Bhagavan sono basati sulla premessa che noi siamo sempre consapevoli di noi stessi
  2. Perché durante il sonno dobbiamo essere consapevoli
  3. Perché è necessario riconoscere che mentre dormiamo siamo consapevoli di noi stessi?
  4. Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham verso 31: l’ātma-jñāni non è consapevole di alcuna differenza tra veglia, sogno e sonno
  5. L’importanza di distinguere la nostra auto-consapevolezza permanente dalla nostra consapevolezza temporanea di aggiunte
  6. La pura auto-consapevolezza è un’esperienza senza tempo, così mentre siamo addormentati non siamo consapevoli del tempo
  7. La comune assunzione che la consapevolezza dipende dall’attività del cervello è una falsità
  8. Noi siamo consapevolezza intransitiva, che è permanente, mentre la consapevolezza transitiva è temporanea
  9. Non possiamo essere inconsapevoli che siamo consapevoli
  10. Upadēśa Undiyār verso 23: noi siamo sia ciò che esiste sia ciò che è consapevole che esistiamo
  11. Il solo elemento del nostro ego che esiste realmente è la sua auto-consapevolezza essenziale
  12. Upadēśa Undiyār verso 26: essere consapevoli di ciò che siamo non è consapevolezza transitiva ma solo essere la consapevolezza intransitiva che siamo realmente
  13. Il silenzio è il solo linguaggio intransitivo, così esso solo può rivelare la vera natura della pura consapevolezza intransitiva
  14. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 13: la reale consapevolezza è noi stessi, mentre la consapevolezza di altre cose è ignoranza
  15. Non possiamo mai dimenticare completamente noi stessi, perché sebbene come questo ego abbiamo dimenticato cosa siamo, siamo sempre consapevoli che noi siamo
  16. Il sonno è il nostro vero ed eterno stato di pura auto-consapevolezza, così esso sembra essere imperfetto solo dalla prospettiva del nostro ego
  17. Per distruggere il nostro ego e quindi dormire eternamente, dobbiamo cercare di essere attentivamente auto-consapevoli nella veglia e o nel sogno
  18. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 16: con la pratica costante di ātma-vicāra dovremmo cercare di sperimentare il sonno durante la veglia e il sogno
1. Tutti gli insegnamenti di Bhagavan sono basati sulla premessa che noi siamo sempre consapevoli di noi stessi

Il fatto che noi siamo sempre consapevoli di noi stessi, anche nel sonno, è uno dei principi più fondamentali degli insegnamenti di Bhagavan, perché è la premessa su cui tutti i suoi altri insegnamenti sono affermati, e quindi è stato dal lui indicato nella semplice risposta che ha dato alla prima domanda che gli è stata posta da Sivaprakasam Pillai, ‘நானார்?’ (nāṉ-ār?), ‘Chi sono io?’, vale a dire ‘அறிவே நான்’ (aṟivē nāṉ), che significa ‘solo aṟivu [conoscenza o consapevolezza] è io’ (e che egli ha successivamente incluso nel secondo paragrafo di Nāṉ Yār?). La consapevolezza a cui ci si riferisce in questo contesto come அறிவு (aṟivu) non è consapevolezza di qualcos’altro ma soltanto di noi stessi, così ciò che ha inteso dicendo ‘அறிவே நான்’ (aṟivē nāṉ) è che solo la pura auto-consapevolezza è ciò che siamo realmente.

Egli ha anche inteso questo in molti altri contesti. Per esempio, nella prima frase del verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu ha scritto ‘ஞானம் ஆம் தானே மெய்’ (ñāṉam ām tāṉē mey), che significa ‘solo sé stesso, che è jñāna [conoscenza o consapevolezza], è reale’, e nell’ultima frase del verso 23 di Upadēśa Undiyār ha scritto ‘உணர்வே நாமாய் உளம்’ (uṇarvē nām-āy uḷam), che significa ‘solo uṇarvu [consapevolezza o coscienza] esiste come noi’.

2. Perché durante il sonno dobbiamo essere consapevoli

Quando egli dice che siamo consapevolezza, ovviamente intende che siamo sempre consapevoli, perché non potremmo essere qualcosa che non siamo sempre. Se mentre dormiamo non fossimo consapevoli, la consapevolezza non sarebbe ciò che siamo realmente, così se persistiamo nel pensare che durante il sonno non siamo consapevoli, non abbiamo realmente compreso o non siamo stati convinti dal suo insegnamento che ciò che siamo realmente è soltanto consapevolezza.

Quando siamo nel sonno non siamo consapevoli di niente altro che noi stessi, ma nondimeno siamo consapevoli di quella assenza di ogni consapevolezza di ogni altra cosa. Poiché ricordiamo di essere stati addormentati, dobbiamo essere stati consapevoli di essere in quello stato, perché se non eravamo consapevoli di essere in esso, non saremmo affatto consapevoli di alcun intervallo tra gli stati successivi di veglia o sogno. Poiché siamo chiaramente consapevoli non solo di due stati, vale a dire veglia e sogno, ma anche di un terzo stato in cui non siamo consapevoli di qualunque fenomeno di cui siamo consapevoli nella veglia e nel sogno, siamo consapevoli non solo della presenza di fenomeni in quei due stati ma anche dell’assenza di ogni fenomeno nel sonno. Proprio come essere consapevoli della loro presenza è consapevolezza, essere consapevoli della loro assenza è consapevolezza, così anche un po’ di riflessione su questa linea dovrebbe permetterci di riconoscere il fatto semplice e irrefutabile che siamo consapevoli in tutti questi tre stati.

3. Perché è necessario riconoscere che mentre dormiamo siamo consapevoli di noi stessi?

Riconoscere chiaramente questo è la chiave non solo per comprendere l’insieme degli insegnamenti di Bhagavan in modo coerente ma anche per essere in grado di praticare l’essere precisamente auto-attentivi, perché se non abbiamo la sottigliezza, l’acutezza e la chiarezza di mente per distinguere la nostra semplice auto-consapevolezza dalla nostra consapevolezza di tutte le altre cose, non saremo in grado di focalizzare la nostra attenzione solo sulla nostra auto-consapevolezza in isolamento dalla consapevolezza di ogni altra cosa, come il nostro corpo o la nostra mente. Quindi dovremmo considerare approfonditamente e in modo contemplativo ciò di cui eravamo consapevoli nel sonno, perché quello ci aiuterà ad andare più in profondità nella pratica di essere attentivamente auto-consapevoli nel nostro stato attuale.

Il sorgere del nostro ego nella veglia e nel sogno oscura la chiarezza di pura auto-consapevolezza che sperimentavamo mentre eravamo nel sonno, così il nostro ricordo della semplice auto-consapevolezza non associata che sperimentavamo in quel momento è ora in misura più o meno grande oscurata dalla nostra consapevolezza di noi stessi come questo ego e di ogni altra cosa, ma più pensiamo auto-attentivamente a ciò che sperimentavamo nel sonno, più chiaramente saremo in grado di ricordare la nostra esperienza di pura auto-consapevolezza in quello stato. Quella auto-consapevolezza non associata e quindi pura che sperimentavamo nel sonno è l’auto-consapevolezza fondamentale che sperimentiamo in tutti gli stati e in tutti i momenti, anche se è ora oscurata dal nostro ego, così nella misura in cui il nostro ricordo della pura auto-consapevolezza del sonno è chiara, saremo in grado di attendere con precisione ad essa ora in questo stato di veglia o in qualche altro sogno.

Se non abbiamo sufficiente sottigliezza, acutezza e chiarezza di percezione per riconoscere che mentre eravamo nel sonno eravamo consapevoli di noi stessi, sarà difficile focalizzare la nostra attenzione precisamente su noi stessi finché siamo svegli o sogniamo, così considerare attentamente ciò che abbiamo sperimentato nel sonno dovrebbe andare mano nella mano con la nostra pratica di auto-attentività, perché la chiarezza di uno aiuterà a rendere più chiaro l’altro. Quando investighiamo noi stessi il nostro fine è quello di distinguerci chiaramente da ogni altra cosa con cui ora abbiamo mischiato e confuso noi stessi, e possiamo distinguere noi stessi in questo modo solo nella misura in cui siamo in grado di focalizzare la nostra intera attenzione precisamente soltanto su noi stessi, così essere in grado di riconoscere chiaramente e senza dubbio che mentre eravamo nel sonno eravamo consapevoli di noi stessi è essenziale all’effettiva pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra).

Tuttavia, essere in grado di riconoscere che siamo sempre consapevoli di noi stessi, sia che ci accada o meno di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa, è essenziale per comprendere la teoria di base degli insegnamenti di Bhagavan, perché se mentre eravamo nel sonno non eravamo consapevoli di noi stessi, non avremmo un motivo adeguato per credere che non siamo questa mente ma solo pura auto-consapevolezza, e perciò non avremmo anche motivo per cercare di investigare ciò che siamo realmente. Quindi ogni devoto di Bhagavan che non ha afferrato chiaramente il semplice fatto che mentre siamo nel sonno siamo perfettamente consapevoli di noi stessi non può avere una comprensione completa, coerente e non confusa dei suoi insegnamenti, ed anche non sarà in grado di comprendere chiaramente cosa comporta realmente la pratica di ātma-vicāra.

4. Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham verso 31: l’ātma-jñāni non è consapevole di alcuna differenza tra veglia, sogno e sonno

Alcuni devoti riconoscono il fatto che Bhagavan ci ha insegnato che durante il sonno siamo consapevoli, ma poiché non hanno pensato sufficientemente in profondità a ciò che egli ci ha insegnato riguardo a questo, presumono che solo un ātma-jñāni possa realmente sapere di essere consapevole mentre è nel sonno. Questa è ovviamente un’assunzione molto confusa e incoerente, perché durante il sonno non avremmo potuto essere consapevoli di noi stessi se non fossimo stati consapevoli di essere consapevoli di noi stessi. Quindi quando Bhagavan ci ha indicato che mentre siamo nel sonno siamo consapevoli di noi stessi, non intendeva che siamo consapevoli di noi stessi anche se non siamo consapevoli che siamo consapevoli di noi stessi, ma intendeva solo che considerassimo attentamente ed auto-attentivamente la nostra esperienza e che quindi riconoscessimo che non siamo mai non consapevoli di noi stessi.

Un ātma-jñāni è uno che si è fuso e dissolto completamente nella pura auto-consapevolezza che sempre siamo realmente, così nella chiara visione di un ātma-jñāni niente altro che pura auto-consapevolezza esiste realmente o anche sembra esistere, e quindi non ci sono tre stati ma solo uno. Sebbene nella visione auto-ignorante dell’ego un ātma-jñāni può sembrare una persona che sperimenta la veglia, il sogno e il sonno proprio come ogni altra persona, ciò che l’ātma-jñāni sperimenta realmente è solo pura auto-consapevolezza, priva anche della minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa, così l ātma-jñāni è sempre nello stato che chiamiamo ‘sonno’ ma che è realmente il solo stato reale.

Questo è inteso chiaramente da Bhagavan nel verso 31 di Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham:
வண்டிதுயில் வானுக்கவ் வண்டிசெல னிற்றிலொடு
வண்டிதனி யுற்றிடுதன் மானுமே — வண்டியா
மூனவுட லுள்ளே யுறங்குமெய்ஞ் ஞானிக்கு
மானதொழி னிட்டையுறக் கம்.

vaṇḍiduyil vāṉukkav vaṇḍisela ṉiṯṟiloḍu
vaṇḍidaṉi yuṯṟiḍudaṉ māṉumē — vaṇḍiyā
mūṉavuḍa luḷḷē yuṟaṅgumeyñ ñāṉikku
māṉadoṙi ṉiṭṭaiyuṟak kam
.

பதச்சேதம்: வண்டி துயில்வானுக்கு அவ் வண்டி செலல், நிற்றல் ஒடு, வண்டி தனி உற்றிடுதல் மானுமே, வண்டி ஆம் ஊன உடல் உள்ளே உறங்கும் மெய்ஞ்ஞானிக்கும் ஆன தொழில், நிட்டை, உறக்கம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): vaṇḍi tuyilvāṉukku a-v-vaṇḍi selal, ṉiṯṟil oḍu, vaṇḍi taṉi uṯṟiḍudal māṉumē, vaṇḍi ām ūṉa uḍal uḷḷē uṟaṅgum meyññāṉikkum āṉa toṙil, ṉiṭṭai, uṟakkam.

Traduzione: Per il mey-jñāni [il conoscitore della realtà], che è addormentato all’interno del corpo di carne, che è come un carro, l’attività [di mente o corpo], niṣṭhā [fermezza, inattività o samādhi] e il sonno sono proprio come, per una persona che dorme in un carro, quel carro in movimento, in sosta o il carro che rimane da solo [con i buoi non aggiogati].
Cioè, proprio come i vari stati di un carro non sono sperimentati da una persona che sta dormendo all’interno di esso, i vari stati di corpo e mente non sono sperimentato dal jñāni, che dorme eternamente nello stato infinito e indivisibile di pura auto-consapevolezza. Sebbene nella visione auto-ignorante di un ajñāni il jñāni sembra essere una persona che occupa un corpo e che è impegnato in periodi alternanti di attività e inattività, più o meno come ogni altra persona, il jñāni è realmente nient’altro che il nostro sé reale (ātma-svarūpa), nella cui chiara visione ciò che esiste realmente è solo sé stesso, così il jñāni non può mai essere consapevole anche della minima differenza tra la veglia, il sogno e il sonno. Per il jñāni c’è solo uno stato, vale a dire l’infinito, eterno, immutabile e indivisibile stato di pura auto-consapevolezza, che è ciò che noi (dalla prospettiva ignorante del nostro ego nella veglia e nel sogno) confondiamo come sonno.

5. L’importanza di distinguere la nostra auto-consapevolezza permanente dalla nostra consapevolezza temporanea di aggiunte

In un commento a uno dei miei articoli recenti, Perché dovremmo credere a ciò che Bhagavan ci ha insegnato?, un amico anonimo ha scritto: ‘Sono piuttosto annoiato da tutto questo discorso logico e piuttosto praticherei solo Atma Vichara ma c’è un’affermazione o asserzione nella formulazione originale di Michael dell’insegnamento di Bhagavan che non mi è affatto chiara e vorrei che fosse discussa; vale a dire che noi siamo “consapevoli “ (sebbene non “attentivamente consapevoli”) di noi stessi nel sonno profondo. Lo siamo davvero? Per quanto mi riguardo non sono sicuro che direi questo. […] Questa domanda ha ovviamente una influenza mondo forte sull’intero argomento’.

Per praticare efficacemente auto-investigazione (ātma-vicāra) abbiamo bisogno di comprendere chiaramente ciò che questa investigazione comporta e ciò che dovremmo esattamente cercare di investigare e discernere. Quindi la nostra impazienza a praticare non dovrebbe farci ignorare l’importanza di comprendere chiaramente e correttamente i principi semplici ma estremamente sottili su cui è fondata questa pratica, perché se non comprendiamo chiaramene i principi fondamentali che Bhagavan ci ha insegnato probabilmente la praticheremo in modo errato o almeno non così precisamente o efficacemente. Quindi invece di affrettarci nella pratica di ātma-vicāra senza comprenderla correttamente, iniziamo considerando attentamente i principi fondamentali che egli ci ha insegnato, come il fatto che siamo sempre consapevoli di noi stessi, sia che siamo consapevoli di altre cose (come siamo nella veglia e nel sogno) o no (come nel sonno).

Secondo Bhagavan ātma-vicāra è l’unica soluzione adeguata e completamente efficace alla radice di tutti i nostri problemi, vale a dire il nostro ego, che è una mescolanza confusa e illusoria di pura auto-consapevolezza, che è ciò che siamo realmente, e consapevolezza di aggiunte estranee come questo corpo e mente, che sono ciò che ora sembriamo essere. Così finché sperimentiamo noi stessi come un corpo e una mente, stiamo confondendo questa mescolanza confusa della nostra auto-consapevolezza e la nostra consapevolezza di queste aggiunte come la nostra reale auto-consapevolezza, e quindi non stiamo sperimentando noi stessi come siamo realmente ma solo come questo ego. Quindi per sperimentare noi stessi come siamo realmente abbiamo bisogno di distinguere la nostra auto-consapevolezza essenziale dalla consapevolezza sovrapposta di qualunque aggiunta attualmente confondiamo come noi stessi, cosa che possiamo fare solo focalizzando la nostra intera attenzione soltanto sulla nostra pura auto-consapevolezza. Questo focalizzare la nostra attenzione sulla nostra essenziale auto-consapevolezza è ciò che è chiamato ātma-vicāra o auto-investigazione, e per fare questo efficacemente abbiamo bisogno di riconoscere chiaramente che siamo consapevoli di noi stessi anche quando non siamo consapevoli di alcun corpo o mente, come nel sonno.

Il termine Tamil che Bhagavan ha usato generalmente per riferirsi alla nostra auto-consapevolezza è தன்னுணர்வு (taṉ-ṉ-uṇarvu), o la nostra consapevolezza di aggiunte come questo corpo e mente è ciò che ha descritto nel verso 24 di Upadēśa Undiyār come உபாதியுணர்வு (upādhi-y-uṇarvu). Nella veglia e nel sogno confondiamo la nostra உபாதியுணர்வு (upādhi-y-uṇarvu) o consapevolezza di aggiunte come la nostra reale தன்னுணர்வு (taṉ-ṉ-uṇarvu) o auto-consapevolezza solo perché permettiamo alla nostra attenzione di soffermarsi su cose diverse da noi stessi, così quando ritiriamo la nostra attenzione da tutte le altre cose mentre cadiamo nel sonno, la nostra consapevolezza di aggiunte si dissolve e ciò che rimane è solo la nostra pura auto-consapevolezza.

Tuttavia, se non abbiamo ancora iniziato a distinguere la nostra auto-consapevolezza essenziale dalla nostra consapevolezza di aggiunte cercando di essere auto-attentivi durante la veglia o il sogno, mentre siamo in uno di questi due stati ci sembrerà che poiché non eravamo consapevoli di ogni aggiunta mentre eravamo nel sonno, anche non eravamo consapevoli di noi stessi. Quindi per sviluppare una sufficiente sottigliezza, acutezza e chiarezza di mente da essere in grado di riconoscere che siamo consapevoli di noi stessi anche quando non siamo consapevoli di alcuna aggiunta o di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi, come nel sonno, abbiamo bisogno di praticare più possibile l’essere auto-attentivi mentre siamo nella veglia (e anche ogni volta che ricordiamo di farlo mentre stiamo sognando).

Essendo acutamente e vigilantemente auto-attentivi stiamo purificando la nostra mente e quindi aumentando la chiarezza della nostra auto-consapevolezza essenziale distinguendola dalla nostra consapevolezza di corpo, mente e ogni altra cosa, così più riusciamo ad essere auto-attentivi mentre siamo svegli o mentre sogniamo, più chiaramente saremo in grado di riconoscere che siamo sempre consapevoli di noi stessi, che ci accada di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa o meno. Nella misura in cui siamo di conseguenza in grado di distinguere la nostra auto-consapevolezza fondamentale dalla nostra consapevolezza di aggiunte estranee saremo in grado di focalizzare la nostra intera attenzione precisamente su noi stessi, così per mezzo della pratica persistente di essere auto-attentivi saremo infine in grado di focalizzare la nostra intera attenzione solo sulla nostra reale auto-consapevolezza, a completa esclusione anche della minima consapevolezza di ogni aggiunta o di qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi.

Essere così acutamente e chiaramente consapevoli soltanto di noi stessi in completo isolamento anche dalla minima consapevolezza di ogni aggiunta è ciò che Bhagavan ha descritto nel verso 25 di Upadēśa Undiyār come ‘தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது’ (taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu), che significa ‘conoscere sé stessi lasciando da parte le aggiunte’, e che egli dice è conoscere Dio, perché Dio risplende come noi stessi. Questo è lo stato di pura auto-consapevolezza che stiamo cercando di sperimentare quando pratichiamo ātma-vicāra, così riconoscere chiaramente che l’auto-consapevolezza è ciò che sempre sperimentiamo ed è quindi lo schermo o substrato su cui gli stati transitori di veglia, sogno e sonno appaiono e scompaiono è essenziale per permetterci di riuscire in questo fine.

Quindi quando pratichiamo ātma-vicāra stiamo cercando di discernere la pura auto-consapevolezza che siamo realmente, distinguendola dalla nostra consapevolezza di aggiunte come questo corpo e questa mente, che sono ciò che ora sembriamo essere, così discernere chiaramente il fatto che siamo consapevoli di noi stessi anche quando non siamo consapevoli di qualche aggiunta, come nel sonno, è intrinseco in questa pratica. Se non siamo in grado di riconoscere chiaramente il semplice fatto che ciò che sperimentiamo nel sonno non è un’assenza completa di tutta la consapevolezza ma solo la nostra pura auto-consapevolezza privata della consapevolezza di qualsiasi altra cosa, come saremo in grado di penetrare profondamente nello stato di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi?

La ragione per cui il sonno, alla maggior parte di noi, sembra essere uno stato privo di auto-consapevolezza, è che siamo così abituati, nella veglia e nel sogno, a confondere erroneamente la nostra consapevolezza di aggiunte (upādhi-y-uṇarvu) come la nostra reale auto-consapevolezza (taṉ-ṉ-uṇarvu), che l’assenza di ogni consapevolezza di aggiunte nel sonno ci sembra un’assenza di auto-consapevolezza. Quindi saremo in grado di riconoscere che nel sonno eravamo chiaramente consapevoli di noi stessi solo nella misura in cui nella veglia e nel sogno diventiamo familiari con l’essere attentivamente auto-consapevoli e quindi con l'essere in grado di distinguere la nostra auto-consapevolezza permanente dalla nostra consapevolezza temporanea di aggiunte estranee come questo corpo e questa mente.

Sebbene questa pratica di auto-attentività o ātma-vicāra è il solo mezzo effettivo con cui possiamo riconoscere chiaramente che siamo sempre consapevoli di noi stessi, sia quando siamo consapevoli di altre cose sia quando non lo siamo, riflettendo attentamente e approfonditamente sui principi fondamentali che Bhagavan ci ha insegnato, in modo particolare il principio che l’auto-consapevolezza è ciò che siamo realmente e che siamo quindi sempre consapevoli di noi stessi, anche quando non siamo consapevoli di niente altro, come nel sonno, ci aiuterà ad andare ancora più in profondità in questa semplice pratica di essere attentivamente auto-consapevoli. Quindi non trascuriamo o sottovalutiamo l’importanza di ponderare attentamente e comprendere chiaramente tutti i principi fondamentali degli insegnamenti di Bhagavan e gli argomenti logici che egli ci ha dato per mostrare perché dovremmo credere in questi principi.

6. La pura auto-consapevolezza è un’esperienza senza tempo, così mentre siamo addormentati non siamo consapevoli del tempo

Nello stesso commento questo amico anonimo ha anche scritto: ‘E se affermiamo che siamo in qualche modo consapevoli del passare del tempo [nel sonno], che dire del coma o dell’anestesia generale. Nel secondo stato non c’è, proprio certamente, consapevolezza del passare del tempo, quindi sicuramente nessuna consapevolezza di n(N)oi stessi’. Questo argomento sembra essere basato sul presupposto che essere consapevoli di noi stessi comporta essere consapevoli del tempo, che non è realmente così.

Il tempo è una dimensione costruita mentalmente in cui sembra avere luogo il cambiamento, così in assenza completa di ogni cambiamento non avremmo senso del tempo. Nel sonno non siamo consapevoli di qualsiasi cosa tranne che il nostro sé immutabile, così non siamo consapevoli di alcun cambiamento o di alcun tempo. Il tempo sembra esistere solo nella veglia e nel sogno, quando sperimentiamo noi stessi come questo ego o mente.

Essendo un fenomeno mentale, il tempo è sperimentato solo dal nostro ego o mente e non dal nostro sé reale. Il tempo è costruito dalla nostra mente per permettere l’illusione del cambiamento. Quando nessun cambiamento sembra avere luogo, come nel sonno, il coma o l’anestesia generale, nessun tempo sembra esistere, ma quando il cambiamento di qualsiasi genere sembra accadere, come nella veglia e nel sogno, il tempo sembra esistere.

L’attività della nostra mente è ciò che crea l’illusione di tempo e cambiamento. Nella veglia e nel sogno la nostra mente è attiva, e quindi c’è l’illusione di tempo e cambiamento, ma nel sonno la nostra mente è completamente sprofondata, così non c’è illusione di tempo o cambiamento.

Poiché la nostra auto-consapevolezza fondamentale, che è tutto ciò che sperimentiamo nel sonno, nel coma o nell’anestesia generale, ma che anche sperimentiamo nella veglia, nel sogno e in ogni altro stato possibile, è permanente ed immutabile, mai subisce alcun cambiamento, così è essenzialmente un’esperienza senza tempo. Il tempo appare e scompare, così è un fenomeno temporaneo, mentre la nostra auto-consapevolezza fondamentale, ‘io sono’, è lo sfondo duraturo su cui esso appare e scompare, come uno schermo cinematografico su cui appaiono e scompaiono immagini in movimento.

Quindi il nostro amico anonimo è nel giusto dicendo che nel sonno e in altri stati simili non c’è in definitiva consapevolezza del passare del tempo, ma lui o lei non è nel giusto deducendo che non c’è quindi consapevolezza di noi stessi. Il tempo è una parte dell’illusione creata dalla mente che oscura (ma mai nasconde completamente) la nostra consapevolezza di noi stessi, perché sperimentiamo il tempo solo quando confondiamo noi stessi come questa mente, e quando siamo consapevoli di noi stessi come questa mente non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Solo quando non siamo consapevoli di noi stessi come questa mente o come ogni fenomeno costruito dalla mente, come questo corpo, siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, così lo stato senza mente del sonno è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza.

Poiché la pura auto-consapevolezza è un’esperienza senza tempo, esiste eternamente, e quindi la sperimentiamo permanentemente, sia quando il tempo sembra esistere, come nella veglia e nel sogno, sia quando nessun tempo sembra esistere, come nel sonno. La sola ragione per cui immaginiamo che non sempre sperimentiamo la pura auto-consapevolezza è che ora confondiamo noi stessi come un fenomeno come questo corpo e mente. Poiché nel sonno, questo corpo e mente che ora sembrano essere noi stessi, non esistono, ora ci sembra che nel sonno non eravamo consapevoli di noi stessi, mentre ciò di cui non eravamo realmente consapevoli era qualsiasi fenomeno che nella veglia e nel sogno confondiamo come noi stessi.

7. La comune assunzione che la consapevolezza dipende dall’attività del cervello è una falsità

Nel primo commento al mio articolo precedente, Il ruolo della logica nello sviluppo di una comprensione chiara, coerente e semplice degli insegnamenti di Bhagavan, lo stesso o un altro amico anonimo ha scritto: ‘In stati di coma o di anestesia generale (quando essenzialmente il cervello si ferma completamente) potrebbe essere sostenuto che tu sei completamente inconsapevole di essere consapevole’.

Il riferimento al cervello suggerisce qui che questo amico anonimo suppone che la consapevolezza dipenda dall’attività del cervello e che quindi non possiamo essere consapevoli quando il nostro cervello non è attivo. Questa è un’assunzione sbagliata, perché il cervello è un fenomeno conosciuto solo dalla nostra mente, e la nostra mente sembra esistere solo nella veglia e nel sogno. Nella veglia, come questa mente, sperimentiamo noi stessi come questo corpo particolare, mentre nel sogno, come questa mente, sperimentiamo noi stessi come qualche altro corpo, così poiché questi sono due corpi differenti, hanno due cervelli differenti, e quindi se è sostenuto che la consapevolezza dipende dall’attività del cervello, dovremmo chiedere quale cervello: il cervello di questo corpo o il cervello del nostro corpo di sogno?

Poiché nella nostra esperienza qualsiasi corpo e cervello sembrano esistere solo quando la nostra mente sembra esistere, e poiché la nostra mente non sembra affatto esistere quando siamo nel sonno, in coma o in anestesia generale, non abbiamo ragioni adeguate per credere che in questi stati esista un qualsiasi corpo o cervello. Quindi sarebbe corretto dire che il nostro cervello in questi stati si ferma solo se in quel momento esiste realmente, che è una assunzione dubbia. Se il nostro corpo attuale è una creazione della nostra mente, come qualsiasi corpo che sperimentiamo come noi stessi in un sogno, esso esiste solo in questo stato di veglia e non nel sogno, nel sonno, nel coma o in anestesia generale, nel qual caso il suo cervello non solo si ferma ma cessa di esistere completamente in ogni stato diverso da questo.

Quindi non presupponiamo che la consapevolezza è in qualche modo dipendente da questo o qualche altro cervello. Essere consapevoli dei fenomeni nella veglia o nel sogno dipende dal nostro essere consapevoli di noi stessi come un corpo, così questo fa sembrare come se la consapevolezza dei fenomeni sia dipendente dal cervello in qualunque corpo che attualmente sperimentiamo come noi stessi, perché il cervello è l’organo nel corpo in cui l’attività mentale sembra avvenire. Tuttavia, poiché il corpo e il cervello sono entrambi fenomeni sperimentati dalla nostra mente, non abbiamo ragioni adeguare di presumere che essi esistono indipendentemente dalla nostra mente, così il fatto che l’attività mentale sembra avvenire in essi è probabilmente solo un’illusione (e secondo Bhagavan è davvero così).

8. Noi siamo consapevolezza intransitiva, che è permanente, mentre la consapevolezza transitiva è temporanea

Essere consapevoli dei fenomeni è consapevolezza transitiva (che è ciò che Bhagavan ha chiamato சுட்டறிவு (suṭṭaṟivu) o சுட்டுணர்வு (suṭṭuṇarvu), in cui la parola சுட்டு (suṭṭu) significa puntare verso, rivolgersi a, riferirsi a, indicare o mostrare, e அறிவு (aṟivu) e உணர் வு (uṇarvu) significano entrambi consapevolezza o coscienza), mentre solo essere consapevoli è consapevolezza intransitiva , così poiché non potremmo essere consapevoli dei fenomeni se non fossimo consapevoli, la consapevolezza transitiva dipende dalla consapevolezza intransitiva. Quindi la forma fondamentale di consapevolezza è solo la consapevolezza intransitiva (essere consapevoli senza essere consapevoli di qualsiasi oggetto), e la consapevolezza transitiva (essere consapevoli di oggetti) è un epifenomeno – un effetto non essenziale o un sottoprodotto di essere intransitivamente consapevoli, ma che non condiziona in alcun modo la consapevolezza intransitiva.

Cioè, per essere consapevoli di qualche fenomeno dobbiamo essere consapevoli, ma per essere consapevoli non abbiamo bisogno di essere consapevoli di qualche fenomeno, perché nel sonno eravamo consapevoli anche se in quel momento non eravamo consapevoli di alcun fenomeno (come possiamo comprendere dal semplice fatto che ora siamo consapevoli che nel sonno non eravamo consapevoli di alcun fenomeno). Quindi anche se la consapevolezza dei fenomeni (consapevolezza transitiva) fosse dipendente dall’attività neurologica nel cervello, questo non significherebbe che la consapevolezza in sé stessa (consapevolezza intransitiva) sia dipendente da tale attività.

Sebbene possiamo essere consapevoli senza essere consapevoli di alcun fenomeno, come siamo nel sonno, non potremmo essere consapevoli senza essere auto-consapevoli, perché essere consapevoli comporta essere consapevoli che siamo consapevoli, e per essere consapevoli che siamo consapevoli dobbiamo essere consapevoli sia che noi siamo, sia che ciò che è consapevole è noi stessi. Quindi essere consapevoli intransitivamente ed essere auto-consapevoli sono inseparabili, e sono realmente una stessa cosa, perché l’auto-consapevolezza è la vera natura della consapevolezza intransitiva.

Quindi quando Bhagavan dice che noi siamo consapevoli di noi stessi mentre siamo nel sonno, egli non intende che siamo un oggetto della nostra consapevolezza, perché noi siamo ciò che è consapevole, e quindi possiamo solo essere il soggetto e mai l’oggetto. Tuttavia, poiché il soggetto lo è solo in relazione agli oggetti di cui è consapevole, nel sonno non siamo neppure un soggetto perché in quel momento non ci sono oggetti di cui potremmo essere consapevoli. Essere consapevoli di noi stessi non è una relazione soggetto-oggetto, così essere auto-consapevoli non è consapevolezza transitiva ma solo consapevolezza intransitiva – consapevolezza consapevole di nient’altro che sé stessa (che è noi stessi).

La consapevolezza intransitiva che sperimentiamo durante il sonno è un’esperienza completamente senza caratteristiche, così in confronto a tutte le numerose e diversificate caratteristiche di cui siamo consapevoli nella veglia e nel sogno, alla nostra mente sembra uno stato privo di consapevolezza, mentre di fatto è privo solo della consapevolezza transitiva ma non della consapevolezza intransitiva. La consapevolezza intransitiva è il fondamento o lo sfondo su cui la consapevolezza transitiva appare e scompare, così è la realtà fondamentale, senza la quale non ci potrebbe essere nessuna consapevolezza di qualsiasi fenomeno o di qualsiasi cosa.

Quindi quando Bhagavan dice che noi siamo consapevolezza (come ha fatto, per esempio nelle frasi di Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār che ho citato nella prima sezione), non intendeva che siamo consapevolezza transitiva ma solo che siamo consapevolezza intransitiva. Quindi quando pratichiamo ātma-vicāra stiamo cercando di distinguere la nostra consapevolezza intransitiva di base, che è ciò che siamo realmente, dalla nostra consapevolezza transitiva, che è ciò che sembra esistere solo nella veglia e nel sogno ma non nel sonno.

9. Non possiamo essere inconsapevoli che siamo consapevoli

Nel commento a cui mi sono riferito all’inizio della settima sezione il nostro amico anonimo ha suggerito che ‘In stati di coma o di anestesia generale […] potrebbe essere discusso che tu sei completamente inconsapevole di essere consapevole’, ma questa è una proposizione assurda, perché non potremmo mai essere inconsapevoli di essere consapevoli. Se siamo consapevoli, dobbiamo essere consapevoli che siamo consapevoli, e se fossimo completamente inconsapevoli, non saremmo consapevoli di qualsiasi cosa, così in ogni stato dobbiamo essere o consapevoli o completamente inconsapevoli. Non possiamo essere entrambi.

Tuttavia, benché siamo consapevoli in stati come il sonno, il coma e l’anestesia generale, molti di noi non riescono a riconoscere questo quando sono consapevoli, così ritengo che questa mancanza di riconoscimento è ciò che il nostro amico anonimo confonde come essere ‘completamente inconsapevoli di essere consapevoli’. Ciò di cui siamo realmente inconsapevoli nel sonno e in tali stati è ogni fenomeno, così poiché confondiamo la consapevolezza dei fenomeni (consapevolezza transitiva) come il solo tipo di consapevolezza, riteniamo che in ogni stato in cui non eravamo consapevoli di alcun fenomeno non eravamo affatto consapevoli.

Poiché siamo consapevoli che nel sonno, nel coma o in anestesia generale, non siamo consapevoli di alcun fenomeno, in questi stati non eravamo completamente inconsapevoli, perché dobbiamo essere stati consapevoli per essere consapevoli che non eravamo consapevoli di alcun fenomeno. La consapevolezza di fenomeni (consapevolezza transitiva) accade solo quando siamo consapevoli di noi stessi come questo ego o mente, come nella veglia e nel sogno, e non accade nel sonno, nel coma o in anestesia generale, perché in questi stati non c’è ego o mente. Tuttavia, poiché nella veglia e nel sogno siamo consapevoli non solo della presenza di consapevolezza di fenomeni ma anche della completa assenza di ogni consapevolezza di fenomeni in stati come il sonno, siamo consapevoli – consapevolezza intransitiva – in tutti questi stati, sia che siamo consapevoli di qualsiasi fenomeno o no.

10. Upadēśa Undiyār verso 23: noi siamo sia ciò che esiste sia ciò che è consapevole che esistiamo

Nell stesso commento questo amico anonimo ha citato una frase che ho scritto nella sezione finale del mio articolo precedente, Come possiamo riconoscere chiaramente che siamo consapevoli di noi stessi mentre dormiamo?, vale a dire ‘Di fatto logicamente non potremmo mai essere non consapevoli di noi stessi, perché se non fossimo consapevoli di noi stessi non esisteremmo affatto, perché ciò che essenzialmente siamo è solo auto-consapevolezza’, e ha osservato, “Lascio ai filosofi analitici su questo sito decidere sulla definitiva validità di questa affermazione. Mi sembra che ci potrebbe essere qualche questione riguardo quella vecchia parola spauracchio ‘esistenza’”.

Ci possono essere questioni riguardanti il termine ‘esistenza’ perché le persone spesso ritengono che solo perché qualcosa sembra esistere deve esistere realmente, che non è necessariamente vero, così quando parliamo dell'esistenza abbiamo bisogno di distinguere l’esistenza apparente dall’esistenza reale. Ci sono anche questioni filosofiche riguardanti la domanda se l’esistenza è proprietà di ogni cosa che esiste o meno, ma queste sono questioni di cui non abbiamo bisogno di interessarci qui, perché gli insegnamenti di Bhagavan sono primariamente interessati non alle proprietà ma solo all’unica sostanza che esiste realmente, che è il nostro sé reale e che è ciò che egli chiamava உள்ளது (uḷḷadu), che significa ‘ciò che è’ o ‘ciò che esiste’. Quindi discutendo l’esistenza nel contesto dei suoi insegnamenti, la sola questione di cui abbiamo bisogno di interessarci è se qualunque cosa di cui stiamo parlando esiste realmente o soltanto sembra esistere.

Quando ho scritto, ‘Se non fossimo consapevoli di noi stessi non esisteremmo affatto, perché ciò ché essenzialmente siamo è solo auto-consapevolezza’, quello che intendevo con ‘esistere’ non era 'sembrare esistere’ ma ‘esistere realmente’. Qualunque altra cosa di cui siamo consapevoli può non esistere realmente anche se sembra esistere, perché ogni cosa diversa dal nostro sé reale potrebbe essere un’illusione. La sola che deve esistere realmente è noi stessi, perché siamo consapevoli di noi stessi e qualche volta anche di altre cose, e non potremmo essere consapevoli di qualsiasi cosa, reale o illusoria, se non esistessimo realmente. Possiamo non essere realmente qualunque cosa che ora sembriamo essere, ma dobbiamo esistere realmente, perché se non eistessimo non saremmo consapevoli di noi stessi come qualsiasi cosa che ora sembriamo essere.

Poiché siamo consapevoli di molti fenomeni che sembrano esistere ma non sembrano essere consapevoli, e poiché riteniamo che i fenomeni esistono anche quando non siamo consapevoli di essi, riteniamo che l’esistenza e la consapevolezza sono due cose distinte. Tuttavia, secondo Bhagavan esse non sono realmente due ma una cosa sola. Ciò che esiste realmente è consapevole della propria esistenza, e qualunque cosa è consapevole della propria esistenza deve esistere realmente, come spiega nel verso 23 di Upadēśa Undiyār:
உள்ள துணர வுணர்வுவே றின்மையி
னுள்ள துணர்வாகு முந்தீபற
வுணர்வேநா மாயுள முந்தீபற.

uḷḷa duṇara vuṇarvuvē ṟiṉmaiyi
ṉuḷḷa duṇarvāhu mundīpaṟa
vuṇarvēnā māyuḷa mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உள்ளது உணர உணர்வு வேறு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷḷadu uṇara uṇarvu vēṟu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarv[u]-ē nām-āy uḷam.

அன்வயம்: உள்ளது உணர வேறு உணர்வு இன்மையின், உள்ளது உணர்வு ஆகும். உணர்வே நாமாய் உளம்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḷḷadu uṇara vēṟu uṇarvu iṉmaiyiṉ, uḷḷadu uṇarvu āhum. uṇarvē nām-āy uḷam.

Traduzione: A causa della non-esistenza di [qualsiasi] uṇarvu [consapevolezza] diversa [da uḷḷadu] per conoscere uḷḷadu [ciò che esiste], uḷḷadu è uṇarvu. Solo uṇarvu esiste come noi.
Ciò che è consapevole (uṇarvu) non può essere diverso da ciò che esiste (uḷḷadu), perché se fosse diverso da esso non esisterebbe e quindi non potrebbe essere consapevole. Nello stesso modo, ciò che esiste non può essere diverso da ciò che è consapevole, perché se fosse diverso da esso non sarebbe consapevole che esiste, e quindi sembrerebbe esistere solo se esso fosse conosciuto da qualcosa diversa da sé stesso, cosa che sarebbe impossibile, poiché qualsiasi cosa diversa da ciò che esiste non esiste. Quindi ciò che esiste è esso stesso ciò che è consapevole che esso esiste, così ciò che esiste realmente e ciò che è realmente consapevole sono una cosa sola.

Poiché siamo consapevoli che esistiamo, dobbiamo esistere realmente, perché se non esistessimo realmente non potremmo essere consapevoli. Quindi noi siamo உள்ளது (uḷḷadu), ciò che esiste. E poiché non solo esistiamo ma siamo anche consapevoli che esistiamo, noi siamo உணர்வு (uṇarvu), consapevolezza. In altre parole, poiché noi che esistiamo siamo consapevoli che esistiamo, siamo non solo ciò che esiste ma anche ciò che è consapevole della nostra esistenza, così la nostra esistenza stessa è la nostra consapevolezza della nostra esistenza, e la nostra consapevolezza ‘io sono’ è ciò che siamo realmente. Quindi proprio come non potremmo essere consapevoli se non esistessimo realmente, non potremmo esistere se non fossimo realmente consapevoli.

Questo è il motivo per cui ho scritto nella frase citata dal nostro amico anonimo: ‘Di fatto logicamente non potremmo mai non essere consapevoli di noi stessi, perché se non fossimo consapevoli di noi stessi non esisteremmo affatto, perché ciò che essenzialmente siamo è solo auto-consapevolezza’. Se non fossimo ciò che è consapevole, non potremmo essere consapevoli che esistiamo, così poiché siamo sempre consapevoli che esistiamo, dobbiamo realmente essere ciò che è consapevole. Quindi poiché siamo ciò che è consapevole, non possiamo mai non essere consapevoli, perché se fossimo sempre non consapevoli avremmo cessato di essere ciò che siamo realmente.

Essere consapevoli non è una condizione contingente o accidentale, perché è ciò che siamo realmente. Solo ciò che è realmente consapevole può sempre essere consapevole, ed essere realmente consapevoli significa che non possiamo mai non essere consapevoli. La consapevolezza transitiva (consapevolezza di fenomeni o qualsiasi cosa diversa da noi stessi) è una condizione contingente, perché nella veglia e nel sogno siamo consapevoli transitivamente, mentre nel sonno non lo siamo. Tuttavia, per essere consapevoli transitivamente (cioè, consapevoli di qualsiasi fenomeno) dobbiamo essere consapevoli intransitivamente, e per essere consapevoli dell’assenza di qualsiasi fenomeno dobbiamo, nello stesso modo, essere consapevoli intransitivamente, così mentre la consapevolezza transitiva è una condizione temporanea e quindi irreale, la consapevolezza intransitiva è permanente e quindi reale, perché è ciò che siamo realmente.

Poiché ciò che esiste realmente (uḷḷadu) è ciò che è consapevole che esso esiste, e poiché essere consapevole che esso esiste non comporta alcuna transitività (ogni relazione soggetto-oggetto, cioè, ogni relazione tra una cosa che è consapevole e un'altra cosa di cui essa è consapevole), ciò che esiste realmente è consapevole intransitivamente. Quindi la consapevolezza intransitiva è la vera natura di ciò che esiste realmente, così poiché noi stessi siamo ciò che esiste realmente, noi siamo consapevolezza intransitiva. Quindi non possiamo non essere consapevoli intransitivamente, anche se nel sonno non siamo consapevoli transitivamente di qualunque cosa.

11. Il solo elemento del nostro ego che esiste realmente è la sua auto-consapevolezza essenziale

Sebbene ho scritto nella sezione precedente, nella frase precedente alla citazione del verso 23 di Upadēśa Undiyār, ‘qualunque cosa è consapevole della propria esistenza deve esistere realmente’, non intendevo che il nostro ego o mente esiste realmente come tale, perché sebbene come questo ego siamo consapevoli di noi stessi, il nostro ego è una mescolanza confusa di auto-consapevolezza e consapevolezza di altre cose, e come tale esso non esiste realmente. Il solo elemento dell’ego che esiste realmente è la sua auto-consapevolezza fondamentale (la sua essenziale consapevolezza intransitiva), perché la sua consapevolezza di altre cose (la sua contingente consapevolezza transitiva) è solo un’apparenza temporanea e quindi irreale.

Cioè, sebbene la consapevolezza transitiva sembra reale quando appare nella veglia o nel sogno, è realmente solo un’illusione, perché ciò che è transitivamente consapevole è solo il nostro ego, così la consapevolezza transitiva sorge, si regge e sprofonda insieme con la sua radice, questo ego, e se investighiamo questo ego scopriremo che come tale non esiste realmente. Questo ego è solo un’apparenza illusoria, come l’apparenza illusoria di un serpente quando una corda è confusa in tal modo. Se ispezioniamo un tale serpente illusorio con sufficiente attenzione, vedremo che come tale non esiste, e che ciò che sembrava essere quel serpente e che quindi esiste realmente è solo una corda. Nello stesso modo, se ispezioniamo il nostro ego con sufficiente attenzione, vedremo che come tale non esiste, e che ciò che sembrava essere questo ego e che quindi esiste realmente è solo la pura auto-consapevolezza intransitiva.

Sia che esso sembri questo ego transitivamente consapevole, come nella veglia e nel sogno, o no, come in stati come il sonno o l’ ātma-jñāna, la nostra pura auto-consapevolezza esiste sempre ed è intransitivamente consapevole, così essa soltanto è ciò che siamo realmente. Quindi se ci aggrappiamo all’idea che il sonno è uno stato in cui siamo completamente inconsapevoli, ci stiamo in effetti aggrappando all’illusione di essere solo questo ego transitivamente consapevole e stiamo rifiutando di accettare la premessa primaria degli insegnamenti di Bhagavan, vale a dire la proposizione che ciò che siamo realmente è solo consapevolezza – consapevolezza che è eterna, immutabile, intransitiva e auto-consapevole.

12. Upadēśa Undiyār verso 26: essere consapevoli di ciò che siamo non è consapevolezza transitiva ma solo essere la consapevolezza intransitiva che siamo realmente

Mentre si discute la distinzione tra consapevolezza intransitiva e consapevolezza transitiva, questo potrebbe essere il momento adatto per rispondere ad un altro commento scritto da un amico di nome Mouna, ma prima di farlo spiegherò il contesto in cui egli lo ha scritto. Un altro amico di nome Venkat aveva scritto un commento in cui ha osservato, ‘Questo punto riguardo la pura auto-consapevolezza non consapevole di qualsiasi altro oggetto, e benché l’istruzione di atma vichara sia di fissare la propria mente sull’auto-consapevolezza, è difficile da comprendere. È come se al serpente illusorio sia chiesto di fissare la sua attenzione sulla reale corda!’, a cui ho risposto:
Venkat, Wittgenstein ha già dato una buona risposta al tuo commento, spiegando ciò che sta accadendo nello sfondo del tuo esempio, ma Bhagavan avrebbe dato una risposta più semplice a tali domande, dicendo in effetti che il serpente illusorio non ha bisogno di cercare di fissare la sua attenzione sulla corda reale, perché tutto ciò che ha bisogno di fare è di fissare la sua attenzione su sé stesso, poiché a causa di ciò esso scoprirà di essere realmente solo una corda. In altre parole, è sufficiente se noi come questo ego osserviamo semplicemente noi stessi, chi ora sembriamo essere questo ego, perché facendo questo scopriremo che non siamo ciò che sembriamo essere ma solo infinita auto-consapevolezza.

Finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, la nostra auto-consapevolezza sembra essere finita – limitata nel tempo e nello spazio alle dimensioni di questo corpo – così non possiamo fissare la nostra attenzione sull’auto-consapevolezza infinita che siamo realmente. Tuttavia, se fissiamo la nostra attenzione su questa auto-consapevolezza limitata che ora sperimentiamo come noi stessi, questo è sufficiente, perché le sue limitazioni sembrano esistere solo finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, e quindi quando riusciamo ad essere consapevoli soltanto di noi stessi, scopriremo che questa stessa auto-consapevolezza che ora sembra essere limitata è realmente infinita – priva di tutte le limitazioni – e quindi ciò che sola esiste realmente.
Nella risposta scritta da Wittgenstein a cui mi sono riferito egli ha terminato la sua spiegazione citando un’affermazione nella sezione 240 di Talks with Sri Ramana Maharshi (edizione 2006, pagina 201), in cui è registrato che Bhagavan ha detto, ‘Voi siete confusamente consapevoli del Sé. Persegui esso. Quando lo sforzo cessa il Sé risplende’, al cui riguardo un altro amico di nome Viveka Vairagya ha scritto un commento in cui ha chiesto, ‘Come si è “confusamente consapevoli del sé”? In cosa consiste questa consapevolezza?’, a cui ho risposto:
Viveka Vairagya, ‘confusamente consapevoli del sé’ non è probabilmente una traduzione molto precisa di qualunque cosa Bhagavan ha detto in Tamil, ma penso che egli intendeva che sebbene siamo consapevoli di noi stessi, la nostra auto-consapevolezza non è sufficientemente chiara, perché sebbene siamo chiaramente consapevoli che noi siamo, non siamo chiaramente consapevoli di cosa siamo (poiché ora siamo consapevoli di noi stessi come questo ego mischiato ad aggiunte). Tuttavia, se ‘perseguiamo’ (cioè, osserviamo acutamente e persistentemente) la nostra attuale auto-consapevolezza, essa risplenderà sempre più chiaramente, finché finalmente dissolverà completamente il nostro ego (come il sole che sorge dissolve la nebbia tropicale del mattino) e rimarrà da sola, risplendente in tutto il suo splendore, che è ciò che Bhagavan intendeva dicendo che il sé ‘risplende’.
In risposta a questo Viveka Vairagya ha scritto un altro commento in cui ha chiesto, ‘Così, sostanzialmente abbiamo bisogno di mantenerci sul nostro senso di ‘io’ o Essere senza pensare a qualsiasi altro pensiero, giusto?’, a cui ho risposto, ‘Si, Viveka Vairagya, questo è tutto. Abbiamo solo bisogno di mantenerci sull’essere attentivi a noi stessi come ora siamo consapevoli di noi stessi, e da questo ciò che siamo realmente diventerà chiaro’. Queste ultime due mie risposte hanno spinto Mouna a scrivere un altro commento in cui ha osservato:
Durante questi anni mi sono sempre sentito un po’ a disagio con la tua affermazione: “… perché sebbene siamo chiaramente consapevoli che noi siamo non siamo chiaramente consapevoli di cosa siamo”. Potrebbe essere semplicemente semantica o i miei limiti nella lingua Inglese (non essendo un parlatore Inglese nativo) ma sebbene comprendo ciò che l’intento di una frase come questa potrebbe indicare o implicare, alla fine potrebbe creare più confusione a una mente non addestrata come la mia.

Essere chiaramente (o anche non così chiaramente) consapevoli di cosa siamo (o di qualsiasi cosa in quanto a ciò) implica qualcosa di cui essere consapevoli (ergo un osservatore di quello). Così da un punto di vista, e in questo contesto, non saremo mai consapevoli di ciò che siamo, possiamo solo sapere che siamo e dimorare in quella conoscenza, allora siamo essendo esso (poiché conoscenza è uguale a essere come afferma il primo mangalam dell’Ulladu Narpadu di Bhagavan). Quando l’ego scompare, o apparentemente per qualche tempo (sonno profondo, svenimento, anestesia) o muore (manonasa), non dovrebbe esserci qualcuno per conoscere quel cosa, c’è semplicemente essere. Essere e conoscenza, ma pura conoscenza, non quella oggettivata che conoscerà cosa quell’essere è.

La completa estinzione o scomparsa dell’ego sarebbe qui la chiave, piuttosto che la chiarezza di cosa siamo. (Sebbene presumo che è ciò che è inteso con chiarezza di cosa siamo, giusto?)
In risposta a questo ho scritto un commento in cui ho spiegato:
Mouna, a causa dei limiti inerenti del linguaggio, qualunque cosa è detta riguardo questo tema è soggetta a creare confusione se il significato inteso non è compreso chiaramente, e questo è particolarmente vero con la questione che hai sollevato nel tuo commento.

Come dici, riguardo a noi stessi non dobbiamo realmente conoscere niente più che ‘io sono’ (la consapevolezza che noi siamo), che è ciò che già conosciamo, e questo è il motivo per cui Bhagavan spesso ha detto che ātma-jñāna non è una nuova conoscenza che dobbiamo ottenere nel futuro, perché quello che deve essere conosciuto è già conosciuto. Il problema non è che non conosciamo ‘io sono’, ma che conosciamo più che solo ‘io sono’, così quello di cui abbiamo bisogno non è ottenere qualche nuova conoscenza ma solo spogliarsi di tutta la conoscenza diversa da ‘io sono’.

Quindi la ragione per cui Bhagavan riconosce che non siamo chiaramente consapevoli di cosa siamo non è che abbiamo bisogno di conoscere qualcosa in più che solo ‘io sono’, ma che ora abbiamo una conoscenza sbagliata riguardo a ‘io sono’ (una consapevolezza illusa di cosa siamo), perché siamo consapevoli di noi stessi come ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ (cioè, ‘io sono questo ego, mente, corpo e così via), così ciò che è inteso con ‘essere chiaramente consapevoli di cosa siamo’ è semplicemente essere consapevoli che siamo senza la sovrapposizione di qualsiasi aggiunta come questo ego, mente o corpo. Quindi sei nel giusto dicendo, ‘La completa estinzione o scomparsa dell’ego dovrebbe essere qui la chiave, piuttosto che la chiarezza di cosa siamo’, ma anche aggiungi, ‘questo è ciò che è inteso con chiarezza di cosa siamo’.

Questo è un semplice modo di rispondere alla tua domanda implicita, ma essa realmente merita una risposta ancora più attenta, che può meglio essere fatta in termini della distinzione tra consapevolezza transitiva (o suṭṭaṟivu, come Bhagavan generalmente la chiamava) e consapevolezza intransitiva, che è la reale consapevolezza che siamo veramente, così poiché questo è un soggetto che sto trattando in una certa profondità nell’articolo che sto ora scrivendo riguardo la nostra consapevolezza nel sonno, darò una risposta più dettagliata a questo tuo commento in quell’articolo.
Poiché Mouna ha scritto nel suo commento,’Essere chiaramente (o anche non così chiaramente) consapevoli di cosa siamo (o di qualsiasi cosa in quanto a ciò) implica qualcosa di cui essere consapevoli (ergo un osservatore di quello)', sembra che egli ha interpretato il termine ‘essere consapevoli di cosa siamo’ nel significato di qualche genere di consapevolezza transitiva o suṭṭaṟivu – cioè, una consapevolezza di qualcosa diversa da noi stessi – ma questo non è il significato in cui si intende questo termine, perché ciò che siamo realmente non può essere qualcosa diverso da noi stessi. Come Bhagavan ha inteso in molti suoi versi, come il verso 20 di Upadēśa Undiyār, il verso 30 di Uḷḷadu Nāṟpadu e il verso 2 di Āṉma-Viddai, la sola risposta corretta che può essere espressa in parole alla domanda ‘நான் யார்?’ (nāṉ yār?) o ‘chi sono io?’ è ‘நான் நான்’ (nāṉ nāṉ) o ‘io sono io’, perché non possiamo essere qualsiasi cosa diversa da soltanto noi stessi.

‘Io sono io’ è consapevolezza di noi stessi come siamo realmente, e non è una consapevolezza transitiva, perché essa non comporta alcuna transizione o trasferimento della nostra consapevolezza da noi stessi a qualsiasi altra cosa, mentre ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ è consapevolezza di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, così è una consapevolezza transitiva, perché comporta una transizione o trasferimento della nostra consapevolezza da noi stessi a qualcos’altro. Quando è detto che, come questo ego, non conosciamo ciò che siamo, significa che non siamo consapevoli di noi stessi come ‘io sono io’, perché invece siamo consapevoli di noi stessi come ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’. Quindi per conoscere ciò che siamo, dobbiamo solo cessare di sperimentare noi stessi come qualsiasi cosa diversa da noi stessi, che significa che dobbiamo annientare il nostro ego, la consapevolezza illusoria di noi stessi come ‘io sono questo’ o ‘ io sono quello’.

Tuttavia, poiché il nostro ego è una consapevolezza illusoria di noi stessi – una consapevolezza di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente – esso può essere distrutto solo dalla corretta consapevolezza di noi stessi, che significa consapevolezza di noi stessi come siamo realmente. Quindi quando Mouna ha scritto, ‘La completa estinzione o scomparsa dell’ego sarebbe qui la chiave, piuttosto che la chiarezza di cosa siamo’, egli stava tralasciando il fatto che l’estinzione del nostro ego può essere compiuta solo dalla chiarezza di cosa siamo – cioè, dalla chiara consapevolezza di noi stessi come siamo realmente.

Essere consapevoli di ciò che siamo realmente non significa essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da ‘io sono’, che è la nostra consapevolezza che noi siamo, così essere consapevoli di cosa siamo significa solo essere consapevoli che noi siamo senza essere consapevoli di qualsiasi altra cosa. Essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente è quindi una consapevolezza assolutamente intransitiva, mentre essere consapevoli di noi stessi come questo ego è una consapevolezza transitiva, perché è una consapevolezza di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente.

La parola Inglese ‘transitiva’ è derivata dal Latino transitivus, che significa attraversare, passare o transitare, così un verbo è detto transitivo se prende un oggetto diretto (perche descrive un’azione o condizione che passa dal soggetto all’oggetto), e intransitivo se non prende alcun oggetto. Quindi, la consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è chiamata consapevolezza transitiva, perché comporta che la nostra consapevolezza o attenzione transiti lontano da noi stessi verso qualche altra cosa, mentre la sola consapevolezza (essere consapevoli senza essere consapevoli di alcun oggetto) o consapevolezza soltanto di noi stessi (che è uguale a sola consapevolezza) è chiamata consapevolezza intransitiva, perché non comporta che la nostra consapevolezza o attenzione transiti lontano da noi stessi verso qualsiasi altra cosa. Nello stesso modo la parola Tamil சுட்டு (suṭṭu) significa puntare verso, mirare a, riferirsi a, indicare o mostrare, così சுட்டறிவு (suṭṭaṟivu) e சுட்டுணர்வு (suṭṭuṇarvu), che significano entrambe ‘consapevolezza che si riferisce’, sono termini che Bhagavan ha usato frequentemente per riferirsi alla consapevolezza transitiva – consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi – perché comporta che la nostra consapevolezza o attenzione sia rivolta lontano da noi stessi verso qualcos’altro.

La radice di tutta la consapevolezza transitiva (suṭṭaṟivu o suṭṭuṇarvu) è solo il nostro ego, che è una mescolanza della nostra auto-consapevolezza intransitiva e la nostra consapevolezza transitiva di determinate aggiunte (upādhis ) che sperimentiamo come noi stessi. Poiché diveniamo consapevoli dell’esistenza apparente di qualsiasi cosa diversa da noi stessi solo quando sorgiamo come questo ego, e poiché non potremmo sorgere o reggerci come questo ego se non confondessimo noi stessi come un corpo e altre aggiunte collegate, la forma primaria di சுட்டுணர்வு (suṭṭuṇarvu) o consapevolezza transitiva è உபாதியுணர்வு (upādhi-y-uṇarvu), la nostra consapevolezza di qualunque aggiunta che attualmente sembra essere noi stessi.

Essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente comporta l’essere consapevoli di noi stessi senza anche la minima mescolanza di ogni consapevolezza aggiunta (upādhi-y-uṇarvu), che è ciò che Bhagavan descrive nel verso 25 di Upadēśa Undiyār come ‘தன்னை உபாதி விட்டு ஓர்வது’ (taṉṉai upādhi viṭṭu ōrvadu), che significa ‘conoscere sé stessi lasciando da parte le aggiunte’, così è consapevolezza priva proprio del seme della consapevolezza transitiva. Quindi essere consapevoli di ciò che siamo realmente è del tutto dissimile da ogni altra forma di consapevolezza, inclusa la consapevolezza di noi stessi come questo ego, che è la radice di tutte le altre forme di consapevolezza, perché è completamente priva di transitività o ‘riferimento’ (suṭṭu).

Essere transitivamente consapevoli (cioè, consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi) è un atto di conoscenza, perché comporta un movimento della nostra mente lontano da noi stessi verso qualcos’altro, mentre essere intransitivamente consapevole (cioè, consapevoli di niente altro che noi stessi) non è un atto di conoscenza, perché non comporta alcun movimento della nostra mente, attenzione o consapevolezza lontano da noi stessi. Quindi essere intransitivamente consapevoli non è un’azione o un’attività della nostra mente ma uno stato di solo essere – cioè, solo essere la pura consapevolezza che siamo realmente.

Quindi, poiché la consapevolezza libera dalla transitività non è un atto di conoscenza ma uno stato di solo essere consapevoli, nel verso 26 di Upadēśa Undiyār Bhagavan dice:
தானா யிருத்தலே தன்னை யறிதலாந்
தானிரண் டற்றதா லுந்தீபற
தன்மய நிட்டையீ துந்தீபற.

tāṉā yiruttalē taṉṉai yaṟidalān
tāṉiraṇ ḍaṯṟadā lundīpaṟa
taṉmaya niṭṭhaiyī dundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால். தன்மய நிட்டை ஈது.

Padacchēdam (separazione delle parole): tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām, tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl. taṉmaya niṭṭhai īdu.

அன்வயம்: தான் இரண்டு அற்றதால், தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம். ஈது தன்மய நிட்டை.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl, tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām. īdu taṉmaya niṭṭhai.

Traduzione: Solo essere sé stesso è conoscere sé stesso, perché sé stesso non è due. Questo è tanmaya-niṣṭha [lo stato di essere fermamente stabiliti come tat, ‘esso’ o ‘quello’, l’unica realtà assoluta chiamata brahman].
La transitività o ‘riferimento’ (suṭṭu) della consapevolezza avviene solo quando due cose sono coinvolte, una delle quali è consapevole dell’altra, così poiché non siamo due cose ma solo una, la pura auto-consapevolezza o conoscere noi stessi come siamo realmente non comporta alcuna transitività. Questo è il motivo per cui nella seconda riga di questo verso Bhagavan ha detto ‘தான் இரண்டு அற்றதால்’ (tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl), che significa ‘poiché sé stesso non è due’, intendendo quindi che questa è la ragione per cui non possiamo conoscere noi stessi transitivamente (cioè, per mezzo di un atto di conoscenza) ma solo intransitivamente (cioè, per mezzo del solo essere la pura auto-consapevolezza che siamo realmente).

Questo è anche ciò che ha inteso nelle ultime due righe del verso 33 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
தனைவிடய மாக்கவிரு தானுண்டோ வொன்றா
யனைவரனு பூதியுண்மை யால்.

taṉaiviḍaya mākkaviru tāṉuṇḍō voṉḏṟā
yaṉaivaraṉu bhūtiyuṇmai yāl
.

பதச்சேதம்: தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? ஒன்று ஆய் அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஆல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? oṉḏṟu āy aṉaivar aṉubhūti uṇmai āl.

அன்வயம்: தனை விடயம் ஆக்க இரு தான் உண்டோ? அனைவர் அனுபூதி உண்மை ஒன்றாய்; ஆல்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): taṉai viḍayam ākka iru tāṉ uṇḍō? aṉaivar aṉubhūti uṇmai oṉḏṟu āy; āl.

Traduzione: Per rendere sé stessi un viṣaya [un fenomeno o oggetto della propria consapevolezza], ci sono due sé? Perché essere uno è la verità dell’esperienza di tutti.
Nel verso 26 di Upadēśa Undiyār e in questo verso di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan non solo ci indica la natura della meta che infine raggiungeremo, ma anche ci dà un indizio estremamente prezioso riguardo la natura del sentiero di ātma-vicāra con cui la raggiungeremo. Cioè, quando spiega che ātma-vicāra è la pratica di investigare noi stessi, osservare noi stessi, guardare noi stessi, attendere a noi stessi, essere attentivamente consapevoli di noi stessi o fissare la nostra mentre in o su noi stessi, non intende che siamo un oggetto che possiamo investigare, osservare, guardare, a cui possiamo attendere o di cui essere consapevoli. Investigare, osservare, guardare attendere a, essere consapevoli di o fissare la nostra mente su un oggetto è una forma transitiva di conoscenza, mentre investigare, osservare, guardare, attendere a, essere consapevoli di o fissare la nostra mente su noi stessi è una forma intransitiva di conoscenza – una forma di conoscenza che comporta solo essere consapevoli come lo siamo nel sonno, quando non siamo consapevoli di qualunque cosa diversa da noi stessi.

Come Sadhu Om era solito dire, sebbene usiamo il termine ‘attendere a noi stessi’, l’attenzione a noi stessi non è un caso di ‘dare attenzione’ ma solo di ‘essere attenzione’. Cioè, poiché l’attenzione è una forma selettiva di consapevolezza, l’essenza dell’attenzione è solo consapevolezza, e poiché l’essenza della consapevolezza è solo consapevolezza intransitiva, che è ciò che siamo realmente, possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente solo essendo intransitivamente consapevoli – cioè, consapevoli ma senza dare anche il minimo spazio al sorgere di ogni consapevolezza transitiva (consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi).

Quindi ciò che è inteso con i termini ‘essere consapevoli di cosa siamo’ e ‘essere consapevoli di noi stessi come siamo’ è solo essere intransitivamente consapevoli – consapevoli senza sorgere come questo ego per essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Poiché ciò che è consapevole di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo il nostro ego, non possiamo essere consapevoli di qualsiasi altra cosa senza sorgere come questo ego, e nello stesso modo non possiamo sorgere o reggerci come questo ego senza essere consapevoli di cose diverse da noi stessi, così questo ego e la consapevolezza transitiva (suṭṭaṟivu) sono inseparabili. Quindi possiamo sperimentare ciò che siamo realmente solo essendo pura consapevolezza intransitiva – consapevolezza di niente altro che noi stessi ‘io sono’ – perché quello solo è ciò che siamo realmente.

13. Il silenzio è il solo linguaggio intransitivo, così esso solo può rivelare la vera natura della pura consapevolezza intransitiva

Come ho scritto all’inizio della mia risposta iniziale a Mouna, ‘a causa delle inerenti limitazioni del linguaggio, qualunque cosa è detta riguardo questo tema è soggetta a creare confusione se il significato inteso non è compreso chiaramente’, perché nessuna parola può esprimere adeguatamente ciò che siamo realmente o cos’è essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente. La ragione della nostra incapacità di esprimete questo in un linguaggio è che il linguaggio è in natura inerentemente transitivo, perché ogni volta che usiamo il linguaggio sia in parole che in scritto lo stiamo usando per dire qualcosa – per trasmettere qualche significato. Anche se lo usiamo per dire o scrivere un nonsenso, quel nonsenso è ancora un oggetto prodotto dal nostro parlare o scrivere, così la sua produzione è un’azione transitiva – un’azione che produce qualcosa.

Poiché il linguaggio è inerentemente transitivo, lo possiamo usare adeguatamente solo per trasmettere ciò che conosciamo transitivamente, e non ciò che conosciamo intransitivamente. Questo è perché nessuna parola in qualsiasi linguaggio può adeguatamente trasmettere ciò che sperimentiamo nel sonno, tranne che in termini puramente negativi, e perché non possiamo esprimere adeguatamente in parole cos’è realmente l’auto-consapevolezza o consapevolezza di ‘io’.

Qualunque cosa che sperimentiamo transitivamente ha determinate caratteristiche, che possiamo descrivere o tentare di descrivere in parole, mentre ciò che sperimentiamo intransitivamente non ha caratteristiche che possano essere adeguatamente espresse o descritte in parole. Anche se cerchiamo di usare il linguaggio per esprimere a noi stessi nella nostra mente cos’è l’auto-consapevolezza o il nostro senso di ‘io’, rimarremmo senza parole e resteremmo semplicemente in silenzio – cioè, silenziosamente consapevoli del nostro ineffabile sé. Questo è il motivo per cui Bhagavan era solito dire che il silenzio è il linguaggio supremo e il solo linguaggio che può trasmettere la verità di noi stessi.

Tuttavia, anche dire che il silenzio trasmette la verità di noi stessi non è del tutto vero, perché ciò comporta che la verità di noi stessi sia un oggetto trasmesso dal silenzio, e che la sua trasmissione sia quindi transitiva, cose che entrambi non sono così. Questo è il motivo per cui nel verso 5 di Ēkāṉma Pañcakam Bhagavan ha descritto l’insegnamento silenzioso dell’ādi-guru (il guru originale, Dakshinamurti) come ‘செப்பாது செப்பி’ (seppādu seppi), che significa ‘parlare senza parlare’, ‘dire senza dire’ o ‘esprimere senza esprimere’, e ha chiesto retoricamente: ‘அப்போது அவ் வத்துவை ஆதி குரு செப்பாது செப்பி தெரியுமா செய்தனரேல், எவர் செப்பி தெரிவிப்பர்?’ (appōdu a-v-vattuvai ādi-guru seppādu seppi teriyumā seydaṉarēl, evar seppi terivippar?), che significa ‘Se a quel tempo l’ādi-guru rese quel vastu [ēkātma-vastu, l’’unica auto-sostanza’, che sola è ciò che sempre esiste] conosciuto parlando senza parlare, chi può renderlo conosciuto parlando?’

Sebbene Bhagavan ci ha insegnato per mezzo di parole, ha spiegato che nessuna parola potrebbe mai rivelare la vera natura di noi stessi, così le sue parole possono solo indicare il mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente. Tuttavia, poiché le parole non possono trasmettere adeguatamente il significato che egli intendeva trasmettere attraverso di esse, siamo in grado di afferrare il significato inteso delle sue parole solo nella misura in cui riusciamo a rivolgere la nostra mente all’interno per essere silenziosamente e vigilantemente auto-attentivi. Questo è il motivo per cui śravaṇa (ascolto o lettura delle sue parole), manana (riflessione sul loro significato e le loro implicazioni) e nididhyāsana (contemplazione, la pratica di essere auto-attentivi) insieme formano un singolo processo iterativo che deve continuare ripetutamente finché il nostro ego è infine dissolto nella perfetta chiarezza della pura auto-consapevolezza.

L’auto-attentività (nididhyāsana) è la pratica di accordare la nostra mente con il perfetto silenzio della pura auto-consapevolezza che sempre risplende nel nostro cuore, così essa sola può darci la chiarezza e l’acutezza mentale che ci è richiesta per afferrare la piena profondità e la sottigliezza di significato e di implicazioni che Bhagavan intendeva trasmettere attraverso le sue parole. Quindi più pratichiamo l’essere silenziosamente auto-attentivi, più chiaramente saremo in grado di comprendere ciò che leggiamo o ascoltiamo delle sue parole, e di conseguenza più profonda e sottile diventerà la nostra manana.

Quando si cerca di spiegare ciò che Bhagavan intendeva quando ha detto che il suo reale insegnamento è solo il silenzio, alcuni devoti dicono o scrivono che con la sua silente presenza egli ha trasmesso la sua grazia o auto-conoscenza, ma sebbene questo può sembrare vero dalla prospettiva di un devoto auto-ignorante alla sua presenza, non è effettivamente corretto, perché il silenzio a cui si è riferito è assolutamente intransitivo, poiché non è niente altro che la pura auto-consapevolezza che siamo realmente e che sempre risplende nel e come il nostro cuore, il vero centro di noi stessi. La trasmissione di qualsiasi cosa è un’azione transitiva, perché essa comporta che una cosa trasmetta un’altra cosa a qualche altra cosa, così poiché il silenzio di Bhagavan è il nostro sé reale (ātma-svarūpa), oltre al quale niente esiste, esso non trasmette realmente niente a nessuno.

Bhagavan ha descritto il silenzio come il linguaggio perfetto perché diversamente da tutti gli altri linguaggi esso è assolutamente intransitivo, e la sua intransitività è ciò che lo rende il linguaggio ideale per ‘parlare senza parlare’ o ‘rivelare senza rivelare’ la vera esperienza della pura auto-consapevolezza, perché la pura auto-consapevolezza è assolutamente intransitiva, e quindi la sua vera natura è assoluto silenzio. In altre parole, la pura auto-consapevolezza, che è la sorgente e la sostanza sia del nostro ego che di ogni cosa che questo ego conosce transitivamente, rivela sé stessa intransitivamente nel silenzio semplicemente essendo sé stessa, e se vogliamo sentire la sua rivelazione silenziosa, possiamo farlo solo essendo perfettamente silenziosi – cioè, intransitivamente e quindi silenziosamente consapevoli soltanto di noi stessi.

14. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 13: la reale consapevolezza è noi stessi, mentre la consapevolezza di altre cose è ignoranza

In un commento ad uno dei miei articoli recenti, Perché dovremmo credere a ciò che Bhagavan ci ha insegnato?, un amico che scrive con lo pseudonimo ‘Viveka Vairagya’ ha citato un estratto da ciò che HWL Poonja (o Papaji, come i suoi devoti lo chiamano) si presume abbia detto, come riportato nella pagina Consciousness del sito web Satsang with Papaji. Poiché Poonja è stato un devoto di Bhagavan, non sorprendentemente molto di ciò che egli ha detto in questo estratto sembra superficialmente più o meno in accordo con ciò che Bhagavan ci ha insegnato, ma qualcosa di esso sembra non chiaro e confuso, e in diversi punti egli ha deviato in modo significativo dagli insegnamenti di Bhagavan, particolarmente per quanto ha detto riguardo al sonno, vale a dire: ‘Questo è uno stato ottuso perché non c’è affatto consapevolezza così puoi non riconoscerlo. Nel sonno profondo tu dimentichi te stesso completamente’.

Questo è completamente contrario a uno dei principi più fondamentali degli insegnamenti di Bhagavan, vale a dire il principio che ciò che siamo realmente è solo consapevolezza, e che quindi siamo sempre consapevoli di noi stessi, non solo nella veglia e nel sogno ma anche nel sonno. Il fatto che siamo chiaramente consapevoli di noi stessi mentre siamo nel sonno è la premessa cruciale su cui Bhagavan ha affermato il suo intero insegnamento, o almeno il nucleo essenziale di essi, ed esso è stato da lui enfatizzato ripetutamente ed inequivocabilmente, come nella seguente affermazione registrata nel primo capitolo di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagina 9) (che è anche registrato in parole leggermente differenti nella sezione 313 di Talks with Sri Ramana Maharshi (edizione 2006, pagina 286)):
Il sonno non è ignoranza, è il proprio puro stato; la veglia non è conoscenza, è ignoranza. C’è piena consapevolezza nel sonno e totale ignoranza nella veglia. La tua vera natura copre entrambi e si estende oltre.
Il sonno sembra uno stato ottuso e privo di consapevolezza solo nella visione della mente auto-ignoranza ed estrovertita, ma più pratichiamo l’essere auto-attentivi accuratamente e vigilantemente più chiaro ci diventerà che esso è realmente uno stato di pura auto-consapevolezza, priva della consapevolezza di ogni altra cosa. Quindi dobbiamo chiederci perché Poonja credeva che ‘non c’è affatto consapevolezza’ nel sonno. Se egli aveva praticato e compreso chiaramente gli insegnamenti di Bhagavan, come può essersi lasciato sfuggire il fatto cruciale che noi siamo chiaramente auto-consapevoli anche mentre siamo nel sonno?

Per molte persone l’idea che il sonno è uno stato di completa e perfetta consapevolezza e che la veglia è uno stato di totale ignoranza, come affermato da Bhagavan in questo brano registrato in Maharshi’s Gospel e in Talks, è difficile da accettare, perché è contrario a tutto quello che siamo stati abituati a presumere e a credere. Tuttavia è una premessa talmente fondamentale e cruciale degli insegnamenti di Bhagavan che non ci possiamo permettere di ignorarla o di non afferrare chiaramente il suo significato, così per riflettere su di essa più profondamente consideriamo come è strettamente collegata a ciò che egli ci insegna nel verso 13 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
ஞானமாந் தானேமெய் நானாவா ஞானமஞ்
ஞானமாம் பொய்யாமஞ் ஞானமுமே — ஞானமாந்
தன்னையன்றி யின்றணிக டாம்பலவும் பொய்மெய்யாம்
பொன்னையன்றி யுண்டோ புகல்.

ñāṉamān tāṉēmey nāṉāvā ñāṉamañ
ñāṉamām poyyāmañ ñāṉamumē — ñāṉamān
taṉṉaiyaṉḏṟi yiṉḏṟaṇika ḍāmpalavum poymeyyām
poṉṉaiyaṉḏṟi yuṇḍō puhal
.

பதச்சேதம்: ஞானம் ஆம் தானே மெய். நானா ஆம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம். பொய் ஆம் அஞ்ஞானமுமே ஞானம் ஆம் தன்னை அன்றி இன்று. அணிகள் தாம் பலவும் பொய்; மெய் ஆம் பொன்னை அன்றி உண்டோ? புகல்.

Padacchēdam (separazione delle parole): ñāṉam ām tāṉē mey. nāṉā ām ñāṉam aññāṉam ām. poy ām aññāṉamumē ñāṉam ām taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu. aṇikaḷ tām palavum poy; mey ām poṉṉai aṉḏṟi uṇḍō? puhal.

Traduzione: Solo sé stesso, che è conoscenza, è reale. La conoscenza che è molti è ignoranza. Anche l’ignoranza, che è irreale, non esiste oltre a sé stesso, che è conoscenza. Tutti i molti ornamenti sono irreali; dimmi, essi esistono oltre all’oro, che è reale?
ஞானம் (ñāṉam) è una forma Tamil della parola Sanscrita ज्ञान (jñāna), che significa conoscere, conoscenza, cognizione, coscienza o consapevolezza, e அஞ்ஞானம் (aññāṉam) è una forma Tamil della parola Sanscrita अज्ञान (ajñāna), che significa ignoranza, in modo particolare nel senso di ignoranza spirituale o auto-ignoranza. Come Bhagavan afferma nella prima frase di questo verso, ciò che è reale è solo noi stessi, e ciò che noi siamo è solo jñāna — conoscenza o consapevolezza. In questo contesto jñāna non significa conoscenza o consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così non è consapevolezza transitiva ma solo consapevolezza intransitiva – pura auto-consapevolezza.

Nella seconda frase ‘நானாவாம் ஞானம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam) significa letteralmente conoscenza o consapevolezza che è molti, molteplice, diversa, differente, distinta o separata, così implica conoscenza o consapevolezza della molteplicità, diversità o alterità, e quindi si riferisce alla consapevolezza transitiva – consapevolezza di fenomeni o cose diverse da noi stessi. Questa conoscenza o consapevolezza, dice Bhagavan, non è reale conoscenza ma solo ignoranza (ajñāna). Quindi dicendo ‘நானாவாம் ஞானம் அஞ்ஞானம் ஆம்’ (nāṉā-v-ām ñāṉam aññāṉam ām), ‘conoscenza della molteplicità è ignoranza’, egli implica che la consapevolezza di molteplici fenomeni nella veglia e nel sogno non è reale conoscenza o consapevolezza ma solo ignoranza. Questo è il motivo per cui egli ha detto nel brano suddetto di Maharshi’s Gospel, ‘Il sonno non è ignoranza, è il proprio puro stato; la veglia non è conoscenza, è ignoranza. C’è piena consapevolezza nel sonno e totale ignoranza nella veglia.

Nella terza frase di questo verso, ‘பொய் ஆம் அஞ்ஞானமுமே ஞானம் ஆம் தன்னை அன்றி இன்று’ (poy ām aññāṉamumē ñāṉam ām taṉṉai aṉḏṟi iṉḏṟu), che significa ‘Anche [questa] ignoranza, che è irreale, non esiste oltre a sé stesso, che è conoscenza’, egli intende che la consapevolezza transitiva (consapevolezza di cose diverse da sé stessi) è irreale e quindi non potrebbe sembrare esistere senza noi stessi, la fondamentale consapevolezza intransitiva, che sola è reale. Per illustrare ciò che intende con questo egli si riferisce all’analogia degli ornamenti d’oro, che non esistono indipendentemente dall’oro, che è la loro sostanza, e così egli intende che noi stessi siamo la sostanza che sembra essere tutta questa consapevolezza della molteplicità o diversità.

Cioè, poiché esistiamo nella veglia, nel sogno e nel sonno, e poiché siamo consapevoli di noi stessi in ciascuno di questi stati, noi siamo la fondamentale consapevolezza intransitiva, senza la quale non ci potrebbe essere alcuna consapevolezza transitiva. E poiché la consapevolezza transitiva sembra esistere solo nella veglia e nel sogno ma non nel sonno, è impermanente e di conseguenza irreale. Quindi la consapevolezza transitiva che sperimentiamo nella veglia e nel sogno non è reale, e perciò non è vera consapevolezza ma solo ignoranza.

Solo se crediamo che questa consapevolezza transitiva è la nostra reale consapevolezza concluderemo che poiché nel sonno essa non esiste, il sonno è ‘uno stato ottuso’ in cui ‘non c’è affatto consapevolezza’, come Poonja si presume che abbia detto. Tuttavia, se abbiamo compreso perché Bhagavan ha detto che la consapevolezza della molteplicità è realmente solo ignoranza e completamente irreale, e se abbiamo praticato cercando di attendere solo alla pura consapevolezza intransitiva che realmente siamo, non confonderemo l’assenza di consapevolezza transitiva nel sonno come un’assenza completa di tutta la consapevolezza, perché riconosceremo chiaramente che la nostra fondamentale consapevolezza intransitiva permane sia che questa consapevolezza transitiva illusoria appaia sia che scompaia.

15. Non possiamo mai dimenticare completamente noi stessi, perché sebbene come questo ego abbiamo dimenticato cosa siamo, siamo sempre consapevoli che noi siamo

Poonja non solo ha affermato che il sonno è ‘uno stato ottuso’ in cui ‘non c’è affatto consapevolezza’, ma ha anche enfatizzato questo aggiungendo, ‘Nel sonno profondo dimentichi completamente te stesso’. Cosa intende dicendo questo? Come possiamo mai dimenticare completamente noi stessi? È vero, come egli intende nella sua frase successiva, che nel sonno dimentichiamo il nostro corpo, i sensi e tutti gli oggetti, ma nessuno di questo fenomeni è noi stessi, e non dimentichiamo noi stessi completamente, perché siamo sempre auto-consapevoli, anche quando non siamo consapevoli di alcun fenomeno, poiché l’auto-consapevolezza è la nostra vera natura – ciò che siamo realmente.

Considerando noi stessi, ciò che nel sonno dimentichiamo, che dimentichiamo anche nella veglia e nel sogno, è cosa siamo, ma non possiamo mai dimenticare completamente noi stessi, perché siamo sempre chiaramente consapevoli che noi siamo. Tuttavia, anche dire che, come nella veglia e nel sogno, nel sonno abbiamo dimenticato cosa siamo è vero solo dalla prospettiva del nostro ego o mente, che sembra esistere solo nella veglia e nel sogno ma non nel sonno. Ciò che esiste e ciò di cui siamo consapevoli nel sonno è solo il nostro sé reale (ātma-svarūpa), che è sempre consapevole di sé stesso come realmente è, così come tali non dimentichiamo mai cosa siamo.

Dimenticare cosa siamo è la natura del nostro ego, che non esiste nel sonno, così è solo dalla prospettiva di questo ego auto-ignorante che diciamo che in tutti questi tre stati abbiamo dimenticato cosa siamo. Per quanto riguarda il sonno, tuttavia, questo è vero solo nel senso che il nostro ego non ricorda cosa è anche nel sonno, ma questo è causato dal fatto che in quel momento esso non esiste.

La ragione per cui la dimenticanza di cosa siamo è la vera natura del nostro ego è che questo ego è una conoscenza errata di noi stessi – una consapevolezza illusoria di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente. Quindi questo ego sembra esistere solo finché siamo consapevoli di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, così quando rivolgiamo la nostra attenzione all’interno e riusciamo ad essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi, in completo isolamento anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa, sperimenteremo chiaramente noi stessi come siamo realmente e a causa di ciò il nostro ego sarà annientato completamente e per sempre.

Poiché il nostro ego è dimenticanza di cosa siamo, e poiché senza il nostro ego non ci sarebbe una cosa come la dimenticanza (poiché non ci sarebbe niente altro che il nostro sé reale, che non può dimenticare sé stesso), il sonno è realmente l'unico di questi tre stati in cui la dimenticanza di cosa siamo non esiste e neppure sembra esistere. Solo nella veglia e nel sogno siamo consapevoli di noi stessi come qualcosa diversa da ciò che siamo realmente, così è solo in questi due stati che sembriamo aver dimenticato ciò che siamo realmente. Tuttavia, sebbene nel sonno non dimentichiamo realmente cosa siamo, dalla prospettiva del nostro ego nella veglia e nel sogno sembra come se nel sonno abbiamo dimenticato noi stessi come siamo realmente.

16. Il sonno è il nostro vero ed eterno stato di pura auto-consapevolezza, così esso sembra essere imperfetto solo dalla prospettiva del nostro ego

In realtà nel sonno non c’è affatto difetto, perché tutti i difetti esistono solo per l’ego, che nel sonno non esiste. Anche ora questo ego non esiste affatto, ma sembra esistere, mentre nel sonno neppure sembra esistere. Finché sembra esistere, sembriamo entrare ed uscire dal sonno, così il solo problema con il sonno è che è temporaneo, perché sembriamo uscire da esso ogni volta sorgiamo come questo ego nella veglia o nel sogno. Tuttavia, questo non è un problema nel sonno, ma solo nella veglia e nel sogno, in cui sembriamo essere usciti dal sonno, così è un problema solo per il nostro ego, che è la radice e il solo sperimentatore di tutti i problemi.

Ciò che chiamiamo ‘sonno’ è realmente il nostro vero ed eterno stato di pura auto-consapevolezza, da cui non possiamo mai uscire realmente, così la ragione per cui sembriamo uscire da esso non è un difetto del sonno ma solo un difetto del nostro ego. Cioè, sembriamo uscire dal sonno solo perché ci siamo entrati non come risultato dell’essere vigilantemente auto-attentivi ma solo come risultato di essere troppo stanchi per continuare qualcuna delle attività che caratterizzano la veglia e il sogno. Poiché questo ego sprofonda nel sonno a causa di stanchezza, l’illusione di essere questo ego non è distrutta a causa di ciò, così è solo temporaneamente sospeso o addormentato nel sonno, e quindi sorge nuovamente dal sonno una volta che ha ricuperato sufficiente vigore riposando come il nostro sé reale.

17. Per distruggere il nostro ego e quindi dormire eternamente, dobbiamo cercare di essere attentivamente auto-consapevoli nella veglia e o nel sogno

Poiché il nostro ego è un’illusione – una consapevolezza di noi stessi come qualcosa che non siamo – può essere distrutto solo dal nostro essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, e non possiamo essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente finché siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così per annientare il nostro ego dobbiamo cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi. Sebbene durante il sonno siamo consapevoli soltanto di noi stessi, il nostro ego non è distrutto a causa di ciò, perché nel sonno diveniamo consapevoli soltanto di noi stessi solo come risultato dello sprofondamento del nostro ego, mentre il nostro ego sarà distrutto solo quando esso sprofonderà come risultato del nostro essere consapevoli soltanto di noi stessi. Quindi nella veglia o nel sogno, mentre sperimentiamo noi stessi come questo ego, dobbiamo cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi, così dobbiamo cercare di focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi.

In altre parole, è solo cercando di essere attentivamente auto-consapevoli che possiamo distruggere il nostro ego, e possiamo essere attentivamente auto-consapevoli solo nella veglia e nel sogno e non nel sonno, perché l’attenzione è una funzione del nostro ego, che nel sonno non esiste. Cioè, poiché l’attenzione è la nostra capacità di essere selettivamente consapevoli di qualcosa – di noi stessi o di qualcos’altro – ciò che dà attenzione è solo il nostro ego e non il nostro sé reale, perché nella visione del nostro sé reale niente altro che sé stesso esiste o anche sembra esistere, così non può scegliere di essere consapevole di qualcosa diversa da sé stesso. Solo quando sorgiamo come questo ego diveniamo consapevoli dell’esistenza apparente di altre cose, così è solo come questo ego che possiamo scegliere di essere selettivamente consapevoli di noi stessi o di qualcos’altro. Quindi distruggeremo l’illusione di essere questo ego solo quando come questo ego cercheremo di essere consapevoli di niente altro che soltanto noi stessi.

Quando con la pratica persistente di auto-investigazione (ātma-vicāra) rifiniamo ed affiliamo il nostro potere di attenzione in modo sufficiente da essere in grado di focalizzarla precisamente soltanto su noi stessi, a causa di ciò diverremo consapevoli di noi stessi come siamo realmente, e così il nostro ego (che è la nostra illusione di essere qualsiasi altra cosa, come questo corpo e mente) sarà distrutto per sempre, dopo di che scopriremo che lo stato che abbiamo precedentemente sperimentato nel sonno – un intervallo temporaneo tra periodi di veglia e di sogno – è realmente il nostro stato naturale ed eterno di pura auto-consapevolezza, da cui non siamo mai realmente sorti come questo ego.

18. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 16: con la pratica costante di ātma-vicāra dovremmo cercare di sperimentare il sonno durante la veglia e il sogno

Poiché ciò che sperimentiamo nel sonno è il nostro stato naturale di pura auto-consapevolezza, che è perfettamente intransitivo (diversamente dall’auto-consapevolezza del nostro ego, che è parzialmente transitiva, poiché è mescolata e confusa con consapevolezza di aggiunte), ciò che stiamo cercando di sperimentare praticando l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è esattamente la stessa auto-consapevolezza intransitiva (cioè, auto-consapevolezza incontaminata anche dalla minima traccia di qualsiasi consapevolezza aggiunta) che sperimentiamo nel sonno. Quindi considerare attentamente e contemplativamente la natura intransitiva della pura auto-consapevolezza che abbiamo sperimentato nel sonno può aiutarci in larga misura a penetrare profondamente all’interno di noi stessi mentre pratichiamo ātma-vicāra, perché ciò su cui dovremmo cercare di focalizzare la nostra attenzione in questo preciso momento è quella stessa essenziale auto-consapevolezza intransitiva, che è ciò che sperimentiamo anche ora nel vero centro di noi stessi.

IL fatto che il sonno è ciò che dovremmo cercare di sperimentare per mezzo di ātma-vicāra nella veglia o nel sogno (o preferibilmente in entrambi) è stato indicato chiaramente da Bhagavan nel verso 16 di Upadēśa Taṉippākkaḷ (in cui ha riassunto qualcosa che aveva precedentemente spiegato in maggiore dettaglio, e che Sri Muruganar aveva registrato nei versi 957-8 di Guru Vācaka Kōvai):
நனவிற் சுழுத்தி நடையென்றுந் தன்னை
வினவு முசாவால் விளையும் — நனவிற்
கனவிற் சுழுத்தி கலந்தொளிருங் காறும்
அனவரத மவ்வுசா வாற்று.

naṉaviṯ cuṙutti naḍaiyeṉḏṟun taṉṉai
viṉavu musāvāl viḷaiyum — naṉaviṟ
kaṉaviṯ cuṙutti kalandoḷiruṅ gāṟum
aṉavarata mavvusā vāṯṟu
.

பதச்சேதம்: நனவில் சுழுத்தி நடை என்றும் தன்னை வினவும் உசாவால் விளையும். நனவில் கனவில் சுழுத்தி கலந்து ஒளிரும் காறும், அனவரதம் அவ் உசா ஆற்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): naṉavil suṙutti naḍai eṉḏṟum taṉṉai viṉavum usāvāl viḷaiyum. naṉavil kaṉavil suṙutti kalandu oḷirum kāṟum, aṉavaratam a-vv-usā āṯṟu.

அன்வயம்: என்றும் தன்னை வினவும் உசாவால் நனவில் சுழுத்தி நடை விளையும். நனவில் கனவில் சுழுத்தி கலந்து ஒளிரும் காறும், அனவரதம் அவ் உசா ஆற்று.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): eṉḏṟum taṉṉai viṉavum usāvāl naṉavil suṙutti naḍai viḷaiyum. naṉavil kaṉavil suṙutti kalandu oḷirum kāṟum, aṉavaratam a-vv-usā āṯṟu.

Traduzione: Lo stato di sonno nella veglia è il risultato di investigazione sottile, in cui sempre si esamina [o si attende accuratamente a] sé stessi. Finché il sonno risplende mescolandosi nella veglia [e] nel sogno, esegui incessantemente quella sottile investigazione.
உசா (usā), che è un sostantivo che Bhagavan usa in entrambe le frasi di questo verso, significa investigazione sottile o esame minuto, e nella prima frase ciò che intende con esso è da lui spiegato nella proposizione relativa ‘என்றும் தன்னை வினவும்’ (eṉḏṟum taṉṉai viṉavum), che può significare ‘in cui sempre si investiga [esamina o attende accuratamente a] sé stessi’ o ‘che sta sempre investigando [esaminando o attendendo accuratamente a] sé stesso’. Sebbene il verbo வினவு (viṉavu) può anche significare domandare, in questo contesto non significa questo in senso letterale, perché il domandare è un’attività grossolana della mente, mentre ciò che è richiesto per sperimentare la sottile auto-consapevolezza che risplende intransitivamente non solo nel sonno ma anche nella veglia e nel sogno è un’attentività estremamente sottile e ferma, così in questo contesto Bhagavan usa வினவு (viṉavu) nel senso di investigare, esaminare o attendere accuratamente a noi stessi.

Solo per mezzo di silente, ferma e sottile auto-attentività (attentività o vigilanza che non ha oggetto e che è quindi perfettamente intransitiva, rimanendo immobile nella sua sorgente, noi stessi) possiamo sperimentare chiaramente l’infinita ed eterna auto-consapevolezza che sempre risplende come la nostra vera essenza, sia che il nostro ego e qualunque altro fenomeno illusorio della veglia e del sogno appaia o meno.

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