Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

domenica 6 marzo 2016

Perché dovremmo credere a ciò che Bhagavan ci ha insegnato?

Michael James

8 Febbraio 2016
Why should we believe what Bhagavan taught us?


In un commento al mio articolo precedente, Perché credo che ātma-vicāra sia il solo mezzo diretto con cui possiamo sradicare l’illusione di essere questo ego? , un amico di nome Maya ha spiegato perché non era convinto da ciò che ho scritto in esso, così questo articolo è iniziato come una risposta ad alcune delle idee che egli ha espresso in quel commento. Tuttavia, quando ho iniziato a discutere le ragioni logiche che Bhagavan ci ha dato per spiegare perché dovremmo credere ai principi fondamentali dei suoi insegnamenti, questo ha condotto a una serie di riflessioni su aspetti dei suoi insegnamenti a cui Maya non si era riferito, così questo articolo è diventato più che solo una risposta diretta a ciò che egli ha scritto nel suo commento.
  1. Perché delle argomentazioni sono necessarie per permetterci di decidere razionalmente a cosa dovremmo credere?
  2. Cosa significa ‘secondo Bhagavan’?
  3. I nostri credi dovrebbero essere basati non solo sull’intuito cieco ma su un ragionamento chiaro e coerente
  4. Perché Bhagavan ha usato la logica per spiegare i principi fondamentali dei suoi insegnamenti?
  5. Non possiamo essere qualcosa che non sperimentiamo in modo permanente, perciò ‘io sono solo io’
  6. Poiché il nostro ego sembra esistere ogni volta che siamo consapevoli di altre cose, possiamo distruggerlo solo essendo consapevoli soltanto di noi stessi
  7. L’uso di Bhagavan della logica deduttiva e di quella induttiva
  8. Se gli insegnamenti di Bhagavan non fossero così logici, perché dovremmo credere in essi?
  9. Come possiamo trarre beneficio dalla comprensione della logica che sottende gli insegnamenti di Bhagavan
  10. Credere in Dio può essere benefico ma non è essenziale
    1. Nāṉ Yār? paragrafo 7: come entità separata, Dio è solo una costruzione illusoria (kalpanā)
    2. Nāṉ Yār? paragrafo 9: il concetto di Dio come un’entità separata fornisce una benefica focalizzazione per il nostro amore
    3. Nāṉ Yār? paragrafo 13: più confidiamo in Dio più ci sarà facile arrendere noi stessi, attendendo a nient’altro che a noi stessi
    4. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 15: Dio è noi stessi, così l’auto-attentività è suprema devozione a Dio
    5. Upadēśa Undiyār verso 8: l’amore per Dio come nient’altro che sé stessi è il migliore di tutti
    6. Sebbene potenzialmente benefico, l’amore per Dio non è effettivamente necessario
  11. La teoria del karma è un principio ausiliario ma non fondamentale degli insegnamenti di Bhagavan
    1. Nāṉ Yār? paragrafo 15: Dio è intoccato da qualsiasi karma quindi non fa nulla
    2. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 38: il karma esiste solo per l’ego
    3. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 19: destino e libero arbitrio esistono solo per l’ego
    4. Upadēśa Undiyār : la liberazione è ottenuta non facendo qualcosa ma solo semplicemente essendo
    5. Come possiamo credere che la teoria del karma sia benefica?
  12. L’efficacia relativa di varie forme di pratica spirituale



1. Perché delle argomentazioni sono necessarie per permetterci di decidere razionalmente a cosa dovremmo credere?

Sebbene Maya non abbia spiegato dettagliatamente perché tutti gli insegnamenti di Bhagavan che ho citato o tutti gli argomenti particolari che ho fornito nel mio articolo precedente non lo hanno convinto, egli è sembrato generalmente sottovalutare la valenza di ogni argomento, affermando che non importa quanti argomenti si può dare in supporto al proprio punto di vita, qualsiasi cosa si può dire è ancora solo un’opinione. Tuttavia in ogni discussione ragionevole le argomentazioni sono necessarie, perché un argomento è un’espressione o spiegazione delle ragioni che abbiamo per sostenere un certo credo o opinione, così senza alcuna argomentazione ragionevole qualsiasi cosa possiamo dire o scrivere sarebbe solo un’asserzione delle nostre opinioni, cosa che sarebbe di poco valore sia per noi stessi che per chiunque altro. Solo se forniamo argomenti ragionevoli a sostegno delle nostre opinioni gli altri possono valutare se esse sono per loro di qualche valore.

Argomenti ragionevoli non sono solo necessari quando presentiamo agli altri i nostri credi o opinioni, ma sono anche necessari per noi stessi, perché i nostri credi sarebbero ciechi ed arbitrari se non fossero basati su un ragionamento accurato. Un credo o un’opinione fondata su argomenti ragionati accuratamente non è solo una mera opinione o un credo cieco ma un credo ben fondato.

2. Cosa significa ‘secondo Bhagavan’?

Nel mio articolo precedente ho usato la frase ‘secondo Bhagavan’ in diversi contesti, ma nel suo commento Maya ha affermato che quando io o chiunque altro usa questa frase ciò che essa significa realmente è ‘secondo Bhagavan basato sulla comprensione [della persona]’. Tuttavia ciò che questa frase dovrebbe significare non è ‘secondo la mia comprensione’ o ‘secondo la mia opinione’ ma secondo ciò che egli ha realmente scritto o detto, o almeno secondo ciò che possiamo ragionevolmente dedurre da ciò che egli ha realmente scritto o detto. Egli ha espresso i principi fondamentali dei suoi insegnamenti in modo chiaro e semplice in testi come Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, così se ciò che diciamo o scriviamo è basato su questi principi fondamentali e su ciò che possiamo ragionevolmente dedurre da essi, siamo perfettamente giustificati nel dire ‘secondo Bhagavan’, mentre se non è basato su questi principi o su qualche altra idea che egli ha espresso in armonia con essi, non dovremmo dire ‘secondo Bhagavan’.

Questo è il senso in cui uso questa frase, così se Maya o chiunque altro crede che in qualche contesto particolare l’ho usata senza una giustificazione adeguata, dovrebbe discutere il mio uso di essa in quel contesto piuttosto che il mio uso di essa in generale. Ho controllato il mio articolo precedente e ho constatato di aver usato otto volte la frase ‘secondo Bhagavan’ e quattro volte frasi simili come ‘secondo ciò che Bhagavan ci ha insegnato’ o ‘secondo sia Bhagavan che Sankara’, e in nessuno di questi casi il mio uso di essa mi sembra essere ingiustificato, ma se qualcuno vuole discutere qualche caso specifico del mio uso di essa, sarei felice di spiegare la mia giustificazione per averla usata in ciascun caso.

3. I nostri credi dovrebbero essere basati non solo sull’intuito cieco ma su un ragionamento chiaro e coerente

Maya ha iniziato uno dei paragrafi del suo commento dicendo ‘Per me se una persona che propone un metodo è realizzato o no fa molta differenza ed è molto importante’ e lo ha terminato dicendo ‘Non accantonerei con leggerezza questo criterio (se una persona ha sperimentato ciò di cui sta parlando o meno)’, e in mezzo ha chiesto se avremmo così tanta fede nelle parole di Bhagavan se non credessimo che egli era realizzato. Sono d’accordo con Maya che una delle ragioni per cui abbiamo fede in ciò che Bhagavan ci ha insegnato è che crediamo che questo sia basato sulla sua esperienza di sé stesso come ciò che solo è reale (che presumo sia ciò che Maya intendeva dicendo ‘egli era realizzato’), ma perché crediamo in questo?

Possiamo dire che crediamo in questo intuitivamente, ma le nostre intuizioni possono essere sbagliate, di conseguenza non dovremmo contare del tutto su di esse. Ciò che crediamo intuitivamente è spesso completamente contrario a ciò che altre persone credono intuitivamente, così tutte le convinzioni intuitive non possono essere corrette, e dunque abbiamo bisogno di qualcosa di più affidabile dell’intuizione su cui basare le nostre convinzioni. Questo diviene particolarmente importante quando consideriamo gli insegnamenti di Bhagavan, perché egli ci ha insegnato a mettere in discussione molte delle nostre convinzioni intuitive più fondamentali e profondamente radicate – come la nostra convinzione di essere un corpo o una persona particolare, che questo mondo è reale, e che qualsiasi cosa stiamo attualmente sperimentando è il nostro stato di veglia e non un sogno – dicendo che tutte queste convinzioni intuitive sono sbagliate, essendo interamente basate sulla nostra auto-ignoranza o ajñāna. Quindi l’intuizione non è una guida affidabile per ciò che è vero. Alcune delle nostre intuizioni possono essere più o meno corrette, ma secondo Bhagavan la maggior parte di esse sono totalmente errate.

Ciò che crediamo intuitivamente è in grande misura determinato dalla purezza e dalla conseguente chiarezza della nostra mente (cioè, nella misura in cui è libera da impurità nella forma di desideri e attaccamenti a qualsiasi cosa diversa da noi stessi), così se la nostra mente è pura è molto probabile che le nostre convinzioni intuitive siano più corrette di quanto lo sarebbero se essa fosse ancora molto impura. Tuttavia se pensassimo con fierezza che le nostre convinzioni intuitive devono essere corrette perché la nostra mente è così pura, questo indicherebbe che il nostro ego è ancora molto forte, e poiché il nostro ego è la nostra impurità primaria e la radice di tutte le altre impurità, questo mostrerebbe davvero che la nostra mente è estremamente impura e che le nostre convinzioni intuitive sono quindi probabilmente sbagliate e ingannevoli. Se la nostra mente fosse realmente pura, avremmo l’umiltà di riconoscere che le nostre convinzioni intuitive possono essere sbagliate.

Inizialmente possiamo essere stati attratti a Bhagavan ed ai suoi insegnamenti intuitivamente, ma per trarre pieno beneficio da essi abbiamo bisogno di andare oltre il credere in lui e a ciò che ha detto solo intuitivamente. Abbiamo bisogno di considerare i suoi insegnamenti profondamente e attentamente e di cercare di praticarli al meglio della nostra capacità, perché solo allora il nostro credo iniziale si svilupperà in una convinzione chiara, coerente e fortemente radicata, che a sua volta si svilupperà nell’effettiva esperienza della verità che egli ci ha insegnato. Senza una convinzione chiara, coerente e fortemente radicata riguardo i principi fondamentali dei suoi insegnamenti non saremo in grado di comprenderli correttamente e quindi non saremo adeguatamente motivati per aggrapparci fermamente alla pratica di ātma-vicāra, così egli non ci ha chiesto solamente di credere in ciò che ci ha insegnato, ma ha spiegato in modo chiaro e logico perche i principi fondamentali dei suoi insegnamenti sono necessariamente veri.

4. Perché Bhagavan ha usato la logica per spiegare i principi fondamentali dei suoi insegnamenti?

Nel suo commento Maya ha scritto, ‘Dimostrare logicamente nella scienza significa molto ma nella spiritualità non significa gran ché’, ma se il ragionamento logico è di così scarso valore, perché Bhagavan ha spiegato i principi fondamentali dei suoi insegnamenti in modo così chiaro e logico? Senza ragioni logiche e coerenti qualsiasi cosa crediamo sarebbe arbitraria e molto probabilmente sbagliata, così finché non sperimentiamo realmente ciò che è reale e quindi dissolviamo l’illusione di essere questo ego, il ragionamento logico è il mezzo più affidabile che abbiamo per determinare quello che dovremmo credere e quello di cui dovremmo dubitare.

Per quelli fra noi che stanno cercando di conoscere ciò che è reale, è proprio la semplice e chiara logica degli insegnamenti di Bhagavan ad essere irresistibilmente attrattiva. Inizialmente possiamo essere stati attratti a lui perché abbiamo sentito intuitivamente che egli era molto di più della semplice e amorevole persona che sembrava essere, ma attraverso i suoi insegnamenti egli ci incoraggia ad andare oltre quell’attrazione iniziale alla sua forma esteriore, mostrandoci che ciò che stiamo cercando realmente non è qualcosa esterna a noi ma è solo ciò che noi stessi siamo realmente, e spiegando che egli non è nient’altro che quello.

5. Non possiamo essere qualcosa che non sperimentiamo in modo permanente, perciò ‘io sono solo io’

Per imprimere fermamente nella nostra mente la necessità di rivolgerci interiormente per investigare noi stessi, egli ha spiegato in modo chiaro e logico, e sulla base di un’analisi semplice ed incisiva della nostra esperienza di noi stessi nei tre stati alternanti di veglia, sogno e sonno, perché non possiamo essere il corpo, la mente o la persona che ora sembriamo essere. Cioè, in breve, poiché nella veglia sperimentiamo noi stessi come un corpo e nel sogno come un altro corpo, non possiamo essere nessuno di questi corpi, perché non possiamo essere qualcosa che non sperimentiamo in modo permanente. Nella veglia sperimentiamo noi stessi come questo corpo, ma nel sogno sperimentiamo noi stessi senza sperimentare questo corpo, così esso non può essere ciò che siamo realmente. Nello stesso modo nel sogno sperimentiamo noi stessi come qualche altro corpo, ma nella veglia sperimentiamo noi stessi senza sperimentare quel corpo di sogno, così esso non può essere ciò che siamo realmente.

Sebbene sperimentiamo noi stessi come questo ego o mente sia nella veglia che nel sogno, nel sonno sperimentiamo noi stessi senza sperimentare questo ego o questa mente, così nessuno di essi può essere ciò che siamo realmente. Ciascuno di questi tre stati, veglia, sogno e sonno, vanno e vengono, ma la sola cosa che sperimentiamo ininterrottamente durante tutti essi è noi stessi, così non possiamo essere qualcosa diversa da noi stessi – cioè, non possiamo essere nessun corpo, mente o altri fenomeni transitori, ma possiamo essere solo ciò che sperimentiamo in modo permanente, che è la nostra auto-consapevolezza fondamentale, che rimane sola nel sonno e sulla quale la consapevolezza di corpo, mente e altri fenomeni è sovrapposta nella veglia e nel sogno.

Poiché non possiamo essere qualcosa diversa da noi stessi, Bhagavan ci ha insegnato che la vera esperienza di noi stessi non è ‘io sono questo’ o ‘io sono quello’ ma solo ‘io sono io’, come ha indicato chiaramente nel verso 20 di Upadēśa Undiyār, nel verso 30di Uḷḷadu Nāṟpadu e nel verso 2 di Āṉma-Viddai, in ciascuno dei quali ha usato la frase நான் நான்’ (nāṉ nāṉ), che significa ‘io sono io’, e anche nel verso 43 di Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai e nel verso 4 di Appaḷa-p-Pāṭṭu, in cui ha usato rispettivamente le frasi ‘தானே தானே’ (tāṉē tāṉē) e ‘தானே தான்’ (tāṉē tāṉ), che entrambe significano ‘solo sé stesso è sé stesso’.

Poiché è un principio basilare della logica che se qualcosa è vera per A ma non vera per B, A e B non possono essere la stessa cosa ma devono essere due cosi differenti, se siamo sempre consapevoli di noi stessi quando non siamo consapevoli di X, X non può essere ciò che siamo realmente. Quindi poiché siamo sempre consapevoli di noi stessi e poiché non c’è niente altro che noi stessi di cui siamo sempre consapevoli, secondo questo semplice principio di logica è necessariamente vero che non possiamo essere qualcosa diversa da noi stessi, l’auto-consapevolezza fondamentale che sperimentiamo senza interruzione in ogni momento e in tutti gli stati. Dunque Bhagavan ci ha indicato una ragione semplice e chiara per cui non possiamo essere il corpo, la mente o la persona che ora sembriamo essere.

6. Poiché il nostro ego sembra esistere ogni volta che siamo consapevoli di altre cose, possiamo distruggerlo solo essendo consapevoli soltanto di noi stessi

Avendo diagnosticato che la radice di tutti i nostri problemi è la nostra esperienza illusoria ‘io sono questo corpo’, che è ciò che è chiamato ‘ego’, ed avendo spiegato questo con semplici argomenti logici, Bhagavan poi ci ha spiegato che poiché possiamo sperimentare noi stessi come qualsiasi cosa diversa da ciò che siamo realmente solo quando siamo consapevoli di altre cose, e poiché ogni volta che siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi siamo consapevoli di noi stessi come questo ego, il solo mezzo con cui possiamo distruggere l’illusione di essere questo ego è cercare di essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Questo è uno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti, ed è da lui espresso nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, in cui dice che il nostro ego è un fantasma senza forma (un’entità insostanziale che sembra esistere ma non esiste realmente) che ha origine afferrando forme (cioè, essendo consapevole di cose diverse da sé stesso) e che resiste e nutre sé stesso continuando ad afferrare forme una dopo l’altra, quindi espandendosi e prosperando grandemente, ma se rivolge la sua attenzione indietro verso sé stesso cercando di conoscere cosa esso è realmente ‘prenderà il volo' e scomparirà. Ciò che egli quindi intendeva è che sperimentiamo noi stessi come questo ego finché attendiamo o siamo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, così il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente, e quindi cessare di sperimentare noi stessi come questo ego, è focalizzare la nostra intera attenzione solo su noi stessi, escludendo qualsiasi altra cosa dalla nostra consapevolezza.

Poiché ciò che è chiamato ‘ego’ è la nostra consapevolezza di noi stessi come qualcosa di separato e limitato, e poiché inevitabilmente sperimentiamo noi stessi come qualcosa di separato e limitato ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi, il principio fondamentale che egli ci insegna nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu è logicamente solido e può essere dedotto per mezzo del ragionamento deduttivo. Cioè, per essere consapevoli di noi stessi come qualcosa di separato e limitato, dobbiamo essere consapevoli di altre cose, e per essere consapevoli di altre cose, dobbiamo essere consapevoli di noi stessi come qualcosa di separato e limitato. Quindi l’esistenza apparente di altre cose e l’esistenza apparente di noi stessi come questo ego solo logicamente inseparabili: nessuna può essere senza l’altra.

Inoltre, se è vero, come egli ci insegna, che non siamo questo ego limitato ma solo auto-consapevolezza infinita, al di fuori della quale niente esiste, ne consegue logicamente che per sperimentare noi stessi come siamo realmente dobbiamo essere consapevoli soltanto di noi stessi, in completo isolamento anche dalla minima consapevolezza di qualsiasi altra cosa. Questo è il motivo per cui egli ci ha insegnato che ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-attentività) è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi distruggere per sempre l’illusione di essere questo ego o mente, ed è il motivo per cui egli ha detto, per esempio, nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār?, ‘நானார் என்னும் விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்’ (nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum), che significa ‘Solo per mezzo dell’investigazione chi sono io la mente sprofonderà [o cesserà di esistere]’, e nell’ottavo paragrafo, ‘மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த உபாயங்களில்லை’ (maṉam aḍaṅguvadaṟku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai), che significa ‘Per far cessare la mente, tranne vicāraṇā [auto-investigazione] non ci sono altri mezzi adeguati’.

Il fatto che non possiamo essere questo ego limitato è già stato provato dalla sua argomentazione logica per cui non possiamo essere qualcosa di cui non siamo consapevoli ogni volta che siamo consapevoli di noi stessi, e dunque poiché nel sonno siamo consapevoli di noi stessi ma non del nostro ego, questo ego non può essere ciò che siamo realmente. Nel sonno siamo consapevoli di noi stessi ma non consapevoli di alcuna separazione o limitazione, così possiamo dedurre che è probabile che ciò che siamo realmente sia infinita auto-consapevolezza. Quindi è perfettamente ragionevole per noi accettare (almeno a titolo di prova come un’ipotesi di lavoro) che siamo infinita auto-consapevolezza, come gli ci insegna, e che per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente dobbiamo essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Sebbene nel sonno siamo consapevoli soltanto di noi stessi, prima o poi sorgiamo nuovamente come questo ego nella veglia o nel sogno, così il sonno non può durare per sempre. Secondo Bhagavan, il motivo per cui non dura per sempre è che nel sonno il nostro ego sprofonda per stanchezza e non essendo attentivamente auto-consapevole. Poiché siamo sempre auto-consapevoli, e poiché nel sonno siamo consapevoli soltanto di noi stessi, l’auto-consapevolezza in sé stessa non è sufficiente a distruggere questo ego, così può essere distrutto solo dall’auto-consapevolezza attentiva.

Il motivo per cui, per distruggere questo ego, è necessaria l’auto-attentività è che questo ego ha origine a causa del pramāda, che è auto-negligenza o auto-disattentività. L’attenzione è la nostra capacità di scegliere ciò di cui vogliamo essere primariamente consapevoli in ogni momento, così è una funzione del nostro ego, perché ciò che è consapevole di molte cose è solo il nostro ego, così solo il nostro ego ha bisogno di scegliere di quali, tra quelle molte cose, vuole essere consapevole in ogni momento. Il nostro ego è auto-negligente perche sceglie di dare attenzione ad altre cose piuttosto che a sé stesso, così poiché esso non può essere distrutto se non arrende volontariamente sé stesso alla propria distruzione, e poiché può arrendere sé stesso solo cercando di essere consapevole soltanto di sé stesso, deve scegliere di essere consapevole soltanto di sé stesso, che significa che deve cercare di attendere solo a sé stesso. Quindi essere auto-attentivi è arrendere noi stessi (questo ego) a ciò che siamo realmente, che è pura auto-consapevolezza.

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere completamente assorbiti in auto-dimora (ātma-niṣṭhā), non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero (cintana) tranne che il pensiero di sé stessi (ātma-cintana), è donare sé stessi a Dio.
Finché pensiamo o diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, stiamo nutrendo e sostenendo il nostro ego, così il solo modo per arrenderlo completamente è pensare o attendere soltanto a noi stessi. Quindi l’insegnamento di Bhagavan per cui possiamo distruggere il nostro ego e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente solo per mezzo di ātma-vicāra (auto-investigazione) o ātma-cintana (auto-attentività) non è solo basato sulla sua esperienza ma è stato anche da lui spiegato in modo perfettamente logico, sulla base della sua analisi chiara, semplice e incisiva della nostra esperienza di noi stessi nella veglia, nel sogno e nel sonno.

7. L’uso di Bhagavan della logica deduttiva e di quella induttiva

Come possiamo comprendere da ciò che ci ha insegnato, Bhagavan sperimentava sé stesso come infinita e indivisibile auto-consapevolezza, che sola è ciò che esiste realmente, così ovviamente non aveva bisogno di alcun ragionamento logico per convincere sé stesso della verità di ciò che sperimentava. Tuttavia, poiché noi attualmente sembriamo (nella visione di noi stessi come questo ego) essere auto-ignoranti, ora non sperimentiamo noi stessi come l’infinita e indivisibile auto-consapevolezza che siamo realmente, così abbiamo bisogno di essere convinti che questo è ciò che siamo realmente, perché solo quando saremo fermamente convinti di questo avremo una motivazione sufficientemente forte per investigare noi stessi e quindi per sperimentarci come siamo realmente.

La nostra motivazione o amore (bhakti) per investigare noi stessi necessita di essere straordinariamente forte, perché investigare ciò che siamo realmente comporta necessariamente arrendere o abbandonare ogni altra cosa, in modo particolare ogni cosa che ora sembriamo essere. Poiché la nostra motivazione sarà forte solo se è costruita su un solido fondamento di ferma convinzione, Bhagavan ha usato una logica chiara e semplice per convincerci della verità di ciò che ci ha insegnato. Ovviamente la logica può darci solo una convinzione intellettuale, che è in sé stessa insufficiente, ma una convinzione intellettuale ben fondata è necessaria, perché fornisce una ferma fondazione su cui basare la nostra pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), ed è solo per mezzo della pratica persistente di auto-investigazione che possiamo sviluppare la vera bhakti (amore per sperimentare o per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente) e il corrispondente vairāgya (libertà dal desiderio di sperimentare o di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa). Quindi quando ci spiegava i principi fondamentali dei suoi insegnanti, Bhagavan ha usato sia la logica deduttiva che quella induttiva per imprimere nella nostra mente la verità di quei principi.

Poiché la logica deduttiva è più potente e convincente della logica induttiva, per quanto possibile ha usato la logica deduttiva, come ha fatto per esempio quando ci ha spiegato perché non possiamo essere il corpo, la mente o la persona che ora sembriamo essere, e perché possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente e quindi annientare il nostro ego solo essendo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi. Tuttavia, non ogni cosa può essere provata dalla logica deduttiva, così ogni volta che la logica deduttiva era inapplicabile ha usato la logica induttiva, come ha fatto per esempio quando ci ha spiegato perché dovremmo considerare il nostro stato attuale solo un altro genere di sogno, e perché dovremmo considerare che l’esistenza di ogni cosa diversa da noi stessi dipende dall’esistenza del nostro ego, che è la nostra esperienza illusoria ‘io sono questo corpo’.

Poiché ogni cosa che sperimentiamo diversa da noi stessi sembra esistere solo nella veglia e nel sogno, quando sperimentiamo noi stessi come un corpo, e poiché quando non sperimentiamo noi stessi come un corpo non sperimentiamo niente altro, come nel sonno, è ragionevole per noi supporre che ci sia una connessione causale tra la nostra esperienza ‘io sono questo corpo’ e l’apparenza di qualsiasi altra cosa nella nostra consapevolezza, così quando Bhagavan ci insegna che è così, sta confermando qualcosa che non è necessariamente vero ma altamente probabile, perché sebbene non possiamo dedurre questo con la logica deduttiva, possiamo dedurlo per mezzo della logica induttiva.

Come registrato nel terzo capitolo della seconda parte di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagine 67-8), in risposta a qualcuno che gli ha posto domande riguardo la realtà del mondo Bhagavan ha sostenuto:
Il mondo esiste in sé stesso? È stato mai visto senza l’aiuto della mente? Nel sonno non c’è mente né mondo. Quando vi svegliate c’è la mente e c’è il mondo. Cosa significa questa costante concomitanza? Tu hai familiarità con i principi della logica induttiva, che sono considerati la vera base della investigazione scientifica. Perché non risolvi questa domanda sulla realtà del mondo alla luce di quei principi della logica comunemente accettati?
La differenza tra logica deduttiva e induttiva è che mentre la conclusione di un valido argomento deduttivo è necessariamente vera se le sue premesse sono vere, la conclusione di un argomento induttivo non è necessariamente vera ma probabilmente vera. L’esempio classico di un argomento deduttivo è: tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; quindi Socrate è mortale. Se le due premesse in questo argomento sono vere, la conclusione è necessariamente vera, perché è logicamente implicita nelle premesse. Se la conclusione non è vera, allora una o più premesse devono essere non vere. Cioè se Socrate non è mortale, allora ne consegue logicamente che egli non è un uomo o che non tutti gli uomini sono mortali.

L’argomentazione di Bhagavan per cui non siamo un corpo, una mente o qualsiasi altra cosa diversa dalla semplice auto-consapevolezza è un’argomentazione deduttiva. Se è vero che siamo consapevoli di noi stessi in tutti i momenti e in tutti gli stati, e se è anche vero che non in ogni momento o in ogni stato siamo consapevoli di qualche corpo, mente o qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi, allora è necessariamente vero che non siamo qualsiasi cosa diversa dalla pura auto-consapevolezza.

Nello stesso modo, la sua argomentazione per cui non possiamo vedere ciò che siamo realmente se non guardiamo noi stessi – in altre parole, che non possiamo conoscere ciò che siamo realmente se non attendiamo a noi stessi, o che non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente se non investighiamo noi stessi – è un’argomentazione deduttiva. Se è vero che non possiamo vedere qualcosa se non la guardiamo, o che non possiamo conoscere, sperimentare o essere consapevoli di qualcosa se non diamo ad essa attenzione, allora è necessariamente vero che non possiamo vedere, conoscere, sperimentare o essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente se non guardiamo o attendiamo a noi stessi.

Tuttavia, la sua argomentazione che l’esistenza (apparente) di altre cose dipende sull’esistenza (apparente) di noi stessi come un ego non è un’argomentazione deduttiva ma induttiva. Uno degli esempi classici di argomentazione induttiva utilizzato è: Ogni cigno che chiunque ha visto è bianco; quindi tutti i cigni sono bianchi. Poiché i cigni nativi dell’emisfero nord sono bianchi, nel passato molte persone nel mondo non erano consapevoli dell’esistenza di cigni che non fossero bianchi, così erano giustificati a credere che tutti i cigni sono bianchi. Cioè, poiché tutte i racconti che avevano sentito da persone che avevano visto cigni confermava che nessuno aveva mai visto un cigno non-bianco, sembrava loro probabile che tutti i cigni sono bianchi.

In atre parole, poiché la premessa ‘ogni cigno che chiunque ha visto è bianco’ sembrava essere vera, la deduzione induttiva ‘quindi tutti i cigni sono bianchi’ era una deduzione ragionevole, purché nel significato fosse inteso che ‘tutti i cigni sono probabilmente bianchi’ piuttosto che ‘tutti i cigni sono certamente bianchi’. Una deduzione induttiva (la conclusione di un argomento induttivo) non è mai certamente vera, ma al massimo probabilmente vera, perché è possibile che nel futuro essa sia falsificato da qualche nuova prova, come successo nel caso della deduzione ‘tutti i cigni sono bianchi’. Cioè, quando le persone iniziarono a viaggiare più lontano e la comunicazione tra differenti parti del mondo aumentò, si seppe che un Sud America c’è una specie di cigno dal collo nero e che in Australia c’è una specie di cigno nero, che rese falsa la premessa ‘ogni cigno che chiunque ha visto è bianco’, e una volta che questa premessa è stata falsificata, la deduzione induttiva tratta da ciò per cui tutti i cigni sono bianchi è stata dimostrata come errata.

La maggior parte delle teorie scientifiche sono deduzione induttive, così non sono certamente vere ma solo sembrano essere probabilmente vere. Questo è il motivo per cui essi tendono a cambiare nel tempo, perché le teorie più vecchie sono abitualmente falsificate da nuove prove, così devono essere sostituite da teorie interamente nuove o hanno bisogno di essere rifinite e modificate per considerare la nuova prova.

Tuttavia, alcune deduzioni induttive sono più probabili di altre, così nella scienza le osservazioni sono quantificate e analizzate statisticamente per stimare quanto siano probabili le deduzioni che si possono trarre da esse. Alcune deduzioni sono probabili ma molto distanti dall’essere certe, mentre altre possono essere così probabili da sembrare quasi certamente vere, ma per quanto probabili possano sembrare, non sono certe, perché nessuna deduzione induttiva può essere certa. Per esempio, ogni giorno della nostra vita di mattina il sole è sorto ad est, e a detta di tutti è sorto ad est ogni mattina da milioni di anni, e oggi noi crediamo che il motivo per cui esso sorge è per la velocità stabile della rotazione della terra attorno al suo asse nord-sud. Quindi possiamo dedurre induttivamente che esso quasi certamente domani mattina sorgerà ad est.

Tuttavia, sebbene questo è quasi certo, non è assolutamente certo, perché il fatto che il sole è sorto ad est ogni mattina fino ad ora non comporta logicamente che lo farà anche domani. Tutto ciò che possiamo dedurre logicamente è che molto probabilmente lo farà, ma per qualche ragione imprevista può non farlo. Forse una forza finora sconosciuta può causare un rallentamento nella rotazione della terra, fermarla o anche invertirla, o può causare l’improvviso spostamento del suo asse di rotazione. O forse tutto questo è solo un sogno, nel qual caso domani possiamo sognare che il sole non sorge, o che sorge ad ovest, a nord o a sud. La precedente regolarità del corso degli eventi non rende impossibile il cambiamento di quella regolarità. Può far sembrare improbabile un tale cambiamento, ma non può renderlo impossibile. Il fatto che il sole è ipoteticamente sorto ad est ogni mattina da milioni di anni non rende logicamente necessario che esso continuerà a farlo ogni mattina nel futuro.

E’ logicamente necessario che nessun cerchio può essere quadrato, e che Socrate è mortale se è vero che egli è un uomo e che tutti gli uomini sono mortali, perché la verità di queste affermazioni può essere desunta per deduzione, ma non è logicamente necessario che un corso regolare di eventi passati come il sorgere del sole ad est ogni mattina continuerà regolarmente nel futuro, perché non possiamo predire una tale continuità per mezzo di qualche conclusione deduttiva ma solo per mezzo di una conclusione induttiva. Qualunque cosa possa essere desunta deduttivamente è certamente vera (ammesso che le premesse da cui può essere dedotta siano vere), mentre qualunque cosa può essere dedotta solo induttivamente è probabilmente vera ma non certamente vera.

Quanto è probabile la deduzione induttiva che Bhagavan ci ha chiesto di trarre dal fatto che un mondo sembra esistere ogni volta che la nostra mente sembra esistere, come nella veglia e nel sogno, e che nessun mondo sembra esistere ogni volta che la nostra mente non sembra esistere, come nel sonno? È probabilmente paragonabile alla probabilità che il sole sorga ad est domani mattina, o alla probabilità che tutti i cigni siano bianchi, se non si avesse notizia dell'esistenza di qualche cigno non-bianco? Se non avessimo conosciuto l’esistenza di cigni neri, avremmo ritenuto più probabile che tutti i cigni sono bianchi o che il sole sorgerà ad est domani mattina? Penso che siamo tutti d’accordo che l’esistenza di cigni neri o colorati sembrerebbe meno improbabile che il sole non sorga ad est domani mattina. Ma che dire della probabilità che qualche mondo esista quando la nostra mente non esiste?

Se consideriamo imparzialmente l’evidenza, poiché nessun mondo è mai sembrato esistere quando la nostra mente non sembra esistere, e poiché un mondo è sempre sembrato esistere ogni volta che la nostra mente sembra esistere, questa concomitanza invariabile suggerisce molto potentemente che l’esistenza di ogni mondo dipende dall’esistenza della nostra mente. Se consideriamo il fatto che il sole è sorto ad est ogni mattina nel passato come una prova potente del fatto che esso sorgerà ad est domani mattina, il fatto che nel passato un mondo è sembrato esistere solo quando abbiamo sperimentato noi stessi come questa mente e come un corpo in quel mondo è una prova ugualmente potente che l’esistenza apparente di ogni mondo dipende dalla nostra esperienza di noi stessi come un corpo e una mente.

Quindi quando Bhagavan ha chiesto nel brano di Maharshi’s Gospel che ho citato sopra, ‘Cosa significa questa costante concomitanza? Tu hai familiarità con i principi della logica induttiva, che sono considerati la vera base della investigazione scientifica. Perché non risolvi questa domanda sulla realtà del mondo alla luce di quei principi della logica comunemente accettati?’, ciò che egli intendeva era che secondo i principi della logica induttiva abbiamo una ragione molto valida per dedurre che nessun mondo esiste indipendentemente dalla nostra esperienza di esso.

Alcune persone obbiettano a questa conclusione sostenendo che non siamo coscienti o consapevoli mentre siamo addormentati, così questo mondo in quel momento non ci sembra esistere semplicemente perché non siamo consapevoli di esso. Tuttavia, la loro premessa che nel sonno non siamo consapevoli è falsa, perché in quel momento siamo consapevoli della nostra esistenza, così se questo mondo esiste allora dovremmo essere consapevoli anche di esso. Tutto ciò che nel sonno esiste nella nostra consapevolezza è noi stessi, così poiché in quel momento nessun corpo o mondo esiste nella nostra consapevolezza, possiamo dedurre induttivamente che quando siamo addormentati essi non esistono affatto.

Un altro argomento che le persone portano in opposizione a questa conclusione è che la ragione per cui non siamo consapevoli di questo mondo mentre siamo addormentati è che i nostri sensi in quel momento non stanno funzionando. Ma questa è un’obiezione difettosa, perché i nostri sensi sono parte di questo corpo, che è parte di questo mondo, così quando dubitiamo che questo mondo esista quando non siamo consapevoli di esso, stiamo anche dubitando che qualche corpo o i suoi sensi esistano quando non siamo consapevoli di essi.

Come siamo consapevoli di un mondo mentre stiamo sognando? Proprio come ora sperimentiamo un corpo come noi stessi e attraverso i sensi di questo corpo percepiamo un mondo, nello stesso modo nel sogno sperimentiamo un corpo come noi stessi e attraverso i sensi di quel corpo percepiamo un mondo. Ora crediamo che il corpo, i sensi e il mondo che abbiamo sperimentato in qualche sogno erano una creazione della nostra mente e quindi non esistevano indipendentemente da essa, ma mentre stavamo sognando sembravamo essere svegli, così il corpo, i sensi e il mondo che in quel momento stavamo sperimentando sembrava reale e non solo una creazione della nostra mente, proprio come il nostro corpo attuale, i suoi sensi e questo mondo ora ci sembrano essere reali e non solo una creazione della nostra mente.

Quindi se consideriamo e confrontiamo con imparzialità l’evidenza della nostra esperienza nella veglia e nel sogno, non c’è prova che il corpo, i sensi e il mondo che ora sperimentano non sono solo una creazione della nostra mente come quelli che abbiamo sperimentato in qualche sogno, o che il nostro stato attuale non è solo un altro sogno. Nel sogno non sperimentiamo questo corpo e il mondo ma qualche altro corpo e mondo, così se in quel momento questo corpo e mondo esistono perché non li sperimentiamo? Non crediamo che il nostro corpo e il mondo di sogno esistono ora, poiché non crediamo che essi esistono indipendentemente dalla nostra esperienza di essi, così perche dovremmo credere che questo corpo o questo mondo esistono mentre stiamo sognando, o che essi esistono indipendentemente dalla nostra esperienza di essi?

Nel sonno (cioè, nel sonno senza sogni) non sperimentiamo alcun corpo, sensi o mondo, ma in quel momento siamo consapevoli che esistiamo. Se questo corpo e questo mondo o qualche corpo e mondo di sogno in quel momento esistono, perché non siamo consapevoli di essi? In quel momento noi esistiamo, così siamo consapevoli di noi stessi, ma non siamo consapevoli di qualsiasi altra cosa, che suggerisce che in quel momento niente altro esiste. Se siamo consapevoli, dovremmo esserlo di qualunque cosa esiste nelle nostre vicinane, così se in quel momento il nostro corpo esiste, almeno dovremmo essere consapevoli di esso, ma non siamo consapevoli di esso, e dunque possiamo dedurre che esso non esiste realmente.

Quindi se applichiamo la logica induttiva a ciò che sperimentiamo realmente (piuttosto che a qualunque cosa presumiamo sia il caso), essa suggerisce fortemente che il nostro corpo e il mondo attuali non esistono quando stiamo sognando o quando siamo addormentati. Nel nostro stato attuale siamo abituati a credere che questo corpo e questo mondo esistono indipendentemente dalla nostra esperienza di essi, così presumiamo che essi esistono anche quando non li sperimentiamo, come nel sogno e nel sonno, ma non abbiamo realmente alcuna prova che essi esistono quando non li sperimentiamo, così questo nostro presupposto è totalmente infondato.

La maggior parte delle conclusioni induttive rischiano di essere falsificate da nuove prove, proprio come la conclusione che tutti i cigni sono bianchi è stata falsificata dalla scoperta dei cigni neri, o proprio come la conclusione che il sole sorgerà ad est domani mattina sarebbe falsificata se esso non lo facesse, ma alcune conclusioni induttive sono immuni da falsificazione, perché ci è impossibile o logicamente o in pratica trovare qualche prova in opposizione. Tuttavia, essere immuni alla falsificazione non significa che una conclusione induttiva sia necessariamente vera, ma solo che non ci sono mezzi con cui possiamo mostrarla come falsa.

Un esempio di una conclusione induttiva certamente immune a falsificazione è la conclusione che Bhagavan ci chiede di trarre dal fatto che altre cose sembrano esistere solo quando sembriamo essere questo ego o mente, vale a dire la conclusione che l’esistenza apparente di altre cose dipende dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego. Il motivo per cui questa conclusione è immune da falsificazione è che ogni volta sperimentiamo l’esistenza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi sperimentiamo necessariamente noi stessi come qualcosa di separato da quelle altre cose, perché senza un tale senso di separazione le altre cose non apparirebbero essere diverse da noi stessi, e sperimentare noi stessi come una cosa separata è ciò che è chiamato ego.

Inoltre, poiché siamo solo uno e non molti, possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo quando sperimentiamo l’unità e non quando sperimentiamo la molteplicità. Ogni volta che sperimentiamo la molteplicità sperimentiamo noi stessi come se fossimo uno tra quelle molte cose, così sperimentare la molteplicità o l’alterità comporta necessariamente sperimentare noi stessi come un ego, perché ciò che significa questo termine ‘ego’ è l’esperienza o la consapevolezza di noi stessi come qualcosa che è separata e quindi limitata. Quindi secondo i principi della logica deduttiva non possiamo sperimentare l’esistenza di qualcosa diversa da noi stessi se non sperimentiamo noi stessi come un ego, così finché sperimentiamo noi stessi come questo ego non possiamo sapere se qualcos’altro esiste o meno quando non sperimentiamo noi stessi come questo ego.

Non essendo in grado di sperimentare l’esistenza di qualsiasi altra cosa quando non sperimentiamo noi stessi come questo ego, come nel sonno, non possiamo sapere con certezza se l’esistenza di altre cose dipende dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego. Sebbene altre cose sembrano esistere ora, non sappiamo se esistono realmente, perché potrebbero essere tutte una creazione della nostra mente, come tutte le altre cose che sperimentiamo in un sogno, nel qual caso esse non esisterebbero realmente anche quando sembrano esistere. Quindi la loro effettiva esistenza è dubbia in ogni momento, anche quando sembrano esistere, e la loro esistenza apparente è dubbia ogni volta che non la sperimentiamo. Dunque come Bhagavan dice, poiché altre cose sembrano esistere solo quando noi sembriamo essere questo ego, secondo i principi della logica induttiva possiamo dedurre che l’esistenza di altre cose dipende dall’esistenza del nostro ego.

Questa conclusione induttiva non può mai essere falsificata perche non possiamo mai sperimentare l’esistenza di qualsiasi altra cosa quando non sperimentiamo noi stessi come questo ego. Tuttavia, poiché è una conclusione induttiva non possiamo neppure verificarla, o almeno non possiamo farlo finché sperimentiamo noi stessi come questo ego. Secondo Bhagavan, il solo modo per verificare che niente altro esiste quando il nostro ego non esiste è di sperimentare noi stessi come siamo realmente, perché solo quando sperimentiamo noi stessi come siamo realmente sperimenteremo la verità che solo noi esistiamo – cioè, che siamo l’unica realtà infinita e indivisibile, all’infuori della quale niente può mai esistere realmente o anche sembrare esistere.

Il ragionamento logico ovviamente ha i suoi limiti, perché è una funzione della nostra mente, che è un’espansione del nostro ego, così esso non può determinare ciò che esiste oltre i limiti del nostro ego e della sua conoscenza mediata dalla mente. Quindi sebbene il ragionamento logico è la migliore guida disponibile a ciò che è vero finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, da solo non può permetterci di sperimentare ciò che siamo realmente. Tuttavia, può permetterci di comprendere non solo che non possiamo essere questo ego, mente o corpo, ma anche quale deve essere il mezzo per sperimentare noi stessi come siamo realmente.

Sperimentiamo altre cose solo perché diamo ad esse attenzione, e finché stiamo sperimentando qualsiasi cosa diversa da noi stessi stiamo sperimentando noi stessi come questo ego, così non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente finché diamo attenzione e siamo quindi consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Perciò possiamo dedurre logicamente che il solo mezzo con cui possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente è attendere e quindi essere consapevoli soltanto a noi stessi.

La necessità che abbiamo di trarre questa semplice deduzione logica da una chiara analisi della nostra esperienza di noi stessi nei tre stati alternanti di veglia, sogno e sonno, e dal fatto che siamo consapevoli di altre cose ogni volta che sperimentiamo noi stessi come un corpo, come facciamo nella veglia e nel sogno, ma non quando non sperimentiamo noi stessi come un corpo, come nel sonno, ci è stato spiegato ripetutamente da Bhagavan. Quindi se ignoriamo la convincente logica dei suoi insegnamenti e il modo chiaro o coerente in cui egli ha applicato quella logica, non riusciremo a comprendere il potere unico dei suoi insegnamenti e la ragione per cui l’auto-investigazione (ātma-vicāra) è il solo mezzo con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente.

Altre pratiche spirituali possono aiutare a purificare la nostra mente e quindi a condurci al punto in cui siamo disposti ad accettare la semplice logica di questo principio fondamentale insegnato da Bhagavan, vale a dire che non possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente se non investighiamo noi stessi cercando di attendere a, e quindi essere consapevoli di, soltanto noi stessi, ma una volta che siamo disposti ad accettare e ad essere convinti dalla sua semplice logica, l’auto-investigazione diverrà il punto focale e scopo centrale di qualunque pratica spirituale possiamo fare.

8. Se gli insegnamenti di Bhagavan non fossero così logici, perché dovremmo credere in essi?

Sotto molti aspetti gli insegnamenti di Bhagavan sono contro-intuitivi, perché (come ho citato nella sezione 3) ci stimolano e ci spingono a mettere in discussione tutte le nostre convinzioni intuitive più fondamentali – come la nostra convinzione di essere questo corpo o persona, che questo mondo è reale, che qualsiasi cosa stiamo attualmente sperimentando non è un sogno, e che traiamo felicità dai fenomeni esterni – così se consideriamo profondamente e seriamente i suoi insegnamenti, non crederemmo in essi se non avessimo una base molto solida per farlo. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha spiegato i loro principi fondamentali in un modo così chiaro, logico e coerente, basato su un’analisi semplice ma profonda della nostra esperienza di noi stessi nei tre stati di veglia, sogno e sonno.

Se egli non avesse fatto in questo modo, quale ragione avremmo per credere in essi? Ci sono molti credi differenti che le persone sostengono riguardo il mondo, l’esistenza e la natura di Dio e cosa noi stessi siamo realmente, così quando decidiamo in cosa dovremmo credere, in modo particolare riguardo ai temi metafisici, non è immediatamente ovvio quale dei molti sistemi di credo metafisico in competizione e in conflitto dovremmo scegliere (in modo particolare perché la natura di noi stessi come un ego o mente è quella di essere metafisicamente ignorante).

Ci sono diverse religioni principali che sono diffuse nel mondo dei nostri giorni, ciascuna con i propri testi sacri e milioni di seguaci, e all’interno di ciascuna religione ci sono numerose sette differenti, ciascuna delle quali interpreta i loro testi sacri a proprio modo e sostiene come propri altri credi ausiliari, così quali dei numerosi credi conflittuali insegnati da queste religioni e sette dovrebbe essere creduto, o non dovremmo credere a nessuno di essi? In aggiunta ai diversi credi insegnati dalle religioni ci sono altri popolari sistemi di credo come l’ateismo, che è generalmente basato sulla visione metafisica conosciuta come fisicalismo o materialismo, secondo la quale ciò che è reale sono solo cose fisiche, così ogni cosa, inclusa la nostra mente, può in definitiva essere spiegata in termini di fisica. Il fisicalismo tende ad essere la visione metafisica dominante tra i filosofi accademici dei nostri giorni, ed essi sostengono questa visione così fortemente da spendere un’enorme quantità di sforzo mentale per cercare di trovare il modo per spiegare in modo soddisfacente le mente e tutti i fenomeni mentali in termini puramente fisici.

Nel passato la maggior parte delle persone è nata e vissuta in una cultura particolare, in cui prevaleva una religione o un sistema di credo metafisico particolare, così tendevano a credere a qualunque religione o filosofia era creduta dalla loro famiglia o dal loro gruppo sociale. Oggi tuttavia, la maggior parte di noi vive in società multiculturali e siamo esposti a una gamma molto più ampia di religioni e altri sistemi di credo metafisico, così se vogliamo decidere da soli cosa dovremmo credere abbiamo numerose opzioni tra cui scegliere. Data così tanta scelta, allora, perché dovremmo scegliere di credere agli insegnamenti di Bhagavan piuttosto che ad ogni altro sistema di credo metafisico?

Se egli non ci avesse dato ragioni logicamente convincenti per credere ai suoi insegnamenti, come potremmo giustificare il nostro credere in essi con noi stessi (o con chiunque altro può chiederci di farlo)? Il nostro credo in essi non sarebbe arbitrario e non più affidabile o probabilmente vero di qualsiasi altro dei numerosi credi che invece potremmo sostenere?

Alcuni di noi possono essere nati in famiglie Indù, nel qual caso i suoi insegnamenti possono non sembrare così alieni ma anche allora perché dovremmo scegliere di credere nei suoi insegnamenti particolari? L’Induismo non è un singolo sistema di credo metafisico o di pratica religiosa o spirituale, ma è una famiglia molto ampia e svariata di credi e pratiche, e all’interno di questa famiglia le diverse filosofie si contraddicono le une con le altre riguardo molti dei loro credi fondamentali, come anche si fanno difensori di forme differenti di pratica spirituale. Sebbene molte delle filosofie e sette all’interno dell’Induismo affermano che la liberazione (mukti o mōkṣa) è il fine ultimo, ciascuna di esse ha il proprio concetto di liberazione ed è in disaccordo con altri concetti di essa.

Inoltre, come gli individui in ogni altra religione o sistema di credo, ogni Indù ha le proprie convinzioni, desideri e aspirazioni personali, così anche tra gli Indù la maggioranza non è naturalmente attratta dagli insegnamenti di Bhagavan. Molti Indù possono essere attratti a lui come una persona santa e possono quindi essere disposti ad adorarlo come un Dio, ma questo non significa che siano disposti a comprendere – e tanto meno praticare – ciò che egli ha insegnato.

Molti dei suoi devoti accettano i suoi insegnamenti in modo superficiale, senza considerare seriamente e profondamente le loro implicazioni o le ragioni logiche per credere in essi. Questi devoti accettano i suoi insegnamenti sulla base della semplice fede religiosa, ma la loro comprensione di essi è superficiale e frammentata, perché non hanno considerato attentamente e assorbito pienamente le ragioni logiche che egli ha dato per ciascuno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti, o le connessioni logiche tra ciascuno dei quei principi fondamentali.

La maggioranza di noi, che siamo stati attratti dai suoi insegnamenti, quando all’inizio li abbiamo conosciuti non li abbiamo compresi pienamente, ma nondimeno siamo stati attratti da essi. Ciascuno di noi può essere stato attratto inizialmente da qualche aspetto particolare, come la loro focalizzazione sulla domanda fondamentale ‘Chi sono io?’ o la loro dimensione devozionale e la focalizzazione sulla necessità di un completo auto-abbandono. Tuttavia, poiché tutti questi aspetti sono profondamente e inestricabilmente connessi, se abbiamo considerato i suoi insegnamenti come un’unità e quindi siamo stati fermamente convinti da essi, ci sentiremo ora attratti da tutti i loro vari aspetti e dimensioni.

Sebbene inizialmente la nostra comprensione può essere stata parziale e superficiale, è probabile che ciò che ci ha attratto ai suoi insegnamenti sia stata la logica ovvia per cui, se non conosciamo ciò che noi (questo ‘io’) siamo realmente, qualunque altra cosa ci può sembrare di conoscere potrebbe essere illusoria e potrebbe quindi non essere vera o reale, e che conoscere noi stessi dovrebbe quindi essere il nostro fine primario. Se inizialmente siamo stati attratti da questa logica semplice e ovvia, successivamente siamo stati attratti dalla logica più profonda dei suoi insegnamenti che abbiamo scoperto studiando e riflettendo su di essi più approfonditamente ed esaurientemente.

Coloro che sono disposti ad arrendere completamente loro stessi tanto prontamente quanto lo è stato Bhagavan quando si è confrontato con l’improvvisa paura della morte che è sorta in lui all’età di sedici anni, sono davvero molto rari, così per la maggioranza di noi, prepararci ad arrendere completamente noi stessi nella chiara e divorante luce della pura auto-consapevolezza richiede tempo e pratica diligente. Quindi per avere amore sufficiente a motivare noi stessi per cominciare e perseverare pazientemente nella pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) abbiamo bisogno di avere una convinzione molto forte che questo è il solo mezzo con cui possiamo ottenere la perfetta conoscenza e la felicità infinita che stiamo cercando. Finché abbiamo il minimo dubbio o incertezza riguardo questo sentiero di auto-investigazione che egli ci ha insegnato e ci ha consigliato di seguire, ci mancherà la forza di convinzione richiesta per praticarla con pazienza e perseveranza, così è imperativo che comprendiamo chiaramente e che siamo fermamente convinti dalle potenti ragioni logiche che egli ci ha dato per mostrarci perché dovremmo credere a tutti i principi fondamentali sui quali è basata questa pratica.

9. Come possiamo trarre beneficio dalla comprensione della logica che sottende gli insegnamenti di Bhagavan

Se comprendiamo chiaramente la logica che sottende, supporta e tiene uniti come un’unità coerente tutti i principi fondamentali degli insegnamenti di Bhagavan, questo non solo accrescerà e stabilizzerà la nostra convinzione che quei principi sono veri, ma ci aiuterà anche ad accertarci di averli compresi correttamente, completamente e coerentemente, proteggendoci dal pericolo di comprenderli solo parzialmente e in un modo frammentato, o ancor peggio, fraintenderli o essere fuorviati da qualcuna delle molte interpretazioni errate di essi.

Se leggiamo i molti libri che riportano più o meno precisamente alcune delle conversazioni che hanno avuto luogo tra Bhagavan e i suoi devoti o visitatori casuali, ed anche qualcuno degli altri libri e scritti nei quali devoti hanno discusso e cercato di spiegare i suoi insegnamenti, saremo in grado di vedere che le persone hanno compreso e interpretato i suoi insegnamenti in modi molto differenti, così per decidere da noi stessi quello che egli intendeva realmente insegnarci abbiamo bisogno di studiare accuratamente i suoi scritti originali, in modo particolare i tre testi centrali, nei quali egli ha espresso i principi fondamentali dei suoi insegnamenti in modo sistematico, vale a dire Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, e abbiamo bisogno di riflettere attentamente su di essi per comprendere ed assorbire pienamente la logica con cui egli ha espresso e spiegato quei principi fondamentali.

Quindi sebbene nididhyāsana (la pratica di cercare di essere il più possibile auto-attentivi) sia essenziale, non dovremmo sminuire il valore di śravaṇa (studiare attentamente gli insegnamenti di Bhagavan) e manana (profonda e ponderata riflessione su di essi), perché lo studio e la riflessione ripetuti manterranno freschi e chiari i suoi insegnamenti nella nostra mente e ci aiuteranno a supportare e a mantenere la nostra motivazione e la ferma perseveranza in questa pratica.

Molte persone che hanno compreso i suoi insegnamenti solo superficialmente credono che essi siano più o meno come gli insegnamenti di molti altri guru o sette religiose, ma le similitudini che queste persone vedono tra i suoi insegnamenti ed altri sono generalmente solo superficiali. Ciò che distingue i suoi insegnamenti da quasi tutti gli altri insegnamenti spirituali è la logica profonda sebbene molto semplice e chiara con cui egli li ha spiegati, così se abbiamo pienamente compreso quella logica, non confonderemo così facilmente ciò che egli ci ha insegnato con altri insegnamenti che non sono così ben fondati logicamente.

Per esempio, molti guru oggigiorno affermano che osservando o testimoniando i propri pensieri o attività della propria mente uno può distaccare sé stesso da essi, e alcune persone credono che una tale pratica sia simile alla pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra) che Bhagavan ci ha insegnato, mentre è effettivamente del tutto contraria alla base logica dei suoi insegnamenti. Secondo lui, siamo consapevoli dei nostri pensieri o attività mentali solo perché diamo ad essi attenzione, e dando ad essi attenzione non solo ci attacchiamo ad essi ma anche li nutriamo e rafforziamo, e quindi simultaneamente nutriamo e rafforziamo l’illusione di essere questo ego o mente (come intende chiaramente nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu).

Poiché osservare o testimoniare i propri pensieri significa dare ad essi attenzione, secondo la chiara logica del principio fondamentale espresso da Bhagavan nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu, esso è un mezzo per nutrire il nostro ego e rafforzare il suo attaccamento – non un mezzo per indebolire il suo attaccamento o distruggerlo. Secondo Bhagavan il mezzo diretto per indebolire tutti i nostri attaccamenti e per distruggere infine il nostro ego è rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi e dunque lontano da tutti i pensieri, come ha indicato chiaramente, per esempio, nel sesto paragrafo e undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
பிற வெண்ணங்க ளெழுந்தா லவற்றைப் பூர்த்தி பண்ணுவதற்கு எத்தனியாமல் அவை யாருக் குண்டாயின என்று விசாரிக்க வேண்டும். எத்தனை எண்ணங்க ளெழினு மென்ன? ஜாக்கிரதையாய் ஒவ்வோ ரெண்ணமும் கிளம்பும்போதே இது யாருக்குண்டாயிற்று என்று விசாரித்தால் எனக்கென்று தோன்றும். நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்; எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும். இப்படிப் பழகப் பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது.

piṟa v-eṇṇaṅgaḷ eṙundāl avaṯṟai-p pūrtti paṇṇuvadaṟku ettaṉiyāmal avai yārukku uṇḍāyiṉa eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum. ettaṉai eṇṇaṅgaḷ eṙiṉum eṉṉa? jāggiratai-y-āy ovvōr eṇṇamum kiḷambum-pōdē idu yārukkuṇḍāyiṯṟu eṉḏṟu vicārittāl eṉakkeṉḏṟu tōṉḏṟum. nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṟku-t tirumbi-viḍum; eṙunda v-eṇṇamum aḍaṅgi-viḍum. ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṟku-t taṉ piṟappiḍattil taṅgi niṯgum śakti y-adhikarikkiṉḏṟadu.

Se altri pensieri sorgono, senza cercare di completarli, è necessario investigare a chi sono venuti in mente. Per quanti pensieri sorgono, cosa [importa]? Non appena si presenta ogni pensiero, se si investiga in modo vigilante a chi esso viene in mente, sarà chiaro che la risposta sarà 'a me'. Così se si investiga ‘chi sono io?’, la mente ritornerà al proprio luogo di nascita [sé stessi]; il pensiero che è sorto anche cesserà. Quando si pratica e pratica in questo modo, il potere della mente di rimanere fermamente stabilita nel proprio luogo di nascita aumenterà.

நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். அன்னியத்தை நாடாதிருத்தல் வைராக்கியம் அல்லது நிராசை; தன்னை விடாதிருத்தல் ஞானம். உண்மையி லிரண்டு மொன்றே.

niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. aṉṉiyattai nāḍādiruttal vairāggiyam alladu nirāśai; taṉṉai viḍādiruttal jñāṉam. uṇmaiyil iraṇḍum oṉḏṟē.

Come e quando i pensieri sorgono, allora e lì è necessario annientarli per mezzo di vicāraṇā [investigazione o vigilante auto-attentività] proprio nel luogo dove essi sorgono. Non dare attenzione a [qualsiasi cosa] diversa [da sé stessi] è vairāgya [imparzialità o distacco] o nirāśā [essere senza desideri]; non separarsi [o lasciarsi andare] da sé stessi è jñāna [vera conoscenza]. In verità [questi] due [vairāgya e jñāna] sono solo uno.
La pratica di persistente auto-attentività che Bhagavan descrive in questi due brani è il solo mezzo diretto e anche il più efficace con cui possiamo indebolire ed infine distruggere tutte le nostre viṣaya-vāsanā, che sono i nostri desideri o inclinazioni ad aggrapparci all’esperienza di viṣaya (qualsiasi cosa diversa da noi stessi). La ragione logica per questo è che il nostro ego o mente può avere origine, resistere e nutrire sé stesso solo aggrappandosi o dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da sé stesso, così può distruggere sé stesso solo attendendo soltanto a sé stesso, come Bhagavan spiega nel verso 25 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
உருப்பற்றி யுண்டா முருப்பற்றி நிற்கு
முருப்பற்றி யுண்டுமிக வோங்கு — முருவிட்
டுருப்பற்றுந் தேடினா லோட்டம் பிடிக்கு
முருவற்ற பேயகந்தை யோர்.

uruppaṯṟi yuṇḍā muruppaṯṟi niṟku
muruppaṯṟi yuṇḍumiha vōṅgu — muruviṭ
ṭuruppaṯṟun tēḍiṉā lōṭṭam piḍikku
muruvaṯṟa pēyahandai yōr
.

பதச்சேதம்: உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும், உரு அற்ற பேய் அகந்தை. ஓர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum, uru aṯṟa pēy ahandai. ōr.

அன்வயம்: உரு அற்ற பேய் அகந்தை உரு பற்றி உண்டாம்; உரு பற்றி நிற்கும்; உரு பற்றி உண்டு மிக ஓங்கும்; உரு விட்டு, உரு பற்றும்; தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும். ஓர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uru aṯṟa pēy ahandai uru paṯṟi uṇḍām; uru paṯṟi niṟkum; uru paṯṟi uṇḍu miha ōṅgum; uru viṭṭu, uru paṯṟum; tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum. ōr.

Traduzione: Afferrando la forma, l’ego-fantasma senza forma ha origine; afferrando la forma si regge; afferrando e nutrendosi di forma cresce [si diffonde, si espande, aumenta, si innalza o fiorisce] abbondantemente; lasciando [una] forma, afferra [un’altra] forma. Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo. Investiga [o conosci in questo modo].
Ciò che Bhagavan ci insegna in questo verso è uno dei principi più fondamentali dei suoi insegnamenti, e se comprendiamo chiaramente e siamo convinti dalla logica di questo principio, non saremmo tratti in inganno da coloro che affermano che osservare o testimoniare i propri pensieri o qualsiasi altra cosa diversa da sé stessi è un mezzo per distaccare sé stessi da tali cose o dal proprio ego. Poiché l’esistenza apparente di qualsiasi altra cosa dipende dall’esistenza apparente di noi stessi come questo ego, è poiché questo ego è nutrito e sostenuto dando attenzione a qualsiasi cosa diversa da sé stesso, il solo mezzo con cui possiamo distaccarci da esso e da ogni altra cosa è attendere soltanto a noi stessi. Questo è ciò che Bhagavan intende nella frase finale di questo verso: ‘தேடினால் ஓட்டம் பிடிக்கும்’ (tēḍiṉāl ōṭṭam piḍikkum), ‘Se cercato [esaminato o investigato], esso prenderà il volo’.

Quindi comprendere le ragioni logiche per i principi fondamentali degli insegnamenti di Bhagavan, come questo, e anche le connessioni logiche tra ciascuno di questi principi, ci aiuterà a rimanere fermi nella nostra adesione alla pratica di ātma-vicāra e ad evitare di essere tratti in inganno da idee che sono contrarie ad essi, che siano espresse da altri guru, da altri devoti di Bhagavan o da chiunque altro.

10. Credere in Dio può essere benefico ma non è essenziale

La ragione per cui dovremmo credere in ciascuno dei principi più fondamentali ed essenziali dei suoi insegnamenti è stata spiegata da Bhagavan in modo chiaro e logico, ma ci sono alcuni aspetti o caratteristiche dei suoi insegnamenti che non sono così fondamentali o essenziali, e la ragione per credere in tali aspetti non può essere spiegata in ogni caso così direttamente o logicamente. Uno di questi aspetti è il concetto di Dio.

Nei suoi insegnamenti Bhagavan ha usato il concetto di Dio in modo fluido, flessibile e sfumato, così ciò che intendeva con il termine ‘Dio’ in un contesto non era necessariamente lo stesso di ciò che intendeva con esso in un altro contesto. Quindi il significato esatto di questo termine nei suoi insegnamenti è sensibile al contesto, così ogni volta che si trova dovremmo comprendere il suo significato secondo il contesto particolare in cui è usato. Qualche volta egli ha usato questo termine per riferirsi al concetto di Dio come un’entità separata, mentre altre volte lo ha usato per riferirsi all’unica realtà infinita e assoluta, che non è niente altro che il nostro sé reale (ātma-svarūpa). Quindi in alcuni contesti egli ha detto che Dio (intendendo Dio come un’entità separata) è solo tanto reale quanto il nostro ego e qualunque mondo questo ego può sperimentare, mentre in altri contesti egli ha detto che Dio (intendendo Dio come il nostro sé reale) è l’unica realtà, all’infuori della quale niente esiste.

10a. Nāṉ Yār? paragrafo 7: come entità separata, Dio è solo una costruzione illusoria (kalpanā)

Per esempio, quando egli ha detto nel settimo paragrafodi Nāṉ Yār? che Dio è solo una கற்பனை (kaṟpaṉai o kalpanā: una costruzione, una creazione mentale, un’immaginazione, un’illusione o una sovrapposizione illusoria), si stava riferendo ovviamente a Dio come un’entità separata, alla pari con il nostro ego e questo mondo. Tuttavia, sebbene egli ha detto che l’ego, il mondo e Dio sono tutti solo costruzioni mentali, come l’argento illusorio visto in una conchiglia, ha anche indicato che (proprio come ciò che appare come un serpente è solo una corda) ciò che appare come ciascuno di questi tre è solo il nostro sé reale (ātma-svarūpa), che solo è ciò che esiste realmente.

Ciò che egli ha detto nel settimo paragrafo di Nāṉ Yār? è:
யதார்த்தமா யுள்ளது ஆத்மசொரூப மொன்றே. ஜக ஜீவ ஈச்வரர்கள், சிப்பியில் வெள்ளிபோல் அதிற் கற்பனைகள். இவை மூன்றும் ஏககாலத்தில் தோன்றி ஏககாலத்தில் மறைகின்றன. சொரூபமே ஜகம்; சொரூபமே நான்; சொரூபமே ஈச்வரன்; எல்லாம் சிவ சொரூபமாம்.

yathārtham-āy uḷḷadu ātma-sorūpam oṉḏṟē. jaga-jīva-īśvarargaḷ, śippiyil veḷḷi pōl adil kaṟpaṉaigaḷ. ivai mūṉḏṟum ēka-kālattil tōṉḏṟi ēka-kālattil maṟaigiṉḏṟaṉa. sorūpam-ē jagam; sorūpam-ē nāṉ; sorūpam-ē īśvaraṉ; ellām śiva sorūpam ām.

Ciò che esiste realmente è solo ātma-svarūpa [il nostro sé reale]. Il mondo, l’anima e Dio sono costruzioni (kaṟpaṉaigaḷ) in esso, come l’argento in una conchiglia. Questi tre appaiono simultaneamente e scompaiono simultaneamente. Solo svarūpa [la ‘nostra forma’ o sé reale] è il mondo; solo svarūpa è ‘io’ [l’ego o anima]; solo svarūpa è Dio; ogni cosa è śiva-svarūpa [il nostro sé reale, che è śiva, l’unica realtà infinita e assoluta].
Tuttavia, sebbene egli ci abbia insegnato che come un’entità separata Dio è solo un’immaginazione o una costruzione illusoria (kalpanā), egli indica chiaramente che finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, il concetto di un tale Dio è utile, ed ha giustificato l’uso di questo concetto spiegando che Dio è realmente il nostro sé infinito, ma che finché sperimentiamo noi stessi come questo ego limitato, abbiamo apparentemente separato noi stessi dalla realtà infinita che è Dio, così nella vostra visione egli sembra essere un’entità separata – qualcosa diversa da noi stessi.

10b. Nāṉ Yār? paragrafo 9: il concetto di Dio come un’entità separata fornisce una benefica focalizzazione per il nostro amore

La ragione per cui il concetto di Dio come un’entità separata è utile è che ogni volta che non siamo in grado di mantenere la nostra attenzione fissata su noi stessi, che è la vera forma di Dio, l’idea che egli esiste anche fuori di noi come l’unico potere supremo che governa ogni cosa che accade in questo mondo, che ordina qualunque cosa dobbiamo sperimentare, e che ci ama come sé stesso e quindi cerca di guidarci ed attrarci a sé stesso, fornisce una focalizzazione benefica per il nostro amore. In altre parole, poiché Dio è realmente il nostro sé infinito, coltivare amore per lui anche come un’entità separata rende il nostro amore focalizzato su un unico punto e relativamente disinteressato, così quando quell’amore è rindirizzato dalla forma anya di Dio (cioè, la forma di Dio che sembra essere anya o diversa da noi stessi) verso la sua vera forma ananya (cioè, la sua forma reale, che è ananya o non diversa da noi stessi) questo renderà relativamente facile arrendere completamente noi stessi e quindi fonderci nel nostro sé reale (ātma-svarūpa), che è ciò che Dio è realmente.

Questo è ciò che Bhagavan ha indicato nel nono paragrafo di Nāṉ Yār? quando ha spiegato il beneficio di meditare con amore focalizzato su un unico punto, su un nome o una forma di Dio, dicendo:
மூர்த்தித்தியானத்தாலும், மந்திரஜபத்தாலும் மனம் ஏகாக்கிரத்தை யடைகிறது. […] மனம் அளவிறந்த நினைவுகளாய் விரிகின்றபடியால் ஒவ்வொரு நினைவும் அதிபலவீனமாகப் போகின்றது. நினைவுக ளடங்க வடங்க ஏகாக்கிரத்தன்மை யடைந்து, அதனாற் பலத்தை யடைந்த மனத்திற்கு ஆத்மவிசாரம் சுலபமாய் சித்திக்கும்.

mūrtti-d-dhiyāṉattālum, mantira-japattālum maṉam ēkāggirattai y-aḍaikiṟadu. […] maṉam aḷaviṟanda niṉaivugaḷ-āy virigiṉḏṟapaḍiyāl ovvoru niṉaivum adi-bala-v-īṉam-āha-p pōgiṉḏṟadu. niṉaivugaḷ aḍaṅga v-aḍaṅga ēkāggira-t-taṉmai y-aḍaindu, adaṉāl balattai y-aḍainda maṉattiṟku ātma-vicāram sulabham-āy siddhikkum.

Sia con mūrti-dhyāna [meditazione su una forma di Dio] che con mantra-japa [ripetizione di una parola o una frase sacra, abitualmente consistente o contenente un nome di Dio] la mente ottiene ēkāgratā [focalizzazione su un unico punto o concentrazione]. […] Poiché la mente si diffonde come innumerevoli pensieri [disperdendo quindi la sua energia], a ogni pensiero si indebolisce. Quando i pensieri si riducono e riducono, per la mente che ha ottenuto la forza realizzando [in questo modo] ēkāgra-taṉmai [focalizzazione su un unico punto], ātma-vicāra [auto-investigazione] sarà compiuta facilmente.
10c. Nāṉ Yār? paragrafo 13: più confidiamo in Dio più ci sarà facile arrendere noi stessi, attendendo a nient’altro che a noi stessi

Un altro modo in cui possiamo spiegare il beneficio di coltivare amore per Dio anche come un’entità separata è il seguente: Poiché possiamo sorgere e reggerci come questo ego solo dando attenzione e quindi sperimentando cose diverse da noi stessi, quando rivolgiamo la nostra attenzione indietro verso noi stessi per investigare cosa siamo realmente, il nostro ego inizierà a sprofondare e a scomparire, così praticare l’auto-investigazione (ātma-vicāra) comporta necessariamente arrendere il nostro ego, e poiché possiamo sperimentare altre cose solo quando sperimentiamo noi stessi come questo ego, ciò anche comporta abbandonare ogni altra cosa. Questo è il motivo per cui nella frase finale del verso 26 Bhagavan ha detto ‘ஆதலால், யாது இது என்று நாடலே ஓவுதல் யாவும் என ஓர்’ (ādalāl, yādu idu eṉḏṟu nādal-ē ōvudal yāvum eṉa ōr), che significa ‘Quindi, sappi che solo investigare ciò che è questo [ego] è abbandonare ogni cosa’.

Quindi la pratica di auto-investigazione è anche la pratica di completo auto-abbandono, come Bhagavan ha spiegato chiaramente nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே தன்னை ஈசனுக் களிப்பதாம்.

āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadē taṉṉai īśaṉukku aḷippadām.

Solo essere completamente assorbiti in auto-dimora (ātma-niṣṭhā), non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero (cintana) diverso dal pensiero di sé stessi (ātma-cintana), è arrendere sé stessi a Dio.
Ciò che egli intende con il termine ‘Dio’ (īśaṉ) in questa frase è ovviamente Dio come il nostro sé reale, perché Dio sembra essere un’entità separata solo nella visione limitata del nostro ego, così quando arrendiamo completamente il nostro ego attendendo o pensando soltanto a noi stessi, egli non sembrerà più essere un’entità separata ma risplenderà come il nostro sé reale (ātma-svarūpa), che è ciò che egli è realmente. Tuttavia, se non ci arrendiamo completamente a lui, non lo possiamo sperimentare realmente come il nostro sé, così ogni volta che non stiamo attendendo esclusivamente a noi stessi, egli ancora sembrerà qualcosa diversa da noi stessi.

Per arrendere completamente noi stessi, abbiamo bisogno di amore divorante per ciò che è reale, così mentre ci prepariamo a compiere l’ultimo sacrificio di noi stessi, il nostro amore per ciò che è reale può a volte essere diretto esclusivamente verso noi stessi nella forma di ferma auto-attentività, mentre a volte può essere diretto maggiormente verso Dio nella forma di travolgente devozione a lui. Sebbene la devozione all’auto-attentività e la devozione a Dio possono sembrare due forme del tutto differenti di devozione, una essendo diretta verso noi stessi e l’altra essendo apparentemente diretta lontano da noi stessi, in pratica non sono così differenti come possono sembrare. Infatti esse sono complementari, perché il Dio a cui sembriamo aggrapparci esternamente in effetti non è nient’altro che il nostro sé, e l’amore con cui ci aggrappiamo a lui sorge dal profondo di noi stessi, essendo (almeno durante stadi avanzi di abbandono) una forma molto pura dell’amore fondamentale che ciascuno di noi ha per il proprio sé.

Se non arrendiamo completamente noi stessi, non saremo in grado di essere esclusivamente auto-attentivi (sebbene dovremmo cercare di esserlo), così sebbene a volte possiamo giungere vicini ad essere esclusivamente auto-attentivi, in altri momenti la nostra mente avrà bisogno di essere impegnata almeno in qualche misura in affari esterni, così in questi momenti abbiamo bisogno di contenere il più possibile le tendenze esteriorizzanti della nostra mente, cosa che possiamo fare minimizzando il nostro interesse con qualsiasi cosa esterna a noi. Per minimizzare il nostro interesse per qualsiasi cosa diversa dalla nostra auto-consapevolezza, è estremamente utile mantenere un’attitudine di abbandono alla volontà di Dio, sapendo che qualunque cosa accade esternamente è ordinata da lui ed è quindi secondo la sua volontà per il nostro beneficio. Questo è il motivo per cui nelle restanti tre frasi di questo tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? Bhagavan ha detto:
ஈசன்பேரில் எவ்வளவு பாரத்தைப் போட்டாலும், அவ்வளவையும் அவர் வகித்துக்கொள்ளுகிறார். சகல காரியங்களையும் ஒரு பரமேச்வர சக்தி நடத்திக்கொண்டிருகிறபடியால், நாமு மதற் கடங்கியிராமல், ‘இப்படிச் செய்யவேண்டும்; அப்படிச் செய்யவேண்டு’ மென்று ஸதா சிந்திப்பதேன்? புகை வண்டி சகல பாரங்களையும் தாங்கிக்கொண்டு போவது தெரிந்திருந்தும், அதி லேறிக்கொண்டு போகும் நாம் நம்முடைய சிறிய மூட்டையையு மதிற் போட்டுவிட்டு சுகமா யிராமல், அதை நமது தலையிற் றாங்கிக்கொண்டு ஏன் கஷ்டப்படவேண்டும்?

īśaṉpēril e-vv-aḷavu bhārattai-p pōṭṭālum, a-vv-aḷavai-y-um avar vakittu-k-koḷḷugiṟār. sakala kāriyaṅgaḷai-y-um oru paramēśvara śakti naḍatti-k-koṇḍirugiṟapaḍiyāl, nāmum adaṟku aḍaṅgi-y-irāmal, ‘ippaḍi-c ceyya-vēṇḍum; appaḍi-c ceyya-vēṇḍum’ eṉḏṟu sadā cinti-p-padēṉ? puhai vaṇḍi sakala bhāraṅgaḷaiyum tāṅgi-k-koṇḍu pōvadu terindirundum, adil ēṟi-k-koṇḍu pōhum nām nammuḍaiya siṟiya mūṭṭaiyaiyum adil pōṭṭu-viṭṭu sukhamāy irāmal, adai namadu talaiyil tāṅgi-k-koṇḍu ēṉ kaṣṭa-p-paḍa-vēṇḍum?

Anche se uno pone su Dio qualsiasi quantità di carico, egli reggerà quell’intero carico. Poiché un paramēśvara śakti [potere supremo dominante o potere di Dio] sta guidando tutte le attività [ogni cosa che accade in questo mondo], invece di lasciare il posto ad esso perché dovremmo pensare sempre, ‘è necessario agire in questo modo; è necessario agire in quel modo’? Sebbene sappiamo che il treno sta andando portando tutti i carichi, perché viaggiando su esso, soffriamo portando il nostro piccolo bagaglio sulla testa invece di rimanere lietamente, lasciando il bagaglio appoggiato su quel [treno]?
Più ci affidiamo a Dio per prendersi cura di ogni cosa, meno saremo interessati agli affari esterni o a qualsiasi cosa che può o non può accadere nella nostra vita esteriore, e meno saremo interessati a tali cose più facile ci sarà rivolgere la nostra mente interiormente per essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi. L’amore che abbiamo per Dio e la conseguente fiducia che abbiamo in lui è chiamata bhakti, mentre il non-interesse che abbiamo per qualsiasi cosa diversa da noi stessi è chiamato vairāgya. Nella misura in cui abbiamo una bhakti genuina, in quella stemma misura avremo anche un genuino vairāgya, e viceversa, perché bhakti è il potere dell’amore che attrae la nostra attenzione verso noi stessi, mentre vairāgya è la libertà dai desideri che attraggono la nostra attenzione lontano da noi stessi verso qualsiasi altra cosa.

Poiché la forma più pura di bhakti è l’amore per essere consapevoli soltanto di sé stessi, il modo diretto, più veloce e più efficace per coltivare la bhakti e il vairāgya richiesti per mantenere la nostra attenzione fermamente fissata su noi stessi e quindi fonderci infine nella chiara e divorante luce della pura auto-consapevolezza è cercare di essere il più possibile auto-attentivi. Tuttavia, avere amore per Dio e quindi affidare a lui tutti i nostri pensieri e preoccupazioni è un aiuto potente alla pratica di auto-attentività, perché aiuta a liberare la nostra mente dai desideri e dagli attaccamenti che tenderebbero altrimenti a trascinare la nostra attenzione lontano da noi stessi ogni volta che proviamo ad essere auto-attentivi.

Poiché ciò che Dio è effettivamente è solo il nostro sé reale (ātma-svarūpa), più attendiamo a noi stessi più il nostro amore per lui si approfondirà e si intensificherà, e più il nostro amore per lui si approfondirà e si intensificherà più il nostro vairāgya diverrà fermo e forte, che a sua volta ci permetterà di essere più esclusivamente auto-attentivi. Dunque l’amore per Dio e la pratica di auto-attentività sono complementari, rinforzandosi reciprocamente.

10d. Upadēśa Taṉippākkaḷ verso 15: Dio è noi stessi, così l’auto-attentività è suprema devozione a Dio

La pratica di auto-attentività non solo rinforza e completa il nostro amore per Dio, ma è anche l’espressione più pura di tale amore, come Bhagavan indica inequivocabilmente nel verso 15 di Upadēśa Taṉippākkaḷ:
ஆன்மாநு சந்தான மஃதுபர மீசபத்தி
ஆன்மாவா யீசனுள னால்.

āṉmānu sandhāṉa maḵdupara mīśabhatti
āṉmāvā yīśaṉuḷa ṉāl
.

பதச்சேதம்: ஆன்ம அநுசந்தானம் அஃது பரம் ஈச பத்தி, ஆன்மாவாய் ஈசன் உளனால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): āṉma-anusandhāṉam aḵdu param īśa-bhatti, āṉmā-v-āy īśaṉ uḷaṉāl.

அன்வயம்: ஈசன் ஆன்மாவாய் உளனால், ஆன்ம அநுசந்தானம் அஃது பரம் ஈச பத்தி.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): īśaṉ āṉmā-v-āy uḷaṉāl, āṉma-anusandhāṉam aḵdu param īśa-bhatti.

Traduzione: L’auto-investigazione (ātma-anusaṁdhāna) è suprema devozione a Dio (para īśa-bhakti), perché Dio esiste come sé stessi (ātman).
10e. Upadēśa Undiyār verso 8: l’amore per Dio come nient’altro che sé stessi è il migliore di tutti

Molti devoti di Dio lo considerano qualcosa diversa da loro stessi, ma più il loro amore per lui si approfondisce e si intensifica più essi lo sentiranno vicino, finché finalmente diverrà chiaro ad essi che egli non è altro che il loro sé reale, perche al di fuori di lui essi sono niente. In questo modo l’amore per Dio matura, da essere anya bhakti (amore per lui come se fosse qualcosa diversa da sé stessi) ad essere ananya bhakti (amore per lui come niente altro che sé stessi), che è la forma più perfetta di bhakti, come Bhagavan intende nel verso 8 di Upadēśa Undiyār:
அனியபா வத்தி னவனக மாகு
மனனிய பாவமே யுந்தீபற
வனைத்தினு முத்தம முந்தீபற.

aṉiyabhā vatti ṉavaṉaha māhu
maṉaṉiya bhāvamē yundīpaṟa
vaṉaittiṉu muttama mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: அனிய பாவத்தின் அவன் அகம் ஆகும் அனனிய பாவமே அனைத்தினும் உத்தமம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): aṉiya bhāvattiṉ avaṉ aham āhum aṉaṉiya bhāvam-ē aṉaittiṉ-um uttamam.

Traduzione: Piuttosto che anya bhāva, ananya bhāva, in cui egli è io, è certamente la migliore tra tutte [le pratiche di bhakti e le forme o varietà di meditazione].
Nel contesto in cui Bhagavan ha scritto questo verso il significato primario di bhāva è meditazione o contemplazione, così anya bhāva significa meditazione su Dio come anya o diverso da sé stessi, mentre ananya bhāva significa meditazione su di lui come ananya o non diverso da sé stessi. Tuttavia bhāva significa anche amore, e poiché l’amore per Dio è la forza che motiva a meditare su di lui, possiamo interpretare bhāva in questo verso nel significato sia di meditazione che amore. Quindi ciò che Bhagavan intende qui è che avere amore per Dio come sé stessi è la migliore fra tutte le forme di bhakti, e che meditare su sé stessi soltanto è quindi la migliore fra tutte le forme di meditazione.

Tuttavia, poiché dal verso 4 al verso 8 di Upadēśa Undiyār Bhagavan ha spiegato l’efficacia relativa delle varie pratiche di bhakti nel purificare la propria mente, quando egli dice in questo verso che ananya bhāva è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), la ‘migliore fra tutte’, egli intende che meditare su sé stessi soltanto è il mezzo più efficace per purificare la propria mente – cioè, per pulirla dei suoi desideri esteriorizzanti o viṣaya-vāsanā.

Così dal verso verso 4 al verso 8 di Upadēśa Undiyār Bhagavan spiega come le varie pratiche di anya bhakti condurranno infine alla pratica di ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-attentività), che è la vera espressione di ananya bhakti. Questo è il motivo per cui egli ci ha insegnato che sebbene Dio non è realmente niente altro che noi stessi, il concetto di lui come qualcosa diversa da noi stessi è nondimeno molto utile, perché fornisce un mezzo efficace con cui possiamo attrarre la nostra mente al sentiero di auto-investigazione, che è il solo mezzo con cui possiamo distruggere il nostro ego e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente.

La devozione a Dio può quindi essere un ponte che ci permette di passare dall’essere occupati con pensieri e faccende riguardanti questioni esterne, all’essere interessati a cercare di arrendere completamente noi stessi per mezzo dell’auto-investigazione, e una volta che abbiamo iniziato il viaggio dell’auto-investigazione essa fornisce un supporto prezioso, aiutandoci a scansare numerose distrazioni affidando tutti i nostri pensieri e preoccupazioni a lui, e quindi permettendoci di mantenere il nostro amore focalizzato esclusivamente sul cercare di sperimentare la nostra pura auto-consapevolezza, che è la sua vera forma.

10f. Sebbene potenzialmente benefico, l’amore per Dio non è effettivamente necessario

Tuttavia, non tutti sono attratti dal sentiero di devozione a Dio come un’entità esterna, e coloro che provengono da un ambiente ateo o dall’ambiente di una religione o sistema di credo spirituale come il Buddhismo, il Jainismo o il rāja yōga che danno poca o nessuna importanza al concetto di Dio, possono chiedere se è realmente necessario credere in lui. La risposta a questa domanda è no, non è necessario, anche se può essere molto benefico, perché per praticare l’auto-investigazione tutto ciò di cui abbiamo bisogno di credere è che noi esistiamo e che siamo consapevoli, cosa a cui nessuno di noi può ragionevolmente non credere.

Possiamo ragionevolmente dubitare dell’esistenza o della realtà di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, perché ogni altra cosa potrebbe essere (e secondo Bhagavan è) solo una creazione illusoria della nostra mente, come ogni cosa che sperimentiamo in un sogno, ma non possiamo ragionevolmente dubitare della nostra esistenza, perché se non esistessimo non potremmo essere consapevoli di qualsiasi cosa, sia reale che illusoria. Poiché siamo consapevoli sia di noi stessi che di altre cose, dobbiamo esistere realmente, ma sebbene sia chiaro e certo che noi siamo, non è ancora chiaro e certo cosa siamo, perché ora sperimentiamo noi stessi come se fossimo fenomeni temporanei, come il nostro ego e questo corpo. Poiché nel sonno siamo consapevoli di noi stessi ma non siamo consapevoli di questo ego, del corpo e di qualsiasi altra cosa, questi fenomeni transitori che ora sembriamo essere non possono essere ciò che siamo realmente, così abbiamo bisogno di investigare noi stessi per sperimentarci come siamo realmente.

Quindi credere in Dio o in qualsiasi altra cosa diversa da noi stessi non è necessario, così Bhagavan non ha mai cercato di forzare qualcuno a credere in Dio a meno essi non si sentissero inclini a farlo, come è illustrato da una sua risposta registrata nel secondo capitolo della seconda parte di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagina 56):
Se credi che Dio farà per te tutte le cose che vuoi che Lui faccia, allora abbandona te stesso a Lui. Altrimenti lascia da solo Dio e conosci te stesso.
Se qualcuno non si sentiva incline a credere in Dio o in qualsiasi altra cosa che non conosceva con certezza, egli lo avrebbe incoraggiato a dubitare di ogni cosa, incluso colui che dubita, il proprio ego, così mostrava che proprio come una sincera fede in Dio può essere un ponte che permette di passare dagli interessi mondani all’interesse a conoscere sé stessi, lo scetticismo radicale riguardo ogni cosa può essere un ponte alternativo che conduce allo stesso punto, vale a dire il centro focalizzato in cui cercare di sperimentare ciò che si è realmente.

Sebbene la devozione a Dio può essere un aiuto e un supporto molto benefico nella propria pratica di auto-investigazione, essa è adatta solo a coloro che si sentono naturalmente inclini a credere in lui. Per chiunque non ha questa inclinazione, credere in lui non è necessario, ed essi non si devono preoccupare per la loro mancanza di fede in lui, perché per praticare auto-investigazione e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente non abbiamo bisogno di credere in qualcosa cosa che non conosciamo con certezza per esperienza propria, e la sola cosa che sappiamo con certezza è che esistiamo e siamo consapevoli. Quindi Bhagavan consigliava queste persone di investigare la sola cosa la cui esistenza è oltre ogni possibilità di dubbio, vale a dire sé stessi.

Tuttavia nel contesto degli insegnamenti di Bhagavan lo scetticismo e la fede non sono reciprocamente esclusivi, perché possiamo essere radicalmente scettici riguardo l’esistenza di ogni cosa diversa da noi stessi ma allo stesso tempo avere fede in Dio a causa dei benefici pratici che possiamo ricavare. Dire che possiamo essere scettici riguardo ogni cosa eppure avere fede in Dio può sembrare illogico, ma non lo è, come può essere visto dall'esempio seguente:

Anche se siamo scettici riguardo la realtà di qualsiasi cosa che ora stiamo sperimentando, sospettando che tutto ciò sia solo un sogno, possiamo nondimeno credere che all’interno di questo sogno funzionano le leggi della fisica, così per esempio a causa del nostro credere alla gravità non cammineremmo fuori dalla cima di un’alta costruzione. Se tutto questo è solo un sogno, la gravità e le altre leggi della fisica non sono effettivamente reali, ma nondimeno sembrano reali, perché sono tanto reali quanto il nostro ego e quanto ogni altra cosa che sperimentiamo in questo sogno. Ugualmente, sebbene possiamo credere che niente altro che noi stessi sia effettivamente reale, nondimeno possiamo credere che finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, Dio e la sua onniscienza, onnipotenza, onnibenevolenza e grazia sono reali quanto questo ego e quanto ogni altra cosa che ora sperimentiamo, proprio come le leggi della fisica sono reali quanto ogni altra cosa che sperimentiamo in qualunque sogno esse sembrano applicarsi.

Non possiamo provare logicamente l’esistenza di Dio come un’entità separata, e non abbiamo bisogno di cercare di farlo, perché se siamo inclini a credere in lui tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere è come questo credo ci può essere benefico nel raggiungere il nostro fine ultimo, che è arrendere completamente il nostro ego e quindi sperimentare noi stessi come siamo realmente. Bhagavan ci ha spiegato questo in modo chiaro e logico, mostrandoci come la devozione a Dio può aiutarci non solo a focalizzare il nostro amore nel cercare di sperimentare noi stessi come siamo realmente, ma anche di liberare la nostra mente da tutti gli interessi e le preoccupazioni che altrimenti distrarrebbero la nostra attenzione lontano da noi stessi.

Secondo Bhagavan Dio non esiste realmente come un’entità separata, perché sembra essere anya (qualcosa che è separata o diversa da noi stessi) solo nella visione del nostro ego, che anch'esso non esiste realmente ma solamente sembra esistere nella propria visione. C’è solo una cosa che esiste realmente, e quella è noi stessi, così se Dio è l’unica realtà infinita che è creduto essere, egli non può essere qualcosa diversa dal nostro sé reale (ātma-svarūpa). Tuttavia, sebbene egli non esiste realmente come qualcosa che sembra essere diversa da noi stessi, possiamo nondimeno trarre beneficio dal credere che egli esiste come qualcosa che sembra essere diversa da noi stessi, vale a dire un essere infinito, onnisciente, onnipotente e onnibenevolente, perché se lo crediamo tale e quindi affidiamo tutti i nostri bisogni personali e le preoccupazioni alla sua cura, saremo liberi da essi e quindi saremo in grado di focalizzare tutto il nostro interesse, la cura, l’attenzione e lo sforzo nell’investigare noi stessi cercando di essere attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi.

11. La teoria del karma è un principio ausiliario ma non fondamentale degli insegnamenti di Bhagavan

Come il concetto di Dio, la teoria del karma non è un principio essenziale o fondamentale degli insegnamenti di Bhagavan, ma credere in essa può essere benefico, così possiamo considerarla come un principio ausiliario dei suoi insegnamenti. Tuttavia, proprio come non possiamo provare logicamente che Dio esiste come un’entità separata, non possiamo provare logicamente che la teoria del karma è vera, così se siamo disposti a credere in essa possiamo farlo solo sulla base della fede.

Se siamo fermamente convinti da tutte le ragioni logiche che Bhagavan ci ha dato per mostrarci perché dovremmo credere in ognuno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti, dovrebbe essere relativamente facile per noi credere ad altri aspetti meno essenziali dei suoi insegnamenti come la teoria del karma, anche se non c’è una ragione logica perché dovremmo credere in essi. Tuttavia, non è del tutto corretto dire che non c’è ragione logica per cui dovremmo credere alla teoria del karma, perché sebbene la verità di questa teoria non può essere provata da alcun ragionamento logico, il beneficio che possiamo trarre dal credere in essa può essere spiegato in modo chiaro e logico, così per scopi pratici avremmo buone ragioni per credere in essa anche se non fosse vera.

Tuttavia, prima di considerare i benefici che possiamo trarre dal credere nella teoria del karma, innanzitutto consideriamo se essa sia o meno un aspetto essenziale o fondamentale dei suoi insegnamenti. La ragione per cui ho detto che non è un principio essenziale o fondamentale ma solo un principio ausiliario dei suoi insegnamenti è che non abbiamo bisogno di credere in questa teoria per essere convinti che dovremmo cercare di sperimentare ciò che siamo realmente per mezzo dell’investigazione di noi stessi.

Tutti i principi più fondamentali ed essenziali dei suoi insegnamenti sono centrati attorno alla natura del nostro ego e agli effetti della sua esistenza apparente, perché questo ego è ciò che apparentemente ci impedisce di sperimentare noi stessi come siamo realmente, poiché tutti gli altri ostacoli che affrontiamo sono radicati in questo ego e non esisterebbero senza di esso. Quindi per sperimentare noi stessi come siamo realmente tutto ciò che abbiamo bisogno di fare è annientare questo ego, che è l’illusione di essere qualsiasi cosa diversa da ciò che siamo realmente, così comprendere come questo ego sembra esistere (o piuttosto come noi sembriamo essere questo ego) e come esso può essere annientato è tutto ciò che abbiamo realmente bisogno di sapere per comprendere perché e come dovremmo investigare noi stessi.

La teoria del karma presuppone l’esistenza dell’ego, perché senza un ego non ci sarebbe nessuno a compiere ogni azione (karma) o a sperimentare le conseguenze di ogni azione. Quindi, poiché Bhagavan ci ha consigliato di investigare se siamo realmente l’ego che ora sembriamo essere, e poiché ci ha insegnato che se investighiamo noi stessi in modo sufficientemente esauriente scopriremo che questo ego non esiste realmente ed è quindi solo un’apparenza illusoria, possiamo dedurre che la teoria del karma non è realmente vera, anche se può sembrare vera finché sperimentiamo noi stessi come questo ego. Questo è il motivo per cui egli ci ha insegnato che la teoria del karma non è assolutamente vera, anche se in relazione all’esistenza apparente di noi stessi come questo ego è apparentemente vera.

Quando pensiamo alla teoria del karma come se fosse vera, dobbiamo pensare a noi stessi come se fossimo questo ego, così sebbene può essere benefico credere che la teoria del karma è vera in un senso relativo, dovremmo ricordare che sembra essere vera solo finché noi sembriamo essere questo ego, così se investighiamo noi stessi e quindi distruggiamo l’illusione di essere questo ego, distruggeremo in tal modo anche l’illusione di essere costretti entro i limiti del karma e delle sue conseguenze. Quindi, poiché distruggere il nostro ego per mezzo dell’auto-investigazione è il fine centrale degli insegnamenti di Bhagavan, la teoria del karma gioca nei suoi insegnamenti solo un ruolo marginale e non essenziale.

Nella teoria del karma come insegnata da Bhagavan, Dio ha un ruolo essenziale, perché (come spiega nel primo verso di Upadēśa Undiyār) karma è jaḍa (privo di ogni coscienza o consapevolezza), così esso non può determinare quale ‘frutto’ o conseguenza morale ciascun karma dovrebbe produrre, né può determinare quando ognuna di queste conseguenze dovrebbero essere sperimentate. Quindi per credere nella teoria del karma dobbiamo credere nell’esistenza non solo di noi stessi come questo ego ma anche di Dio come qualcosa separata da noi stessi, perché nella visione di Dio come il nostro sé reale non c’è una cosa come un ego o qualsiasi karma, così ciò che ordina il frutto di ogni karma e quando esso deve essere sperimentato non è il nostro sé reale ma solo Dio come un’entità apparentemente separata. Quindi la teoria del karma sarebbe vera solo se fosse vero che noi siamo questo ego e che Dio è quindi qualcosa diversa da noi stessi.

Il fatto che la teoria del karma ha solo un ruolo marginale negli insegnamenti di Bhagavan può anche essere compreso considerando la quantità di volte in cui essa compare in Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, che sono i tre testi in cui egli ha espresso i principi fondamentali dei suoi insegnamenti in modo sistematico.

11a. Nāṉ Yār? paragrafo 15: Dio è intoccato da qualsiasi karma quindi non fa nulla

In Nāṉ Yār? Bhagavan non menziona direttamente la teoria del karma, ma si riferisce ad essa molto indirettamente solo nel quindicesimo paragrafo, nel quale spiega la natura e il ruolo di Dio, riconciliando l’apparente abisso tra il concetto di Dio come un essere separato, che ha un ruolo o funzione specifica, e la realtà di Dio come il nostro sé reale, che mai fa qualcosa ma solo è. Cioè, anche se generalmente sono attribuite a Dio cinque azioni o funzioni (pañcakṛtya), vale a dire sṛṣṭi (creazione o proiezione dell’universo), sthiti (nutrimento o mantenimento di esso), saṁhāra (distruzione, dissoluzione o ritiro di esso), tirodhāna (copertura, velatura o nascondimento di ciò che è reale) e anugraha (grazia o benevolenza, in modo particolare nel senso di rivelare ciò che è reale), in questo paragrafo Bhagavan dice che tutto questo accade per ‘ஈசன் சன்னிதான விசேஷ மாத்திரம்’ (īśaṉ saṉṉidhāṉa-viśēṣa-māttiram), che significa ‘solo la particolare natura della presenza di Dio’, e che Dio è ‘ஸங்கல்ப ரகிதர்’ (saṅkalpa-rahitar), che significa ‘qualcuno che è privo di saṁkalpa [volizione, decisione o desiderio]’, così nessuna azione (karma) si attacca o aderisce a lui. Dunque intende che poiché Dio è il nostro sé infinito, egli non fa realmente niente, ma ogni cosa sembra accadere o essere fatta accadere solo per il potere della sua pura presenza. Oltre a dire che in effetti Dio è intoccato da ogni karma e quindi non fa niente, dice anche che i jīva (esseri viventi) agiscono e si fermano in accordo con i loro karma rispettivi, che è il punto in cui si è avvicinato di più a riferirsi alla teoria del karma in tutto il Nāṉ Yār?.

11b. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 38: il karma esiste solo per l’ego

In Uḷḷadu Nāṟpadu egli si riferisce alla teoria del karma un po’ più direttamente nel verso 38, ma il suo scopo in questo verso non è attribuire realtà a questa teoria ma solo di spiegare che noi sembriamo essere legati dal karma e dai suoi effetti solo finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, che solo è ciò che compie karma e sperimenta i suoi frutti o conseguenze morali, così se investighiamo noi stessi e quindi dissolviamo l’illusione di essere questo ego, il karma e i suoi effetti cesseranno di esistere, e dunque saremo liberi o liberati da essi:
வினைமுதனா மாயின் விளைபயன் றுய்ப்போம்
வினைமுதலா ரென்று வினவித் — தனையறியக்
கர்த்தத் துவம்போய்க் கருமமூன் றுங்கழலு
நித்தமா முத்தி நிலை.

viṉaimudaṉā māyiṉ viḷaipayaṉ ḏṟuyppōm
viṉaimudalā reṉḏṟu viṉavit — taṉaiyaṟiyak
karttat tuvampōyk karumamūṉ ḏṟuṅkaṙalu
nittamā mutti nilai
.

பதச்சேதம்: வினைமுதல் நாம் ஆயின், விளை பயன் துய்ப்போம். வினைமுதல் ஆர் என்று வினவி தனை அறிய, கர்த்தத்துவம் போய், கருமம் மூன்றும் கழலும். நித்தமாம் முத்தி நிலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉaimudal nām āyiṉ, viḷai payaṉ tuyppōm. viṉaimudal ār eṉḏṟu viṉavi taṉai aṟiya, karttattuvam pōy, karumam mūṉḏṟum kaṙalum. nittam-ām mutti nilai.

அன்வயம்: வினைமுதல் நாம் ஆயின், விளை பயன் துய்ப்போம். வினைமுதல் ஆர் என்று வினவி தனை அறிய, கர்த்தத்துவம் போய், கருமம் மூன்றும் கழலும். நித்தமாம் முத்தி நிலை.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): viṉaimudal nām āyiṉ, viḷai payaṉ tuyppōm. viṉaimudal ār eṉḏṟu viṉavi taṉai aṟiya, karttattuvam pōy, karumam mūṉḏṟum kaṙalum. nittam-ām mutti nilai.

Traduzione: Se siamo l’agente delle azioni, sperimenteremo il frutto risultante. [Tuttavia] quando conosciamo noi stessi investigando chi è l’agente dell’azione, il senso di essere l’agente se ne andrà e tutti i tre karma sfuggiranno. [Questo è] lo stato di liberazione, che è eterno.
வினைமுதல் (viṉai-mudal) significa letteralmente l’origine, la causa, la radice, il fondamento o la base dell’azione, ma in grammatica è un termine usato per intendere un soggetto di una proposizione o frase, e nel contesto di questo verso significa l’agente di ogni azione o karma. Noi sperimentiamo noi stessi come l’agente di ogni azione solo quando sperimentiamo noi stessi come un corpo o una mente, che soli sono gli strumenti con cui ogni azione è compiuta, e nello stesso modo sperimentiamo noi stessi come lo sperimentatore del frutto delle nostre azioni solo quando sperimentiamo noi stessi come questo ego o mente, che solo è ciò che sperimenta ogni cosa diversa da sé stesso. In altre parole, il soggetto o agente di ogni azione e lo sperimentatore dei suoi frutti è solo il nostro ego, perché il nostro ego è ciò che sperimenta sé stesso come un corpo e una mente.

Quindi la teoria del karma è condizionata, e la condizione da cui dipende è che noi sperimentiamo noi stessi come questo ego, che è l’’io’ limitato che sembra compiere azioni attraverso la mente, la voce e il corpo, e che di conseguenza sperimenta il frutto delle sue azioni. Cioè, come questo ego sperimentiamo noi stessi come un corpo e una mente, così quando questi strumenti compiono qualche azione o sperimentano le conseguenze di qualche azione, la nostra esperienza è ‘io sto compiendo queste azioni’ e ‘io sto sperimentando queste conseguenze’.

Finché sperimentiamo noi stessi come l’agente di ogni azione, sperimenteremo anche noi stessi come lo sperimentatore del frutto delle nostre azioni. Senza un tale di senso di essere l’agente e lo sperimentatore, non potremmo compiere alcuna āgāmya (azione compiuta per il nostro libero arbitrio o volizione) o sperimentare alcun prārabdha (destino o fato, che è il frutto di alcune delle āgāmya che abbiamo compiuto nel passato e che non abbiamo ancora sperimentato). Perciò tutti questi tre karma, (āgāmya, sañcita e prārabdha) sembrano esistere solo finché noi sembriamo essere questo ego – l’agente di āgāmya e lo sperimentatore di prārabdha. Quindi Bhagavan dice che se conosciamo noi stessi investigando chi sono io, questo ego che sembra compiere l’azione, il nostro senso di essere l’agente (e lo sperimentatore) cesserà, e insieme con esso anche tutti i tre karma cesseranno di esistere.

La liberazione che allora sperimenteremo sarà eterna, perché quando investighiamo noi stessi e quindi vediamo attraverso l’illusione di essere questo ego, riconosceremo che non siamo mai stati questo ego e che siamo sempre stati liberi. Quindi sebbene Bhagavan dica ‘கர்த்தத்துவம் போய், கருமம் மூன்றும் கழலும்’ (karttattuvam pōy, karumam mūṉḏṟum kaṙalum), ‘il senso di essere l’agente se ne andrà e tutti i tre karma sfuggiranno’, egli intende che quando essi svaniscono insieme con il nostro ego scopriremo che non sono mai realmente esistiti. Dunque in questo verso egli ci insegna che il karma è totalmente irreale – come lo è la sua radice, il nostro ego – e che esso sembra essere reale solo perché noi sembriamo essere questo ego.

11c. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 19: destino e libero arbitrio esistono solo per l’ego

Il solo altro verso in Uḷḷadu Nāṟpadu in cui Bhagavan si riferisce indirettamente alla teoria del karma è il verso 19:
விதிமதி மூல விவேக மிலார்க்கே
விதிமதி வெல்லும் விவாதம் — விதிமதிகட்
கோர்முதலாந் தன்னை யுணர்ந்தா ரவைதணந்தார்
சார்வரோ பின்னுமவை சாற்று.

vidhimati mūla vivēka milārkkē
vidhimati vellum vivādam — vidhimatigaṭ
kōrmudalān taṉṉai yuṇarndā ravaitaṇandār
sārvarō piṉṉumavai sāṯṟu
.

பதச்சேதம்: விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம். விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; சார்வரோ பின்னும் அவை? சாற்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam. vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; sārvarō piṉṉum avai? sāṯṟu.

அன்வயம்: விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம். விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; பின்னும் அவை சார்வரோ? சாற்று.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam. vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; piṉṉum avai sārvarō? sāṯṟu.

Traduzione: Solo per coloro che non hanno discernimento (vivēka) della radice del destino (vidhi) e del libero arbitrio (mati) c’è disputa riguardo a quale prevale, destino o libero arbitrio. Coloro che hanno conosciuto sé stessi, che è l’unica origine per destino e libero arbitrio, li hanno [perciò] scartati. Dimmi, da allora in poi, faranno parte di essi?
விதி (vidhi) significa fato o destino, così ha lo stesso significato di prārabdha, e in questo contesto மதி (mati) significa volontà o volizione, così è il libero arbitrio con cui compiamo āgāmya, il cui frutto sperimenteremo successivamente come prārabdha. I termini ‘விதி மதி மூலம்’ (vidhi mati mūlam), che significa ‘la radice [base, origine o sorgente] del destino e del libero arbitrio’, e ‘விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai), che significa ‘sé stessi, che è l’unica origine [causa, radice, fondamento o base] del destino e del libero arbitrio’, si riferiscono entrambi al nostro ego, che solo usa il suo libero arbitrio per compiere āgāmya e di conseguenza per sperimentare prārabdha.

In alcune traduzioni questi due termini sono interpretati in riferimento al nostro sé reale, ma questa è ovviamente un’interpretazione errata, perché il nostro sé reale non usa il suo libero arbitrio per fare qualsiasi cosa né esso sperimenta alcun destino. Naturalmente il nostro sé reale è la sorgente e la base del nostro ego, così come tale è la sorgente primaria e la base di ogni altra cosa, inclusi il destino e il libero arbitrio, ma l’intento di Bhagavan in questo verso e in molti degli altri versi di Uḷḷadu Nāṟpadu è quello di spiegare che l’esistenza apparente di ogni cosa diversa da noi stessi dipende dall’esistenza apparente del nostro ego, perché enfatizzando questo egli è stato in grado di spiegare che il mezzo semplice e diretto di liberare sé stessi da ogni altra cosa è di liberare sé stessi da questo ego investigando cos’è realmente.

Nelle traduzioni che fraintendono questi due termini come se si riferissero al nostro sé reale (come quella in Truth Revealed: Sad-Vidya, che ha influenzato l’interpretazione in versi di Chadwick e che è stata inclusa in molte altre edizioni di The Collected Works of Sri Ramana Maharshi, e anche quella in Ramana Maharshi and his Philosophy of Existence), altri versi sono fraintesi in modo simile. Per esempio, nel verso 9 Bhagavan dice che le diadi (coppie di opposti come conoscenza e ignoranza, esistenza e non-esistenza, nascita e morte, luce e oscurità, buono e cattivo, amori e odi, piacere e dolore e schiavitù e liberazione) e le triadi (i tre fattori di conoscenza oggettiva: conoscitore, conoscenza (o il conoscere) e conosciuto, veggente, vista e visione e visto, o percettore, percezione e percepito) esistono aggrappandosi a ஒன்று (oṉḏṟu), che significa ‘uno’ e che implica l’ego, perché le diadi e le triadi sembrano esistere solo nella visione del nostro ego, ma in queste traduzioni ஒன்று (oṉḏṟu) è stato interpretato in riferimento al nostro sé reale.

Nello stesso modo nel verso 10 quando Bhagavan dice, ‘அந்த அறிவும் அறியாமையும் ஆர்க்கு என்று அம் முதல் ஆம் தன்னை அறியும் அறிவே அறிவு’ (anda aṟivum aṟiyāmaiyum ārkku eṉḏṟu a-m-mudal ām taṉṉai aṟiyum aṟivē aṟivu), che significa ‘Solo la conoscenza che conosce sé stessa, che è la prima, [investigando] di chi sono questa conoscenza e ignoranza, è [vera] conoscenza’, ciò che egli intende con தன்னை (taṉṉai), che significa ‘sé stesso’, è l’ego, che è ciò che sorge per primo, perché la conoscenza e l’ignoranza (che in questo contesto implicano conoscenza e ignoranza riguardo qualsiasi cosa diversa da sé stessi) esiste solo nella visione del nostro ego e non nella visione del nostro sé reale, ma in queste traduzioni è stato interpretato in riferimento al nostro sé reale. Quando egli dice nel verso 11 ‘அறிவுறும் தன்னை’ (aṟivuṟum taṉṉai), che significa ‘sé stesso che conosce’ e ‘அறிவு அயற்கு ஆதார தன்னை அறிய, அறிவு அறியாமை அறும்’ (aṟivu ayaṟku ādhāra taṉṉai aṟiya, aṟivu aṟiyāmai aṟum), che significa ‘quando uno conosce sé stesso, la base per la conoscenza e l’altra [ignoranza], la conoscenza e l’ignoranza cesseranno’, ciò che intende in entrambi i casi con தன்னை (taṉṉai), che significa ‘sé stesso’, è l’ego, perché ciò che conosce qualsiasi cosa diversa da noi stessi è solo il nostro ego (che è il motivo per cui egli dice nel verso 12 ‘அறியும் அது உண்மை அறிவு ஆகாது’ (aṟiyum adu uṇmai aṟivu āhādu), che significa ‘Quella che conosce non è vera conoscenza’), così il nostro ego soltanto è la base (ādhāra) di conoscenza e ignoranza, ma in alcune di queste traduzioni è stato interpretato in riferimento al nostro sé reale.

I traduttori e i commentatori che hanno interpretato questi brani in riferimento al nostro sé reale piuttosto che al nostro ego, l’hanno fatto perché non sono riusciti a comprendere che uno dei fini principali di Bhagavan in Uḷḷadu Nāṟpadu era di spiegare che ogni cosa diversa da noi stessi sembra esistere solo perché noi sperimentiamo noi stessi come questo ego (o mente, di cui questo ego è la radice), come egli ha indicato non solo in questi versi ma anche in altri, come nel verso 2, in cui usa la parola முதல் (mudal) per intendere una cosa prima o principio fondamentale e dice che sostenere che solo un mudal (vale a dire il nostro sé reale) sta come tre mudal (vale a dire l’anima, il mondo e Dio) o che questi tre mudal sono sempre tre mudal è possibile solo finché esiste l’ego; nel verso 4, in cui egli spiega che solo se si è una forma (cioè, se si è l’ego, che solo sperimenta sé stesso come la forma di un corpo) il mondo e Dio sembreranno essere forme (cioè, cose diverse da sé stessi); nel verso 6, in cui egli chiede se c’è qualche mondo al di fuori della mente, poiché è quella mente che percepisce il mondo per mezzo dei cinque sensi, intendendo quindi che il mondo non esiste indipendentemente dalla mente o ego che lo percepisce; nel verso 7, in cui egli dice ‘உலகு அறிவும் ஒன்றாய் உதித்து ஒடுங்கும் ஏனும், உலகு அறிவு தன்னால் ஒளிரும்’ (ulahu aṟivum oṉḏṟāy udittu oḍuṅgum ēṉum, ulahu aṟivu-taṉṉāl oḷirum), che significa ‘Sebbene il mondo e la mente sorgono e sprofondano simultaneamente, il mondo risplende per mezzo della mente’, intendendo ancora una volta che il mondo sembra esistere solo perché è percepito dalla nostra mente o ego; nel verso 14 in cui dice che se la prima persona (il nostro ego) esiste, le seconde e terze persone (qualunque cosa sembra essere diversa da noi stessi) esisteranno, e che se la prima persona cessa di esistere a causa del nostra investigazione riguardo la sua verità, le seconde e terze persone giungeranno anche alla fine; nel verso 16, in cui dice che se siamo un corpo saremo intrappolati nel tempo e nello spazio, intendendo quindi che il tempo e lo spazio sembrano esistere solo a causa del nostro ego, che è la forma di auto-consapevolezza illusoria legata ad aggiunte ‘io sono questo corpo’; nel verso 23, in cui dice ‘நான் ஒன்று எழுந்த பின், எல்லாம் எழும்’ (nāṉ oṉḏṟu eṙunda piṉ, ellām eṙum), che significa ‘Dopo che un ‘io’ sorge, ogni cosa sorge’, intendendo quindi che il sorgere del nostro ego è la causa per l’apparenza di ogni altra cosa; e nel verso 26, in cui dice ‘அகந்தை உண்டாயின், அனைத்தும் உண்டாகும்; அகந்தை இன்றேல், இன்று அனைத்தும். அகந்தையே யாவும் ஆம்’ (ahandai uṇḍāyiṉ, aṉaittum uṇḍāhum; ahandai iṉḏṟēl, iṉḏṟu aṉaittum. ahandai-y-ē yāvum ām), che significa ‘Se l’ego ha origine, ogni cosa ha origine; se l’ego non esiste, ogni cosa non esiste. [Quindi] l’ego è ogni cosa’.

Ciò che egli esprime in tutti questi versi è uno dei principi più fondamentali ed essenziali dei suoi insegnamenti, vale a dire che ogni cosa diversa dalla nostra pura auto-consapevolezza sembra esistere solo perché sperimentiamo noi stessi come questo ego, che è una forma illusoria e irreale della nostra auto-consapevolezza mischiata ad aggiunte. Benché la sorgente e base primaria di ogni cosa è il nostro sé reale (ātma-svarūpa), che solo è ciò che esiste realmente, la sorgente e base immediata di ogni altra cosa è il nostro ego, perché solo quando sembriamo essere questo ego sembrano esistere altre cose.

Comprendere che il nostro sé reale è la sorgente e base primaria di ogni cosa può essere interessante dal punto di vista filosofico, ma ci è di scarso valore pratico, perché non ci permette di comprendere come possiamo liberare noi stessi dall’apparenza illusoria di altre cose. Per contrasto, comprendere che il nostro ego è la sorgente e base immediata di ogni altra cosa ci è di grande valore pratico, perché ci permette di comprendere che per liberare noi stessi dall’apparenza illusoria di altre cose dobbiamo liberare noi stessi dall’illusione di essere questo ego, cosa che possiamo fare solo investigando noi stessi per sperimentare ciò che siamo realmente.

Quindi se consideriamo il significato e l’implicazione di tutti questi versi di Uḷḷadu Nāṟpadu (vale a dire 2, 4, 6, 7, 14, 16, 23 e 26), ci dovrebbe essere chiaro che ciò che Bhagavan intendeva con ஒன்று (oṉḏṟu) o ‘uno’ nel verso 9, con தன்னை (taṉṉai) o ‘sé stesso’ nei versi 10 e 11, e con ‘விதி மதி மூலம்’ (vidhi mati mūlam), ‘la radice di destino e libero arbitrio’, e விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai), ‘sé stesso, che è l’unica origine [o base] per destino e libero arbitrio’ nel verso 19, non è il nostro sé reale ma solo il nostro ego.

Poiché ‘விதி மதி மூலம்’ (vidhi mati mūlam), ‘la radice di destino e libero arbitrio’, è il nostro ego, ‘விதி மதி மூல விவேகம்’ (vidhi mati mūla vivēkam), ‘discernimento della radice di destino e libero arbitrio’, significa discernimento o conoscenza discriminante del nostro ego, che implica discernere la sua non-esistenza, perché secondo Bhagavan questo ego non esiste realmente ma solamente sembra esistere, e sembra esistere solo perché non abbiamo ancora investigato completamente ciò che esso è. விவேகம் (vivēkam) significa discernimento o discriminazione nel senso di distinguere una cosa da un’altra, così vivēkam riguardo all’ego è la capacità di distinguere sé stessi dall’ego, e poiché l’ego sembra esistere solo quando lo sperimentiamo come noi stessi, quando distingueremo noi stessi dal nostro ego scopriremo che soltanto noi esistiamo, e che il nostro ego e ogni cosa sperimentata da esso, inclusi il suo destino e il suo libero arbitrio, sono quindi non-esistenti e non sono mai realmente esistiti.

Poiché libero arbitrio e destino sembrano esistere solo finché l’ego sembra esistere, e poiché l’ego non sembrerà esistere quando investighiamo noi stessi e quindi distinguiamo che solo noi esistiamo, nessuna disputa può sorgere allora per quale dei due prevale. Quindi una tale disputa può sorgere solo tra persone auto-ignoranti (ajñānis), che non hanno ancora distinto la non-esistenza dell’ego, come Bhagavan intende nella prima frase di questo verso: ‘விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம்’ (vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam), che significa ‘Solo per coloro che non hanno discernimento della radice di destino e libero arbitrio c’è disputa riguardo a chi prevale, destino o libero arbitrio’.

Quando investighiamo noi stessi e quindi distinguiamo che solo noi esistiamo, il nostro ego non sembrerà più esistere, e quindi ci saremo separati sia dal destino che dal libero arbitrio, così non saremo più intrappolati in essi o in qualche disputa su di essi, come Bhagavan intende nelle due frasi finali di questo verso: ‘விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; சார்வரோ பின்னும் அவை? சாற்று’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; sārvarō piṉṉum avai? sāṯṟu), che significano ‘Coloro che hanno conosciuto sé stessi, chi è l’unica origine [o base] per destino e libero arbitrio, li hanno [di conseguenza] scartati. Dimmi, da allora in poi, faranno parte di essi?’ In questo contesto தன்னை உணர்ந்தார்’ (taṉṉai uṇarndār), che significa ‘coloro che hanno conosciuto sé stessi’, implica coloro che hanno conosciuto la non-esistenza dell’ego, che solo è l’origine e la base sia di destino che di libero arbitrio.

11d. Upadēśa Undiyār : la liberazione è ottenuta non facendo qualcosa ma solo semplicemente essendo

Sebbene in Nāṉ Yār? Bhagavan non si riferisce direttamente alla teoria del karma e sebbene in Uḷḷadu Nāṟpadu ha indicato che il karma (azione) sembra esistere solo nella visione del nostro ego ed è quindi dipendente da esso, alcune persone possono sostenere che in Upadēśa Undiyār egli sembra attribuire più importanza ad essa, perché la discute nei primi tre versi. Tuttavia, la ragione per cui egli menziona il karma in quei versi è per il contesto in cui ha composto Upadēśa Undiyār, perché lo ha scritto in risposta alla richiesta di Muruganar di riassumere gli insegnamenti che il Signore Siva diede ai cosiddetti ‘rishi’ (ṛṣis) che stavano realizzando karma rituali nella foresta Daruka per la realizzazione dei loro desideri. Poiché questi ritualisti erano così orgogliosi del presunto potere dei loro karma da credere che non c’è Dio eccetto il karma, nel primo verso di Upadēśa Undiyār egli ha respinto questa loro idea, spiegando che il karma non può essere Dio perché esso è jaḍa (insenziente o non-cosciente):
கன்மம் பயன்றரல் கர்த்தன தாணையாற்
கன்மங் கடவுளோ வுந்தீபற
கன்மஞ் சடமதா லுந்தீபற.

kaṉmam payaṉḏṟaral karttaṉa dāṇaiyāl
kaṉmaṅ kaḍavuḷō vundīpaṟa
kaṉmañ jaḍamadā lundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால். கன்மம் கடவுளோ? கன்மம் சடம் அதால்.

Padacchēdam (separazione delle parole): kaṉmam payaṉ taral karttaṉadu āṇaiyāl. kaṉmam kaḍavuḷ-ō? kaṉmam jaḍam adāl.

அன்வயம்: கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால். கன்மம் சடம் அதால், கன்மம் கடவுளோ?

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): kaṉmam payaṉ taral karttaṉadu āṇaiyāl. kaṉmam jaḍam adāl, kaṉmam kaḍavuḷ-ō?

Traduzione: Il karma porta frutto per l’ordine di Dio. Poiché il karma è jaḍa, può il karma essere Dio?
Ciò che Bhagavan intendeva quando ha indicato che il karma è jaḍa (privo di coscienza o consapevolezza) non è solo che esso quindi non può essere Dio, ma anche che il karma può operare nel modo che la teoria del karma sostiene solo se è governato da qualcosa che è cosciente. Cioè, secondo la teoria del karma ogni āgāmya (azione motivata dal proprio libero arbitrio o volizione) produce un frutto o conseguenza morale appropriata, che si aggiunge alla propria sañcita (il deposito di tutti questi frutti che sono ancora da sperimentare), del quale in ogni vita sarà sperimentata una selezione adeguata come il prārabdha (destino o fato), così un tale sistema non potrebbe funzionare se non fosse governato da qualcosa che è cosciente, perché essendo non cosciente il karma non potrebbe decidere quale frutto dovrebbe dare o quando ognuno degli innumerevoli frutti di karma passati in attesa dovrebbero essere sperimentati.

Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nella prima frase di questo verso, ‘கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால்’ (kaṉmam payaṉ taral karttaṉadu āṇaiyāl), che significa ‘Il karma porta frutto per ordine di Dio’. Il termine che egli usa qui per indicare Dio è கர்த்தன் (karttaṉ), che è una forma Tamil della parola Sanscrita कर्ता (kartā), la forma maschile nominativa singolare di कर्तृ (kartṛ), che significa letteralmente un agente o chi agisce, e che in questo contesto si riferisce a Dio come l’ordinatore del frutto dell’azione. In questo senso ha lo stesso significato della parola அதற்கானவன் (adaṟkāṉavaṉ), che significa letteralmente ‘egli che è per quello’ e che è il termine che Bhagavan ha usato per riferirsi a Dio nella prima frase della nota che ha scritto a sua madre nel Dicembre 1898.

Tuttavia, sebbene si riferisca qui a Dio come கர்த்தன் (karttaṉ), ‘chi agisce’ o ‘l’ordinatore’, nel quindicesimo paragrafo di Nāṉ Yār? (che ho discusso nella sezione 11a) egli spiega che Dio non fa realmente niente, né ha bisogno di fare qualcosa, perché tutte le funzioni che sono generalmente attribuite a lui accadono per il potere della sua sola presenza. Dio non fa niente perché egli è il nostro sé reale (ātma-svarūpa), la cui natura è solo essere perfettamente silente e che è quindi completamente non-attivo e immobile (acala).

Tuttavia, Dio non è solo puro essere (sat) o ciò che è (uḷḷadu) ma è anche perfettamente auto-consapevole – cioè, consapevole di niente altro che sé stesso – perché come il nostro sé reale la sua natura è pura auto-consapevolezza, così egli è ciò che è conosciuto come cit-śakti, il potere della consapevolezza. Cit-śakti non è un potere che fa qualcosa, perché la reale consapevolezza (cit) non è consapevolezza di qualcosa diversa da sé stessa (che è noi stessi), ma è la sorgente e la base di tutte le altre forme di potere, perché nessun altro potere potrebbe sembrare esistere o operare se non fossimo consapevoli di esso, e non saremmo consapevoli di qualcosa se non fossimo consapevoli di noi stessi. Quindi proprio come l’auto-consapevolezza è la base di ogni altra forma di consapevolezza, il potere dell’auto-consapevolezza (cit-śakti) è la base di ogni altra forma di potere.

Quindi quando Bhagavan dice che ‘il karma porta frutto per l’ordine di Dio’ egli intende che ogni karma dà frutto appropriato e che esso è sperimentato in un tempo appropriato e in circostanze appropriate, a causa della sola presenza di cit-śakti, il potere della nostra auto-consapevolezza, che è Dio. E quando egli dice che il karma non può essere Dio perché è jaḍa (non-cosciente) intende che Dio è la cit-śakti, senza la quale il karma non potrebbe operare.

Quindi sebbene Bhagavan si riferisca al karma proprio nel primo verso di Upadēśa Undiyār, non intende dire che è reale ma solo mostrare che anche quando esso sembra essere reale è sottomesso a Dio, la cui natura è coscienza o pura auto-consapevolezza. Poi nel secondo verso spiega che il karma è auto-perpetuante, così non dà liberazione:
வினையின் விளைவு விளிவுற்று வித்தாய்
வினைக்கடல் வீழ்த்திடு முந்தீபற
வீடு தரலிலை யுந்தீபற.

viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivuṯṟu vittāy
viṉaikkaḍal vīṙttiḍu mundīpaṟa
vīḍu taralilai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வினையின் விளைவு விளிவு உற்று வித்தாய் வினை கடல் வீழ்த்திடும். வீடு தரல் இலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivu uṯṟu vittāy viṉai-kaḍal vīṙttiḍum. vīḍu taral ilai.

Traduzione: Il frutto dell’azione, essendosi deteriorato, come seme causerà di cadere nell’oceano dell’azione. Non è dare la liberazione.
Quando un frutto si è deteriorato, esso cessa di esistere, ma i suoi semi rimangono, e se lasciati nel terreno germoglieranno come nuove piante che portato lo stesso tipo di frutta. Ugualmente, quando il frutto di qualche azione è sperimentata, cessa di esistere, ma il suo seme rimane dentro di noi e quando le condizioni sono appropriate esso germoglierà come lo stesso tipo di azione. Quindi ciò a cui Bhagavan si riferisce qui come வித்து (vittu) o ‘seme’ è un karma-vāsanā, una propensione, tendenza o inclinazione a fare ripetutamente lo stesso tipo di azione.

Quindi i karma tendono ad essere auto-perpetuanti, così più si compie karma più si affonderà in un oceano di karma infiniti, e quindi fare qualsiasi karma non è un mezzo con cui ci si può liberare dal proprio ego e dalle sue karma-vāsanā. Nell’originale Tamil di questo verso Bhagavan conclude dicendo ‘வீடு தரல் இலை’ (vīḍu taral ilai), che significa letteralmente ‘non è dare liberazione’ e che implica che il karma non darà la liberazione, ma nella sua traduzione Sanscrita egli è andato anche oltre dicendo ‘गति निरोधकम्’ (gati nirōdhakam), che significa che esso ostacola la liberazione.

Dicendo che il karma non darà la liberazione o che lo ostacolerà significa che non possiamo ottenere la liberazione facendo qualcosa, così come possiamo ottenerla? Secondo Bhagavan non possiamo ottenerla facendo qualsiasi cosa ma solo per mezzo di essere semplicemente (summā iruppadu), perché la natura del nostro sé reale non è fare ma solo essere, così non possiamo sperimentare ciò che siamo realmente e quindi liberare noi stessi da questo ego tranne che solo essendo.

Allora come possiamo solo essere? Secondo Bhagavan ciò che siamo realmente non è solo essere (sat) ma anche consapevolezza (cit), perché siamo consapevoli che noi siamo, così ciò che è consapevole del nostro essere non è nient’altro che lo stesso nostro essere, come egli indica nel verso 23 di Upadēśa Undiyār. Quindi poiché l’auto-consapevolezza è proprio la natura del nostro essere, e poiché ciò che siamo realmente non è mai consapevole di qualcosa diversa da noi stessi, possiamo solo essere come siamo realmente soltanto essendo consapevoli di niente altro che noi stessi.

Questo è il motivo per cui egli dice nel verso 26 di Upadēśa Undiyār, ‘தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால்’ (tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām, tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl), che significa ‘Solo essere sé stessi è conoscere sé stessi, perché sé stessi non è due’, e che implica che possiamo essere come siamo realmente solo essendo consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi poiché ciò che siamo realmente soltanto è, e non fa niente, e poiché essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è un’azione (karma), perché esso comporta un movimento della nostra mente o attenzione lontano da noi stessi verso quell’altra cosa, possiamo sperimentare noi stessi come siamo realmente solo essendo consapevoli soltanto di noi stessi e quindi non facendo assolutamente nulla.

Sebbene egli dice nel verso 2 che il karma non darà la liberazione ma solo la ostacolerà, nel verso 3 egli spiega come il karma può aiutarci indirettamente ad ottenere la liberazione:
கருத்தனுக் காக்குநிட் காமிய கன்மங்
கருத்தைத் திருத்தியஃ துந்தீபற
கதிவழி காண்பிக்கு முந்தீபற.

karuttaṉuk kākkuniṭ kāmiya kaṉmaṅ
karuttait tiruttiyaḵ dundīpaṟa
gativaṙi kāṇbikku mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: கருத்தனுக்கு ஆக்கும் நிட்காமிய கன்மம் கருத்தை திருத்தி, அஃது கதி வழி காண்பிக்கும்.

Padacchēdam (separazione delle parole): karuttaṉukku ākkum niṭkāmiya kaṉmam karuttai tirutti, aḵdu gati vaṙi kāṇbikkum.

Traduzione: Niṣkāmya karma fatto [con amore] per Dio purifica la mente e [quindi] mostrerà il sentiero per la liberazione.
Il termine Sanscrito kāmya significa volitivo o fatto con desiderio (kāma), così ogni azione che è compiuta per la realizzazione di qualche desiderio è chiamata un kāmya karma, e quindi una niṣkāmya karma è ogni azione che non è motivata dal desiderio. Finché il nostro ego esiste, avrà desideri di un tipo o di un altro, così qualunque azione esso compie secondo il proprio libero arbitrio sarà inevitabilmente motivata in misura più o meno grande dai suoi desideri. Quindi nessuna azione compiuta dal nostro ego può essere perfettamente niṣkāmya (che è il motivo per cui spesso Bhagavan ha detto che solo un ātma-jñāni può essere un perfetto karma-yōgi, come registrato per esempio quasi alla fine del terzo capitolo di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagina 22)). Tuttavia, le nostre azioni possono essere niṣkāmya nella misura in cui esse sono motivate dall’amore per Dio e sono quindi compiute per lui piuttosto che per qualsiasi cosa che speriamo di ottenere a causa di ciò.

Compiere azioni per amore di Dio con questo spirito niṣkāmya purificherà la nostra mente nel senso che indebolirà i nostri desideri e gli attaccamenti a qualsiasi cosa diversa da Dio, e nella misura in cui la nostra mente sarà purificata avremo la chiarezza per riconoscere che il solo modo per ottenere la liberazione è arrendere completamente noi stessi a lui, e che poiché non possiamo arrendere completamente noi stessi a lui finché ci consideriamo qualcosa di separato o diverso da lui, per arrenderci completamente a lui dobbiamo rivolgere la nostra attenzione all’interno e quindi sperimentare lui come il nostro sé. In altre parole, quando la nostra mente sarà sufficientemente purificata saremo in grado di comprendere che கதி வழி (gati vaṙi), il ‘sentiero [via o mezzo] per la liberazione’, è in definitiva solo la pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra), che è ciò che Bhagavan descrive nel verso 8 come ananya bhāva (meditazione su Dio come ananya o non diverso da sé stessi) e che egli dice che è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), la ‘migliore fra tutte’, intendendo quindi che è il più efficace fra tutti i mezzi per purificare la propria mente.

Tuttavia, quando Bhagavan dice che compiere niṣkāmya karma con amore per Dio purificherà la mente, dovremmo comprendere che ciò che purifica la mente non è il karma in sé stesso ma solo l’amore e la relativa assenza di desiderio con cui lo facciamo. In sé stessa qualunque azione (karma) che possiamo fare solo ci affonderà ulteriormente nell’oceano del karma e ostacolerà quindi ogni sforzo che possiamo fare per ottenere la liberazione, come egli dice nel verso 2, così è solo la bhakti (amore per Dio) e il vairāgya (libertà dal desiderio per qualsiasi altra cosa) che purificherà la nostra mente e quindi ci permetterà di riconoscere che ātma-vicāra è in definitiva il solo கதி வழி (gati vaṙi) o mezzo per la liberazione.

Quindi sebbene Bhagavan si riferisce al karma nei primi tre versi di Upadēśa Undiyār, la ragione per cui lo ha fatto non era di intendere che il karma è reale o che è un mezzo per la liberazione, ma era solo per porre le fondamenta per i versi successivi, in cui ci mostra come possiamo andare oltre il karma per raggiungere lo stato di puro essere, che solo è liberazione. Di fatto se consideriamo Upadēśa Undiyār nell’insieme, saremo in grado di vedere che esso è una sconfessione del karma (azione o fare) ed un’affermazione che essere è sia il mezzo che il fine – il solo mezzo con cui possiamo ottenere la liberazione e il fine stesso della liberazione.

Dopo aver detto nel verso 3 che niṣkāmya karma fatto con amore per Dio purificherà la mente e quindi mostrerà la via per la liberazione, dai verso 4 al verso 7 spiega l’efficacia relativa dei vari tipi di niṣkāmya karma che possiamo fare con amore per Dio, dicendo essenzialmente che ogni azione fatta dalla mente, come la meditazione (dhyāna), purificherà la propria mente più efficacemente di ogni azione fatta con la voce, come la ripetizione (japa), che purificherà la propria mente più efficacemente di ogni azione fatta con il corpo, come l’adorazione (pūja). Poi nel verso 8 egli dice che piuttosto che anya bhāva (meditazione su Dio come diverso da sé stessi), ananya bhāva (meditazione su di lui come non diverso da sé stessi) è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), la ‘migliore fra tutte’, intendendo che è il mezzo più efficace per purificare la propria mente.

Mentre anya bhāva è un’azione (karma), perché comporta un movimento della propria mente lontano da sé stessi verso la propria concezione di Dio come qualcosa diversa da sé stessi, ananya bhāva non è un’azione, perché non comporta movimento della propria mente lontano da sé stessi, così è uno stato di solo essere (summā iruppadu).
Questo è confermato da Bhagavan nel verso 9, in cui dice:
பாவ பலத்தினாற் பாவனா தீதசற்
பாவத் திருத்தலே யுந்தீபற
பரபத்தி தத்துவ முந்தீபற.

bhāva balattiṉāṯ bhāvaṉā tītasaṯ
bhāvat tiruttalē yundīpaṟa
parabhatti tattuva mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: பாவ பலத்தினால் பாவனாதீத சத் பாவத்து இருத்தலே பரபத்தி தத்துவம்.

Padacchēdam (separazione delle parole): bhāva balattiṉāl bhāvaṉātīta sat-bhāvattu iruttal-ē para-bhatti tattuvam.

Traduzione: Per la forza della meditazione, essere in sat-bhāva, che trascende bhāvana, è certamente para-bhakti tattva.

Traduzione elaborata: Per la forza [intensità, fermezza o stabilità] di [tale] meditazione [ananya-bhāva o auto-attentività], essere in sat-bhāva [il proprio ‘stato di essere’ o ‘essere reale’], che trascende [tutto] il bhāvana [pensiero, immaginazione o meditazione], è certamente [o è solo] para-bhakti tattva [l’essenza reale o vero stato di devozione suprema].
பாவ பலத்தினால் (bhāva balattiṉāl) significa ‘per la forza [intensità, fermezza o stabilità] della meditazione’, così in questo contesto significa per l’intensità di ananya bhāva o auto-attentività. Per mezzo di questa intensità non si dà il minimo spazio al sorgere di ogni pensiero diverso da ātma-cintana (pensiero di sé stessi o auto-attentività), così a causa di ciò si rimane nel proprio reale stato di essere (sat-bhāva), che trascende tutti i tipi di attività mentale. Cioè, poiché sorgiamo come (o sembriamo essere) un ego solo essendo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, se usiamo il nostro potere di attenzione per essere consapevoli soltanto di noi stessi, cesseremo di sorgere come (o apparentemente essere) questo ego, e quindi rimarremo come siamo realmente, che è ciò che Bhagavan descrive qui come ‘சத் பாவத்து இருத்தலே’ (sat-bhāvattu iruttalē), che significa ‘essere in sat-bhāva [il proprio ‘stato di essere’ o ‘essere reale’]’.

Poiché ‘ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பதே’ (āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉāy iruppadē) o ‘solo essere completamente assorbiti in auto-dimora, non dando anche il minimo spazio al sorgere di ogni pensiero diverso da ātma-cintana [pensiero di sé stessi o auto-attentività]’ è arrendere completamente sé stessi a Dio, come Bhagavan dice nella prima frase del tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?, e poiché ātma-cintana ha lo stesso significato di ananya bhāva, vale a dire attendere a niente altro che a sé stessi, in questo verso egli dice che solo essere in sat-bhāva (lo stato reale di essere) per l’intensità di ananya bhāva è ‘பரபத்தி தத்துவம்’ (parabhatti tattuvam), che è un’ortografia Tamil parabhakti tattva, che significa la verità o l’essenza reale della suprema devozione.

Poiché il completo auto-abbandono, che solo è devozione suprema, è il solo mezzo con cui possiamo essere liberati dal nostro ego e da ogni altra cosa, che sembra esistere solo come risultato del sorgere di questo ego, e poiché la suprema devozione o completo auto-abbandono è solo essere come siamo realmente essendo così intensamente auto-attentivi da non dare anche il minimo spazio al sorgere della consapevolezza di qualsiasi cosa diversa da noi stessi, Bhagavan ha detto frequentemente che non possiamo ottenere la liberazione facendo qualcosa (cioè, per mezzo di ogni azione o karma) ma solo essendo semplicemente come siamo realmente (cioè, essendo pura auto-consapevolezza, che è priva di pensiero e quindi bhāvanātīta, trascendente tutta la meditazione o pensiero).

Di conseguenza ciò che egli ci insegna in questo verso è strettamente collegato a ciò che ci insegna nel primo verso maṅgalam di Uḷḷadu Nāṟpadu, in modo particolare le ultime due righe:
உள்ளபொரு ளுள்ளலெவ னுள்ளத்தே யுள்ளபடி
யுள்ளதே யுள்ள லுணர்.

uḷḷaporu ḷuḷḷaleva ṉuḷḷattē yuḷḷapaḍi
yuḷḷadē yuḷḷa luṇar
.

பதச்சேதம்: உள்ள பொருள் உள்ளல் எவன்? உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே உள்ளல். உணர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ? uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē uḷḷal. uṇar.

Traduzione: Come [o chi può] pensare alla sostanza esistente? Solo essere nel cuore come esso è, è meditare [su di esso]. Sperimenta [questo].
உள்ளபொருள் (uḷḷa-poruḷ) significa ‘sostanza esistente’ o ‘sostanza che è’, così essa indica l’unica cosa che sola esiste realmente, che è ciò a cui egli si riferisce nella prima riga di questo verso come உள்ளது (uḷḷadu), che significa ‘ciò che è’. Il fatto che questo உள்ளபொருள் (uḷḷa-poruḷ) o உள்ளது (uḷḷadu) è il nostro sé reale (ātma-svarūpa) è indicato dalla proposizione finale della seconda riga, ‘உள்ளம் எனும்’ (uḷḷam eṉum), che è una proposizione relativa che significa ‘ciò che è chiamato cuore’. In questo contesto உள்ளம் (uḷḷam) significa ‘cuore’ nel senso del nostro sé reale, perché il nostro sé reale è il cuore o centro di ciò che ora sembriamo essere.

உள்ளம் (uḷḷam) è anche una forma letteraria raramente usata di உள்ளோம் (uḷḷōm), che è la prima persona plurale del verso senza tempo உள் (uḷ), che significa essere, così உள்ளம் (uḷḷam) significa anche ‘[noi] siamo’. Tuttavia poiché Bhagavan spesso ha usato il pronome inclusivo di prima persona plurale நாம் (nām), che significa ‘noi’ includendo chiunque a cui ci si rivolge (come opposto a நாங்கள் (nāṅgaḷ), che significa ‘noi’ escludendo chiunque a cui ci si rivolge, come un pronome generico singolare (equivalente al pronome generico ‘uno’ in Inglese) e come una forma inclusiva del pronome di prima persona singolare நான் (nāṉ), che significa ‘io’, உள்ளம் (uḷḷam) può essere considerato come una forma inclusiva del verbo di prima persona singolare உள்ளேன் (uḷḷēṉ), che significa ‘sono’. Quindi ogni volta che interpretiamo ‘உள்ளம் எனும்’ (uḷḷam eṉum) nel significato ‘che è chiamato cuore’ o ‘che è chiamato ‘noi siamo’ [o ‘io sono’]’, esso indica chiaramente che ciò che Bhagavan intendeva con il termine ‘உள்ளபொருள்’ (uḷḷa-poruḷ) o ‘sostanza esistente’ è il nostro sé reale, ‘io sono’, che solo è உள்ளது (uḷḷadu) o ‘ciò che è’.

Quando Bhagavan all’inizio ha composto questo verso ha scritto solo queste due ultime righe, ma qualche giorno dopo ha aggiunto le due prime righe, così ciò che ha scritto nelle prime due righe è inteso chiarificare il significato di queste ultime due righe, in cui egli inizia chiedendo ‘உள்ள பொருள் உள்ளல் எவன்?’ (uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ?), che significa ‘Come [o chi può] pensare alla sostanza esistente?’. உள்ளல் (uḷḷal) significa ‘pensare’ (o ‘meditare’) e எவன் (evaṉ) è un pronome interrogativo che può significare ‘come’ o ‘che persona’, così ciò che Bhagavan intende con questa domanda è che nessuno può concepire o afferrare mentalmente உள்ளபொருள் (uḷḷa-poruḷ), la sostanza o cosa che esiste realmente.

Il motivo per cui nessuno la può afferrare mentalmente è da lui spiegato in una proposizione che ha aggiunto nelle prime due righe, ‘உள்ளபொருள் உள்ளல் அற உள்ளத்தே உள்ளதால்’ (uḷḷa-poruḷ uḷḷal-aṟa uḷḷattē uḷḷadāl), che significa ‘poiché la sostanza esistente esiste nel cuore senza pensiero [o senza pensare]’, e che quindi implica che la sostanza esistente esiste oltre la portata del pensiero o del pensare. Da questo possiamo dedurre che உள்ளபொருள் (uḷḷa-poruḷ) o la sostanza esistente è ciò che Bhagavan ha descritto nel verso 9 di Upadēśa Undiyār come ‘பாவனாதீத சத் பாவம்’ (bhāvaṉātīta sat-bhāva), lo ‘stato di essere, che trascende bhāvana [pensiero, immaginazione o meditazione]’. Poiché è oltre il pensiero, chi può pensare ad esso, o come poter pensare ad esso?

Quindi Bhagavan intende che nessuno può meditare su ciò che esiste realmente cercando di pensare ad esso, perché esso non può essere afferrato dal pensiero. Di conseguenza, poiché esso è il nostro sé, il solo mezzo con cui possiamo meditare su di esso è solo essere come esso è, che significa essere come siamo realmente. Questo è il motivo per cui egli risponde alla sua domanda ‘உள்ள பொருள் உள்ளல் எவன்?’ (uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ?), ‘Come [o chi può] pensare alla sostanza esistente?’, dicendo ‘உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே உள்ளல்’ (uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē uḷḷal), che significa ‘Solo essere nel cuore come esso è [o come uno è] è meditare [su di esso]’.

Cosa intende in questa frase con la prima parola, உள்ளத்தே (uḷḷattē), che è una forma locativa di உள்ளம் (uḷḷam) e quindi significa ‘nel cuore’? Poiché உள்ளம் (uḷḷam), il cuore, è il nostro vero sé, ‘உள்ளத்தே உள்ளது’ (uḷḷattē uḷḷadu) o ‘essere nel cuore’ implica il non sorgere come un ego o mente permettendo alla nostra attenzione di allontanarsi da noi stessi verso qualsiasi altra cosa. Appena permettiamo alla nostra attenzione di allontanarsi da noi stessi anche in minima misura, sorgiamo come questo ego, uscendo fuori (parlando metaforicamente) da noi stessi, e poiché questo ego è il primo pensiero e la radice di tutti gli altri pensieri, appena sorge si espande come numerosi altri pensieri. Poiché sorgiamo come questo ego ogni volta che la nostra attenzione si allontana verso qualsiasi altra cosa, il solo modo per evitare di sorgere come questo ego e quindi di rimanere nel nostro sé reale, il cuore, è di essere vigilantemente auto-attentivi.

E cosa egli intende con l’avverbio உள்ளபடி (uḷḷapaḍi), che significa ‘come esso è’ o ‘come uno è’? Poiché la sostanza esistente, che è il nostro sé reale, esiste nel cuore senza pensiero, essere nel cuore come esso è significa essere senza pensiero o pensare. Significa anche essere consapevoli della nostra esistenza in modo chiaro e attentivo, perché la sostanza esistente stessa è ciò che è consapevole della propria esistenza, come Bhagavan intende nella prima frase di questo verso, ‘உள்ளது அலது உள்ள உணர்வு உள்ளதோ?’ (uḷḷadu aladu uḷḷa-v-uṇarvu uḷḷadō?), che significa ‘Tranne che come uḷḷadu [ciò che è], esiste la consapevolezza esistente [o la consapevolezza di ciò che è]?’ Quindi ciò che egli intende con ‘உள்ளபடி உள்ளது’ (uḷḷapaḍi uḷḷadu), ‘essere come esso è’ o ‘essere come uno è’, è che dovremmo semplicemente essere come la pura auto-consapevolezza senza pensieri che siamo realmente.

Quindi ciò che intende sia con உள்ளத்தே (uḷḷattē), ‘nel cuore’, sia con உள்ளபடி (uḷḷapaḍi), ‘come esso è’ o ‘come uno è’, è essenzialmente lo stesso, vale a dire che dovremmo essere senza pensiero essendo attentivamente consapevoli soltanto di noi stessi. Quindi il significato di questo verso è che il solo modo di meditare su ciò che è reale è di essere come esso è – cioè, essere consapevoli soltanto di sé stessi senza essere distratti da qualsiasi pensiero. Così finché siamo consapevoli di qualche pensiero o qualsiasi cosa diversa da noi stessi, non siamo nel cuore o non siamo come siamo realmente, così il solo modo per essere nel cuore come siamo realmente è di essere consapevoli soltanto di noi stessi, e il solo modo per essere consapevoli soltanto di noi stessi in modo tale che nessun pensiero possa sorgere è di essere vigilantemente auto-attentivi.

Poiché உள்ளம் (uḷḷam), il cuore, è ciò che siamo realmente, ‘உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளது’ (uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadu) o ‘essere nel cuore come esso è’ implica essere nel nostro sé reale come il nostro sé reale. Quindi la forma locativa உள்ளத்தே (uḷḷattē), ‘nel cuore’, è usata qui in senso metaforico – non nel senso letterale di una cosa che è in un’altra cosa – così ‘essere nel cuore’ implica essere come il cuore, che è ciò che è anche inteso con ‘essere come esso è’. Poiché ciò che Bhagavan intendeva con உள்ளபடி (uḷḷapaḍi) o ‘come esso è’ è essenzialmente lo stesso di ciò che intendeva con உள்ளத்தே (uḷḷattē) o ‘nel cuore’, possiamo dedurre che egli ha usato entrambi questi termini per enfatizzare che dovremmo semplicemente essere ciò che siamo realmente senza sorgere e uscire all’esterno come questo ego o mente.

Dopo che egli ha aggiunto le prime due righe a questo verso, la sua forma completa ora è:
உள்ளதல துள்ளவுணர் வுள்ளதோ வுள்ளபொரு
ளுள்ளலற வுள்ளத்தே யுள்ளதா — லுள்ளமெனு
முள்ளபொரு ளுள்ளலெவ னுள்ளத்தே யுள்ளபடி
யுள்ளதே யுள்ள லுணர்.

uḷḷadala duḷḷavuṇar vuḷḷadō vuḷḷaporu
ḷuḷḷalaṟa vuḷḷattē yuḷḷadā — luḷḷameṉu
muḷḷaporu ḷuḷḷaleva ṉuḷḷattē yuḷḷapaḍi
yuḷḷadē yuḷḷa luṇar
.

பதச்சேதம்: உள்ளது அலது உள்ள உணர்வு உள்ளதோ? உள்ள பொருள் உள்ளல் அற உள்ளத்தே உள்ளதால், உள்ளம் எனும் உள்ள பொருள் உள்ளல் எவன்? உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே உள்ளல். உணர்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uḷḷadu aladu uḷḷa-v-uṇarvu uḷḷadō? uḷḷa-poruḷ uḷḷal-aṟa uḷḷattē uḷḷadāl, uḷḷam eṉum uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ? uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē uḷḷal. uṇar.

அன்வயம்: உள்ளது அலது உள்ள உணர்வு உள்ளதோ? உள்ள பொருள் உள்ளல் அற உள்ளத்தே உள்ளதால், உள்ளம் எனும் உள்ள பொருள் எவன் உள்ளல்? உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே உள்ளல்; உணர்.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): uḷḷadu aladu uḷḷa-v-uṇarvu uḷḷadō? uḷḷa-poruḷ uḷḷal-aṟa uḷḷattē uḷḷadāl, uḷḷam eṉum uḷḷa-poruḷ evaṉ uḷḷal? uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē uḷḷal; uṇar.

Traduzione: Tranne che come uḷḷadu [ciò che è], esiste la consapevolezza esistente [o la consapevolezza di ciò che è]? Poiché la sostanza esistente [che è uḷḷadu] è nel cuore senza pensiero, come [o chi può] pensare alla sostanza esistente, che è chiamata ‘cuore’? Solo essere nel cuore come esso è, è meditare [su di esso]. Sperimenta [questo].
Dicendo questo proprio nel primo verso maṅgalam o di benedizione di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan ha indicato che il tema centrale dell’intero testo è ‘உள்ளத்தே உள்ளபடி உள்ளதே’ (uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē), ‘solo essere nel cuore come esso è’. Quindi poiché essere nel cuore come esso è comporta di non sorgere come questo ego, in Uḷḷadu Nāṟpadu egli spiega in modo chiaro e dettagliato la natura dell’ego, come sorge, gli effetti del suo sorgere e il mezzo per prevenire il suo sorgere, e riassume tutto questo più chiaramente nei versi 25 e 26. Nel verso 25 spiega che l’ego sorge ‘afferrando una forma’ o dando attenzione a cose diverse da sé stesso, e che esso quindi sprofonderà e scomparirà solo quando cercherà di afferrare, investigare o attendere solo a sé stesso, e nel verso 26 spiega che quando l’ego sorge ogni cosa sorge, e quando esso non sorge niente altro sorge, così l’ego è ogni cosa, e dunque investigare ciò che esso è, è rinunciare a ogni cosa.

Proprio come il fine principale di Uḷḷadu Nāṟpadu è quello di insegnarci come ‘essere nel cuore come esso è’, il fine principale di Upadēśa Undiyār è ugualmente quello di insegnarci ad essere in questo modo. Questo è il motivo per cui Bhagavan inizia Upadēśa Undiyār dicendo nel verso 2 che l’azione (karma) non darà la liberazione, e poi spiega nel verso 3 come dobbiamo progredire dallo stato di karma, che comporta dare attenzione a cose che sono anya o diverse da sé stessi, allo stato di essere (sat- bhāva), che è oltre il pensiero (bhāvaṉātīta), e nel quale possiamo quindi essere solo per la forza o l’intensità di ananya bhāva, che significa ‘ meditazione su ciò che non è altro’ e che quindi comporta l’essere esclusivamente auto-attentivi, non dando spazio al sorgere di qualsiasi pensiero di qualsiasi cosa diversa da noi stessi.

Dopo aver detto nel verso 9 che essere in bhāvaṉātīta sat-bhāva (lo stato di essere, che è oltre il pensiero) per l’intensità di ananya bhāva (essere attentivi a niente altro che sé stessi) è la reale essenza della devozione suprema, nel verso 10 Bhagavan riassume il significato dei nove versi precedenti e anche dei quattro versi successivi (nei quali spiega che il prāṇāyāma (che è una delle pratiche principali del rāja yōga, e con il quale quindi intende ogni pratica del rāja yōga) può aiutare ad ottenere lo scopo finale di manōnāśa (annientamento della mente) solo se si usa la relativa calma mentale raggiunta per spingere la propria mente sul sentiero dell’auto-investigazione):
உதித்த விடத்தி லொடுங்கி யிருத்த
லதுகன்மம் பத்தியு முந்தீபற
வதுயோக ஞானமு முந்தீபற.

uditta viḍatti loḍuṅgi irutta
ladukaṉmam bhattiyu mundīpaṟa
vaduyōga jñāṉamu mundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: உதித்த இடத்தில் ஒடுங்கி இருத்தல்: அது கன்மம் பத்தியும்; அது யோகம் ஞானமும்.

Padacchēdam (separazione delle parole): uditta iḍattil oḍuṅgi iruttal: adu kaṉmam bhatti-y-um; adu yōgam jñāṉam-um.

Traduzione: Sprofondare ed essere nel luogo da cui si è sorti: quello è karma e bhakti; quello è yōga e jñāna.
உதித்த இடம் (uditta iḍam) significa ‘il luogo da cui si è sorti’, così implica il nostro sé reale, che è la sorgente da cui siamo sorti come questo ego. Così esso è ciò a cui Bhagavan si è riferito nel verso precedente come சத் பாவம் (sat-bhāvam), lo ‘stato di essere’, e nel primo verso maṅgalam di Uḷḷadu Nāṟpadu come உள்ளது (uḷḷadu), ‘ciò che è’, உள்ளபொருள் (uḷḷa-poruḷ), la ‘sostanza esistente’ o ‘cosa che è’, e உள்ளம் (uḷḷam), il ‘cuore’.

Per essere in questo luogo da cui sorgiamo dobbiamo sprofondare, come Bhagavan indica con il participio verbale ஒடுங்கி (oḍuṅgi), che significa sprofondare, calmarsi, tranquillizzarsi, ritrarsi, dissolversi, chiudersi o cessare, e che implica cessare di sorgere come questo ego. Poiché questo ego è l’agente di tutte le azioni (karma), quando esso sprofonda nel luogo da cui è sorto tutte le azioni cessano, e quindi ciò che rimane è solo il nostro naturale stato di essere, in cui semplicemente siamo e non facciamo niente, come Bhagavan indica con il sostantivo verbale இருத்தல் (iruttal), che significa ‘essere’.

Essere in questo modo nella sorgente da cui siamo sorti, essendo sprofondati e avendo cessato di essere questo ego, è il fine e il culmine di tutti i quattro yōga o varietà di pratica spirituale, vale a dire i sentieri di niṣkāmya karma (azione non motivata dal desiderio), bhakti (devozione), rāja yōga (pratiche come il prāṇāyāma fatto per dominare citta-vṛtti o attività mentale) e jñāna (la pratica di auto-investigazione, che è il mezzo diretto per ottenere l’auto-conoscenza).

Questo verso quindi riassume il fine e lo scopo di tutto Upadēśa Undiyār, indicando che esso è mostrarci come sprofondare ed essere nella sorgente dalla quale siamo sorti come questo ego. Come Bhagavan ha inteso nel verso 3, niṣkāmya karma può aiutarci indirettamente a sprofondare nella nostra sorgente solo se è motivato dalla bhakti (amore per Dio), e come ha inteso dal verso 4 al verso 8 le varie pratiche di niṣkāmya bhakti possono aiutarci indirettamente a sprofondare nella nostra sorgente solo purificando la nostra mente e quindi sviluppandosi da anya bhakti (devozione a Dio come qualcosa diversa da sé stessi) ad ananya bhakti (devozione a lui come niente altro che sé stessi), la cui pratica è ananya bhāva (essere attentivi a niente altro che sé stessi). Quindi dal verso 3 al verso 8 di Upadēśa Undiyār Bhagavan ci insegna che le varie pratiche di niṣkāmya karma e bhakti sono benefiche solo nella misura in cui ci conducono al sentiero di ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-attentività), e nel verso 9 ci insegna che per l’intensità della nostra ātma-vicāra sprofonderemo e saremo in bhāvaṉātīta sat-bhāva (lo stato di essere, che è oltre il pensiero), che è il nostro sé reale, la sorgente dalla quale siamo sorti come questo ego.

Dal verso 11 al verso 14 egli intende che le pratiche di rāja yōga come il prāṇāyāma possono aiutarci indirettamente a sprofondare permanentemente nella nostra sorgente se usiamo la calma mentale relativa raggiunta con tali pratiche per dirigere la nostra attenzione sul sentiero di ātma-vicāra, e nel verso 15 dice che quando la mente è stata annientata da ātma-vicāra non ci sarà ‘fare’ o azione (karma). Quindi nei primi quindici versi di Upadēśa Undiyār ci insegna che tutti i karma devono infine cessare insieme con la nostra mente o ego nello stato di essere senza azione, che è la nostra reale natura.

Egli poi dedica i quindici versi finali di Upadēśa Undiyār al sentiero di jñāna e la natura del fine ultimo che raggiungeremo di conseguenza. Nel verso 17, per esempio, dice che ātma-vicāra è ‘மார்க்கம் நேர் ஆர்க்கும்’ (mārggam nēr ārkkum), ‘il sentiero diretto per tutti’, perché esso rivela che non c’è affatto una cosa come la mente o l‘ego, e nel verso 26 dice ‘தானாய் இருத்தலே தன்னை அறிதல் ஆம், தான் இரண்டு அற்றதால்’ (tāṉ-āy iruttal-ē taṉṉai aṟidal ām, tāṉ iraṇḍu aṯṟadāl), che significa ‘Solo essere sé stessi è conoscere sé stessi, perché sé stessi non è due’, intendendo quindi che il solo modo per essere ciò che siamo realmente è attendere a noi stessi, perché come spiega nel verso 23, per conoscere uḷḷadu (ciò che è) non c’è consapevolezza tranne che esso, così è la consapevolezza stessa, e poiché noi solo siamo ciò che è, noi stessi siamo la consapevolezza che conosce noi stessi, e dunque essere noi stessi comporta essere consapevoli di noi stessi. Così egli afferma ripetutamente l’unità di essere e auto-consapevolezza, intendendo quindi che essere consapevoli soltanto di noi stessi è essere ciò che siamo realmente, che è coerente con il suo insegnamento che essendo consapevoli di qualsiasi cosa diversa da noi stessi sorgiamo come questo ego, che non è ciò che siamo realmente, e che il solo mezzo per impedire il sorgere del nostro ego è di focalizzare la nostra intera attenzione soltanto su noi stessi.

11e. Come possiamo credere che la teoria del karma sia benefica?

Così se consideriamo attentamente tutto ciò che Bhagavan ci ha insegnato in Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, dovrebbe esserci chiaro che il karma non è reale, e che sembriamo essere legati dalle leggi del karma solo perché sperimentiamo noi stessi come questo ego, che è l’agente del karma e lo sperimentatore del suo frutto. Quindi la teoria del karma non è uno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti, ma è un principio ausiliario, perché egli spesso si è riferito ad esso, in modo particolare spiegandoci perché non dovremmo preoccuparci di qualsiasi cosa che abbiamo da sperimentare nella nostra vita esteriore come una persona.

Così egli intendeva che come credere in Dio, credere nella teoria del karma può essere benefico, anche se non c’è modo in cui possiamo provare logicamente o praticamente che essa sia vera. Quindi oltre alla fede nei suoi insegnamenti, la sola ragione logica che abbiamo di credere nella teoria del karma è il beneficio che possiamo trarre dal credere in essa (che sia vera o no) se la comprendiamo correttamente. Qual è allora il beneficio che possiamo trarre dal credere in essa?

La registrazione più chiara e più affidabile che abbiamo della teoria del karma come espressa da Bhagavan è la nota che scrisse a sua madre nel Dicembre 1898:
அவரவர் பிராரப்தப் பிரகாரம் அதற்கானவன் ஆங்காங்கிருந் தாட்டுவிப்பன். என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது; நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது. இதுவே திண்ணம். ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று.

avar-avar prārabdha-p prakāram adaṟkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ. eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. iduvē tiṇṇam. āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu.

Secondo il loro-loro prārabdha, egli che è per quell’essere lì-lì causerà l’agire [cioè, secondo il destino (prārabdha) di ogni persona, egli che è per quello (vale a dire Dio o guru, che ordina il loro destino) essendo nel cuore di ciascuno di essi, li farà agire]. Ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo si possa fare [per farlo accadere]; ciò che deve accadere non si fermerà qualunque ostacolo [o resistenza] si possa fare [per impedire che accada]. Questo è certo davvero. Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono.
Ciò che egli ha scritto in questa nota spiega perché ha detto in un’altra occasione (come registrato nel primo capitolo di Maharshi’s Gospel (edizione 2002, pagine 4-5), e anche alla fine della sezione 268 di Talks with Sri Ramana Maharshi (edizione 2006, pagina 235):
Non fare sforzo per lavorare o per rinunciare; il tuo sforzo è la schiavitù. Ciò che è destinato ad accadere accadrà. Se sei destinato a non lavorare, il lavoro non può essere avuto anche se lo cerchi; se sei destinato a lavorare, non sarai in grado di evitarlo; sarai forzato ad impegnarti in esso. Così, lascia ciò al potere più alto.
Da ciò che egli ha scritto nella nota per sua madre (e anche in misura minore da ciò che è riportato nel suddetto brano di Maharshi’s Gospel) possiamo dedurre diverse idee importanti che egli ha voluto che noi comprendessimo riguardo la teoria del karma: prima di tutto, ci sarà fatto fare qualunque cosa di cui abbiamo bisogno per sperimentare il nostro destino o fato preordinato (prārabdha), da cui possiamo dedurre che non abbiamo bisogno di occuparci con domande riguardo a ciò che dovremmo fare per provvedere ai bisogni materiali del nostro corpo o di chiunque altro che sembra dipendere da noi, perché ci sarà fatta fare qualunque cosa siamo destinati a fare, e qualsiasi cosa possiamo cercare di fare in aggiunta a ciò che siamo destinati a fare non cambierà qualsiasi cosa che noi o chiunque altro è destinato a sperimentare.

Quest’ultima è la seconda importante deduzione che dovremmo trarre da ciò che Bhagavan ha scritto in questa nota. Cioè, non possiamo in nessun modo cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare, così non possiamo sperimentare qualcosa che non siamo destinati a sperimentare, né possiamo evitare di sperimentare qualunque cosa che siamo destinati a sperimentare.

Tuttavia, sebbene non possiamo cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare, siamo liberi di voler cambiarlo e di cercare di cambiarlo, come egli intende dicendo, ‘என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது’ (eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu), che significa ‘ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo uno compie’, e ‘நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது’ (naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu), che significa ‘ciò che deve accadere non si fermerà qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa’. Se non fossimo liberi di voler cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare o a cercare di cambiarlo, non saremmo responsabili per qualsiasi cosa facessimo, e nessuna delle nostre azioni sarebbe āgāmya (azioni fatte con il nostro libero arbitrio), nel qual caso la teoria del karma non si reggerebbe, perché secondo questa il solo karma che può dare frutto è āgāmya, poiché esso è il solo karma del quale siamo personalmente responsabili.

Compiendo qualche āgāmya non possiamo cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare, ma stiamo creando un frutto che siamo soggetti a sperimentare come parte del nostro prārabdha in qualche vita futura (cioè, in qualche sogno diverso dal sogno di questa vita che stiamo ora sperimentando), e stiamo anche nutrendo e rafforzando le nostre karma-vāsanā (propensioni, tendenze o inclinazioni a fare lo stesso tipo di azioni nel futuro), che sono i semi che ci spingono a compiere ulteriore āgāmya, così compiendo qualsiasi āgāmya stiamo causando il nostro affondamento più in profondità nel grande oceano del karma, come Bhagavan dice nel verso 2 di Upadēśa Undiyār. Quindi fare qualsiasi āgāmya è un uso errato e senza senso del nostro libero arbitrio.

Come possiamo quindi usare il nostro libero arbitrio in un modo che sia benefico? Usare il nostro libero arbitrio per fare qualsiasi azione con la mente, voce o corpo è āgāmya, così non dovremmo usarlo per fare qualcosa, ma solo per essere. Questo è ciò che Bhagavan intendeva nella frase finale di questa nota a sua madre: ‘ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று’ (āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu), che significa ‘Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono’.

In questa frase conclusiva della sua nota Bhagavan spiega tutto ciò che in definitiva abbiamo bisogno di dedurre dalla teoria del karma. Lo scopo della teoria del karma non è di farci perdere tempo e sforzo cercando di determinare quali delle nostre azioni sono guidate dal nostro destino e quali sono guidate dal nostro libero arbitrio, o in quale misura ciascuna delle nostre azioni è guidata da uno o dall’altro, perché finché sperimentiamo noi stessi come questo ego non possiamo determinare queste cose, e anche se potessimo non ci sarebbe beneficio nel farlo. Il solo beneficio che possiamo ottenere dalla teoria del karma è comprendere che dovremmo focalizzare tutto il nostro interesse, l’amore, lo sforzo e l’attenzione nel cercare di solo essere silenziosamente.

Per essere silenziosamente, dobbiamo evitare di usare il nostro libero arbitrio per fare qualsiasi cosa diversa dall’abbandonare tutte le nostre ansietà e preoccupazioni riguardo la nostra vita esteriore come una persona e riguardo qualunque karma noi come questa persona possiamo fare o sperimentare, e per abbandonare completamente tutte queste ansietà e preoccupazioni dobbiamo arrendere il nostro ego, che è la radice di tutte le ansietà, preoccupazioni e karma. E come Bhagavan spesso ha spiegato, il solo modo per arrendere il nostro ego e quindi solo essere silenziosamente è ‘ஆன்மசிந்தனையைத் தவிர வேறு சிந்தனை கிளம்புவதற்குச் சற்று மிடங்கொடாமல் ஆத்மநிஷ்டாபரனா யிருப்பது’ (āṉma-cintaṉaiyai-t tavira vēṟu cintaṉai kiḷambuvadaṟku-c caṯṟum iḍam-koḍāmal ātma-niṣṭhā-paraṉ-āy iruppadu), ‘essere completamente assorbiti in auto-dimora, non dando anche il minimo spazio al sorgere di qualsiasi pensiero diverso dal pensiero di sé stessi’, come egli ha affermato esplicitamente nel tredicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?. In altro parole, aggrapparci fermamente a ātma-cintana (pensiero di sé stessi) o ātma-vicāra (auto-attentività) è il solo mezzo con cui possiamo arrendere il nostro ego e quindi solo essere silenziosamente.

Se abbiamo compreso questo, abbiamo compreso tutto ciò che abbiamo bisogno di comprendere riguardo la teoria del karma. Quindi comprendere e credere alla teoria del karma è benefico solo nella misura in cui essa ci motiva ad abbandonare tutte le nostre ansietà e preoccupazioni aggrappandoci vigilantemente e tenacemente all’auto-attentività.

12. L’efficacia relativa di varie forme di pratica spirituale

Nel suo commento a cui mi sono riferito all’inizio di questo articolo Maya ha scritto: ‘Persisto nell’opinione che molti metodi possono condurci al punto in cui la distruzione di ‘io’ può accadere in un secondo in cui l’auto-indagine accade spontaneamente. Non si ottiene necessariamente un vantaggio seguendo, diciamo 10 anni di atma vichara in confronto a diciamo 10 anni di japam. Come ho detto ci sono tanti altri fattori coinvolti come le proprie vasana, la maturità ecc.’.

Nella prima metà di Upadēśa Undiyār Bhagavan ci insegna che le varie pratiche di niṣkāmya karma, bhakti e rāja yōga possono condurre infine al sentiero di ātma-vicāra (auto-investigazione o auto-indagine), che sola è il mezzo diretto per distruggere l’ego, così se questo è ciò che Maya intendeva con ciò che ha scritto nella prima di queste tre frasi, la sua opinione riguardo a questo non è in conflitto con gli insegnamenti di Bhagavan. Tuttavia ciò che ha scritto nella frase successiva sembra in conflitto con ciò che Bhagavan ci ha insegnato dal verso 4 al verso 8 di Upadēśa Undiyār, in cui spiega l’efficacia relativa di varie pratiche di niṣkāmya bhakti, iniziando col dire nel verso 4 che pūjā, japa e dhyāna sono azioni di corpo, voce e mente, e che in quest’ordine ognuno è superiore al precedente (intendendo nel contesto del verso precedente che japa è più efficace nel purificare la propria mente che pūjā, e che dhyāna è più efficace di japa), e concludendo col dire nel verso 8 che ananya bhāva (meditazione su nient’altro che sé stessi) è ‘அனைத்தினும் உத்தமம்’ (aṉaittiṉum uttamam), la ‘migliore fra tutte’.

Poiché ananya significa ‘non altro’, ananya bhāva significa meditazione su ciò che non è altro da sé stessi, così lakṣyārtha o significato inteso di questo termine è chiaramente l’auto-attentività, e quindi è una descrizione alternativa di ātma-vicāra. Di conseguenza ciò che Bhagavan intende nel verso 8 è che ātma-vicāra è il mezzo più efficace per purificare la propria mente.

Anche se ciò che Maya intendeva quando si è riferito a japa era mānasika japa (japa fatto mentalmente piuttosto che oralmente), che è una forma di meditazione (dhyāna), è ancora meno efficace di ātma-vicāra, perché comporta il dare attenzione a qualcosa altra da sé stessi, mentre ātma-vicāra comporta l’attendere a niente altro che sé stessi. Questo è il motivo per cui Bhagavan ha enfatizzato ripetutamente che ātma-vicāra è il solo mezzo diretto con cui possiamo sperimentare ciò che siamo realmente e quindi distruggere il nostro ego, perché essa ci conduce direttamente a questo fine, mentre tutte le altre pratiche sono al massimo solo mezzi indiretti, perché non ci conducono direttamente al nostro fine, così possono permetterci di sperimentare noi stessi come siamo realmente solo se ci conducono alla pratica di ātma-vicāra, che è il solo mezzo che in definitiva rivelerà la verità che questo ego non esiste affatto.

In Padamalai (la traduzione Inglese di TV Venkatasubramanian, Robert Butler e David Godman dei versi selezionati dal Pādamālai di Sri Muruganar) David cita alle pagine 200-1 un brano tratto da pagina 176 dell’edizione del 1984 di Conscious Immortality, in cui è riportato che Bhagavan ha detto:
Questo sentiero [attenzione all’’io’] è il sentiero diretto; tutti gli altri sono vie indirette. Il primo conduce al Sé, gli altri altrove. E anche se i secondi arrivano al Sé è solo perché essi in definitiva conducono al primo sentiero che infine li porta alla meta. Così, alla fine, gli aspiranti devono adottare il primo sentiero. Perché non farlo ora? Perché perdere tempo?
Questa può non essere una traduzione esatta di ciò che Bhagavan ha detto, perché è stata trascritta da Paul Brunton, che non conosceva il Tamil, così gli è stato tradotto da qualcun altro. Tuttavia ciò che egli ha riportato in questo brano è coerente con i principi fondamentali insegnati da Bhagavan in opere come Nāṉ Yār?, Uḷḷadu Nāṟpadu e Upadēśa Undiyār, e anche con molte idee simili che ho letto o ho sentito che egli ha detto, così non credo che abbiamo qualche ragione per dubitare che egli abbia detto qualcosa in questo senso.

Se in questo contesto egli ha detto ‘Perché perdere tempo?’ o qualcos’altro in questo senso, egli ovviamente non intendeva che seguire qualche altro sentiero sia una completa perdita di tempo, purché esso ci conduca al sentiero di ātma-vicāra, ma solo che è una perdita di tempo relativa, perché potremmo usare quel tempo più efficacemente praticando ātma-vicāra fin dall’inizio. In altre parole, ciò che egli avrebbe inteso implicando che seguire qualche altro sentiero è una perdita di tempo è simile al dire che viaggiare verso la propria destinazione su una strada sinuosa in un carro tirato da buoi è una perdita di tempo quando si potrebbe arrivare molto prima viaggiando su un treno veloce che porta lì per una strada diretta.

Se ciò che Maya intendeva con ’10 anni’ quando ha scritto ‘Non si ottiene necessariamente un vantaggio seguendo, diciamo 10 anni di atma vichara in confronto a diciamo 10 anni di japam’ era esattamente la stessa quantità di tempo, ciò che ha scritto è chiaramente in conflitto con ciò che Bhagavan ci ha insegnato, perché Bhagavan spesso era solito dire che anche un momento speso attendendo a sé stessi è più benefico di molte ore spese facendo qualche altra pratica. Quando facciamo qualche pratica diversa da ātma-vicāra, come japa, stiamo dando attenzione a qualcosa diversa da noi stessi, e quando diamo attenzione a qualcosa diversa da noi stessi stiamo quindi sostenendo l’illusione di essere questo ego, perché sembriamo essere questo ego ogni volta che siamo consapevoli di qualcosa diversa da noi stessi. Quindi ātma-vicāra è la sola pratica spirituale che può dissolvere l’illusione di essere questo ego, perché l’ego inizia a scomparire appena iniziamo a guardarlo, e se lo guardiamo con sufficiente accuratezza o attenzione esso scomparirà completamente, perché non esiste realmente.

Quindi quando pratichiamo ātma-vicāra non solo stiamo indebolendo le nostre viṣaya-vāsanā (i nostri desideri o inclinazioni a sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi) una ad una ma stiamo tagliando esattamente la radice di tutte, vale a dire il nostro ego, mentre quando facciamo qualche altra pratica come japa stiamo solamente tagliando le nostre viṣaya-vāsanā una ad una mentre teniamo intatta la loro radice (come tagliare le foglie e i rami di un arbusto mentre lasciamo intatta la sua radice). Quindi ogni momento che passiamo attendendo a noi stessi è più benefico che passare molte ore facendo japa o qualche altra pratica che comporti il dare attenzione a qualcosa diversa da noi stessi.

Maya ha scritto, ‘Come ho detto ci sono molti altri fattori coinvolti come le proprie vasana, la maturità, ecc.’, ma tutti gli altri fattori a cui si riferisce si riassumono in solo due, vale a dire bhakti e vairāgya, che sono effettivamente inseparabili, essendo come i due lati di un singolo foglio di carta. Bhakti in questo contesto significa amore per sperimentare soltanto noi stessi, mentre vairāgya è libertà dal desiderio di sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Quindi la forza delle proprie vāsanā (desideri di sperimentare altre cose) è inversamente proporzionale alla forza dei propri bhakti e vairāgya; e pakvatā, che significa maturità spirituale o compimento, è una misura della forza dei propri bhakti e vairāgya. Nello stesso modo citta-śuddhi, che significa purezza, pulizia o chiarezza di mente, è il grado in cui la propria mente è stata ripulita dai propri desideri esteriorizzanti o vāsanā, così la forza dei propri bhakti e vairāgya è direttamente proporzionale al proprio citta-śuddhi. Più forti diventano bhakti e vairāgya, più deboli diventano le nostre vāsanā, di conseguenza più pura diviene la nostra mente, e quindi più diventiamo pakva o maturi.

Quindi se abbiamo sufficienti bhakti e vairāgya, nessun altro fattore può impedirci di sperimentare ciò che siamo realmente qui ed ora, così se non abbiamo ancora sperimentato noi stessi come siamo realmente questo significa semplicemente che i nostri bhakti e vairāgya non sono ancora sufficienti. Secondo Bhagavan il mezzo più veloce e più efficace per aumentare bhakti e vairāgya è di attendere più possibile solo a noi stessi. Quindi non importa se ora abbiamo tanto o poco bhakti e vairāgya, il mezzo più diretto e veloce per aumentarli e quindi infine annientare il nostro ego è la semplice pratica di ātma-vicāra – auto-investigazione o auto-attentività.

Questa è l’essenza di tutto quello che Bhagavan ci ha insegnato, e ci ha spiegato in modo chiaro e logico perché e come ātma-vicāra è sia il solo mezzo diretto che il più veloce e il più efficace con cui possiamo non solo annientare il nostro ego ma anche coltivare la bhakti e il vairāgya richiesti per farlo. Se egli non ci avesse spiegato i suoi insegnamenti in modo così logico e coerente basato su un’analisi semplice, chiara e incisiva della nostra esperienza sia di noi stessi che di altre cose nei tre stati alternanti di veglia, sogno e sonno, avremmo motivo per dubitare di essi, ma poiché li ha spiegati in un modo così logicamente solido e convincente, abbiamo buone ragioni più che a sufficienza per credere in essi, anche se non abbiamo ancora sperimentato il fine ultimo verso il quale essi stanno indicando e al quale essi ci conducono infallibilmente se perseveriamo nel seguirli al meglio delle nostre attuali capacità – cioè, nella misura dei nostri attuali bhakti and vairāgya.

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