Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

giovedì 13 ottobre 2016

Una spiegazione dei primi dieci versi di Upadēśa Undiyār

Michael James

12 Ottobre 2016
An explanation of the first ten verses of Upadēśa Undiyār


Per quasi cinque anni ho redatto note che ho fatto nel 1977 e 1978 di idee utili e spiegazioni che ho udito dire da Sadhu Om a me o ad altri amici, da quando nell’Aprile 2012 queste note sono state pubblicate a puntate in ogni numero di ​ The Mountain Path ​con il titolo ‘La Suprema Importanza dell’Auto-Attenzione’. Poiché le note che ho fatto a quel tempo erano intese solo ricordare a me stesso alcune spiegazioni che Sadhu Om diede, sono troppo abbozzate per essere pubblicate come sono, così ho dovuto revisionarle ed elaborarle per renderle più comprensibili e per rappresentare più fedelmente e in maggiore dettaglio il tipo di spiegazioni e i chiarimenti che egli era solito dare, così mentre le revisionavo ho liberamente attinto dalla mia memoria ciò che egli generalmente avrebbe detto riguardo ciascun soggetto. Quindi la forma revisionata finale in cui le mie note sono pubblicate in The Mountain Path non riporta le parole esatte di Sadhu Om, ma trasmette idee ragionevolmente fedeli che ricordo da lui espresse frequentemente.

Recentemente, preparando la prossima parte per l’edizione di Gennaio 2017 ho trovato le note che ho fatto il 19 Agosto del 1978 ad una spiegazione che Sadhu Om ha dato sui primi dieci versi di Upadēśa Undiyār, ma come di consueto le mie note non erano molto dettagliate e ho potuto vedere che in alcuni punti non avevo registrato precisamente ciò che egli era solito spiegare riguardo ciascuno di questi versi, così ho dovuto revisionarle ed elaborarle per trasmettere ciò che ricordo che lui in varie occasioni ha spiegato di essi. Dato che nella sua forma finale revisionata questa parte delle mie note trasmette abbastanza chiaramente ciò che egli spesso spiegava riguardo questi versi, ho deciso di riprodurla qui:

Sadhu Om: I rishi che praticavano azioni rituali nella Darika Vana credevano che non c’è Dio tranne l’azione (karma), così nel primo verso di Upadēśa Undiyār Bhagavan spiega che poiché il karma è insenziente, non può essere Dio e non può decidere quale azione deve dare i suoi frutti e quando, così il modo e il tempo in cui ogni azione deve dare frutto è determinata solo da Dio. Nel secondo verso egli spiega che anche dopo che il frutto di un’azione è stato sperimentato, il seme di quella azione, che è la tendenza (vāsanā) a compiere ancora lo stesso genere di azione, rimane, causando con questo che ci si immerga ancora più profondamente nell’oceano dell’azione, così il karma non può mai dare la liberazione.

Tuttavia nel terzo verso ​ egli spiega che se compiamo azione senza alcun desiderio per il suo frutto ma semplicemente per amore di Dio, offrendo a lui i suoi frutti, quello purificherà la nostra mente e ci mostrerà la via alla liberazione. Questo significa che il karma compiuto con un tale spirito non è il sentiero alla liberazione ma può condirci al sentiero purificando la nostra mente, perché solo una mente purificata sarà in grado di afferrare il fatto che la liberazione non può essere raggiunta per mezzo di qualche azione ma solo arrendendo completamente sé stessi a Dio, e che si può arrendere sé stessi solo rivolgendosi all’interno per osservare con vigilanza il proprio ego e impedendogli con ciò di sorgere per compiere qualche karma.

Dal verso 4 al verso 7 egli spiega l’efficacia relativa dei diversi tipi di azione che si possono compiere per amore di Dio. Nel verso 4 dice che pūjā, japa e dhyāna sono rispettivamente azioni di corpo, parola e mente e che in questo ordine ascendente ognuna è superiore alla precedente, nel senso che sono sempre più efficaci nel purificare la nostra mente. Nel verso 5 dice che se si considerano tutte le cose come forme di Dio e le si riverisce di conseguenza, questo è buon pūjā o adorazione di Dio. Nel verso 6 descrive diversi tipi di adorazione vocale e japa (ripetizione di un nome di Dio o un mantra a lui sacro), dicendo che japa fatto a bassa voce è più efficace (nella purificazione della propria mente) di pregare Dio cantando inni, che il japa appena sussurrato all’interno della bocca è ancora più efficace, e che il japa fatto mentalmente è il più efficace di tutti ed è un tipo di dhyāna o meditazione. E nel verso 7 ​dice che una stabile e ininterrotta meditazione su Dio, come un flusso stabile di burro chiarificato, è meglio della meditazione interrotta frequentemente da altri pensieri. Questo è il motivo per cui più amiamo Dio più la nostra mente sarà attratta a pensare solo a lui, e ciò che purifica la nostra mente non è l’azione in sé stessa ma l’amore con cui la compiamo.

Fino al verso 7 Bhagavan ha discusso azioni, che tutte comportano un flusso esteriorizzante della nostra mente, ma nei versi 8 e 9 egli ci mostra come possiamo deviare il nostro amore per Dio facendolo andare oltre l’azione verso il nostro stato naturale di solo essere, che è lo stato di completo auto-abbandono e dunque l’espressione più perfetta di amore per Dio. Nel verso 8 dice che piuttosto che anya-bhāva (meditazione su Dio come qualcosa diversa da sé stessi) ananya-bhāva (meditazione su di lui come non diverso da sé stessi) è ‘la migliore di tutte’, intendendo che è la migliore di tutte le pratiche di bhakti e di tutte le forme di meditazione, e nel verso 9 dice che con la forza o l’intensità di questa ananya-bhāva essere in sat-bhāva (il proprio stato naturale di essere), che trascende la meditazione, è para-bhakti tattva, il vero stato di suprema devozione.

Così finché consideriamo Dio come qualcosa diversa da noi stessi, quando meditiamo su di lui la nostra attenzione si muove lontano da noi stessi verso il nostro pensiero a lui, e questo movimento esteriorizzante della nostra mente è un’azione o karma. D’altra parte, quando lo consideriamo come noi stessi e meditiamo su di lui di conseguenza, non staremo più meditando solo su un pensiero a lui ma solo su noi stessi, così la nostra attenzione non si allontanerà da noi stessi ma rimarrà precisamente immobile su noi stessi, la sua sorgente, così questa auto-attentività non è un’azione o karma ma il nostro stato naturale di solo essere (summā iruppadu). Questo è il motivo per cui Bhagavan dice nel verso 9 che per l’intensità e la fermezza di ananya-bhāva rimarremo in sat-bhāva, e che essendo così trascenderemo tutta la bhāvana, immaginazione, meditazione o pensiero.

Quindi ciò che Bhagavan intende in questi primi nove versi è che sebbene non possiamo ottenere la liberazione per mezzo di qualsiasi azione o karma, se le nostre azioni sono motivate solo dall’amore per Dio e non da qualche desiderio di vantaggi temporali, esse purificheranno gradualmente la nostra mente e ci permetteranno di comprendere che Dio è ciò che risplende in noi come ‘io’, così il modo migliore di meditare su di lui è meditare su niente altro che noi stessi, e che se meditiamo solo su noi stessi, tutte le azioni cesseranno, e così sprofonderemo nella sorgente da cui siamo sorti.

Quindi nel verso 10 ​ egli dice che sprofondare ed essere nella sorgente da cui siamo sorti (che è noi stessi come siamo realmente) è esso stesso karma, bhakti, yōga and jñāna, intendendo che è la pratica più perfetta di tutti i sentieri spirituali, che sono classificati generalmente in quattro categorie, vale a dire karma yōga (la pratica dell’azione senza desiderio), bhakti yōga (la pratica della devozione), raja yōga (la pratica di discipline come il controllo del respiro come un mezzo per controllare e soggiogare la mente) e jñāna yōga (la pratica della conoscenza, che Bhagavan ha spiegato è solo ātma-vicāra o auto-investigazione).

Nel verso 8 Bhagavan ha incluso una proposizione relativa per descrivere più pienamente ananya-bhāva, vale a dire ‘avaṉ aham āhum’, che significa ‘in cui egli è io’, e che implica che poiché egli (Dio) è ‘io’, meditando su ‘io’ (che solo è ananya, ‘non diverso’ da sé stessi) si sta meditando su di lui. Tuttavia, in Sanscrito egli ha tradotto questa proposizione come ‘sōham iti’, che significa ‘così, egli è io’, e a causa di questo alcune persone interpretano ‘avaṉ aham āhum ananya-bhāva’ nel significato di sōham bhāvana, meditazione sul pensiero ‘egli è io’. Questa interpretazione non è corretta poiché ananya-bhāva significa ‘meditazione senza altro’ o ‘meditazione su ciò che non è diverso’, così non può significare meditazione sul pensiero ‘egli è io’, poiché ogni pensiero è qualcosa diversa da sé stessi.

Tuttavia, nel verso 9, Bhagavan spiega che per la forza o intensità di ananya-bhāva ci si stabilirà nello stato di essere (sat-bhāva), che descrive come bhāvanātīta, che significa ‘meditazione trascendente (o andata oltre)’, e che quindi implica essere oltre ogni genere di pensiero, così da questo dovremmo dedurre che ciò che intende con ‘avaṉ aham āhum ananya-bhāva’ non è meditazione sul pensiero ‘egli è io’ (sōham bhāvana), perché meditazione su qualsiasi pensiero è un’attività mentale, così come ogni altra azione essa tenderebbe ad essere auto-perpetuante, come Bhagavan intende nel verso 2. Per andare oltre il pensiero la nostra mente deve sprofondare, e poiché essa sorge, si regge e prospera attendendo a qualunque cosa diversa da sé stessa, essa sprofonderà solo attendendo a sé stessa, quella che sorge per pensare a qualunque cosa.

Quando gli aspiranti iniziano a seguire il sentiero della bhakti, generalmente fanno questo con l’idea che Dio è qualcosa diversa da sé stessi, così adorano Dio, lo pregano e meditano su di lui come se fosse un altro. Tuttavia, poiché Dio non è diverso da noi stessi, non possiamo mai raggiungerlo finché lo consideriamo diverso, così effettivamente abbiamo bisogno di sentirci dire che egli è realmente solo ‘io’, che è ciò a cui Bhagavan si riferisce quando nel verso 8 dice ‘avaṉ aham āhum’, ‘in cui egli è io’. Tuttavia, quando ci viene detto che egli è ‘io’, ciò che dovremmo dedurre non è che dovremmo meditare sull’idea ‘egli è io’, ma solo che dovremmo meditare soltanto su noi stessi.

Come Bhagavan spesso diceva, perché dovremmo meditare su Dio come qualcuno distante e sconosciuto quando di fatto egli esiste sempre all’interno di noi ed è chiaramente conosciuto da noi come ‘io’, il nostro sé? Poiché ‘io’ è per noi la cosa più vicina e più cara e ciò di cui siamo sempre chiaramente consapevoli, il modo più semplice e più efficace di amare Dio e di meditare su di lui è amarlo e meditare su di lui solo come ‘io’.

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