Michael James
Venerdì 5 settembre 2014
Dal momento che ho iniziato il mio sito web uno degli
antichi scopi è stato includere traduzioni dettagliate ed esplicative di tutti
gli originali scritti in Tamil di Sri
Ramana, ma tra tutto il mio altro lavoro non ho ancora avuto il tempo di farlo.
Il mese scorso ho deciso di iniziare scrivendo una traduzione di Upadēśa
Undiyār (உபதேச வுந்தியார்),
ma fino ad ora ho completato solo un’introduzione e una spiegazione dettagliata
del primo verso.
A causa di circostanze che ora mi rendono necessario passare
molto più del mio tempo lavorando per aumentare le mie entrate in questo
periodo insufficienti, non avrò tempo di completare questa traduzione e
spiegazione di Upadēśa Undiyār nel prossimo futuro, così ho deciso nel
frattempo di pubblicare qui la traduzione e spiegazione del primo verso, e poiché
è una spiegazione molto lunga, la posterò come due articoli consecutivi, questo
e un secondo dal titolo ‘Perché Sri Ramana ha insegnato una teoria del karma?’.
Per inciso, recentemente ho impiegato molto del mio tempo
rispondendo a numerose email e commenti sul blog, che è un lavoro che sono
sempre felice di fare, perché mantiene la mia mente a dimora negli insegnamenti
di Sri Ramana e sulla pratica di auto-investigazione, ma a causa dell’altro
lavoro più terreno di cui mi devo ora occupare, non sarò in grado di
impiegare così tanto tempo a rispondere a
email e commenti, di conseguenza abbiate
pazienza se non sono in grado di rispondere prontamente a ogni email che potete
mandarmi. Comunque, nonostante qualsiasi
altro lavoro ho da compiere, cercherò di continuare a pubblicare qui articoli su una base abbastanza regolare, come sto facendo dall’inizio di quest’anno.
உபதேச வுந்தியார் (Upadēśa
Undiyār) verso 1
கன்மம் பயன்றரல்
கர்த்தன தாணையாற்
கன்மங் கடவுளோ வுந்தீபற
கன்மஞ் சடமதா லுந்தீபற.
kaṉmam payaṉḏṟaral karttaṉa dāṇaiyāl
kaṉmaṅ kaḍavuḷō vundīpaṟa
kaṉmañ jaḍamadā lundīpaṟa.
பதச்சேதம்: கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால். கன்மம் கடவுளோ? கன்மம் சடம் அதால்.
கன்மங் கடவுளோ வுந்தீபற
கன்மஞ் சடமதா லுந்தீபற.
kaṉmam payaṉḏṟaral karttaṉa dāṇaiyāl
kaṉmaṅ kaḍavuḷō vundīpaṟa
kaṉmañ jaḍamadā lundīpaṟa.
பதச்சேதம்: கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால். கன்மம் கடவுளோ? கன்மம் சடம் அதால்.
Padacchēdam (separazione delle parole): kaṉmam payaṉ taral karttaṉadu āṇaiyāl. kaṉmam kaḍavuḷ-ō? kaṉmam jaḍam adāl.
அன்வயம்: கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால். கன்மம் சடம் அதால், கன்மம் கடவுளோ?
Anvayam (parole riordinate nell’ordine di prosa naturale): kaṉmam payaṉ taral karttaṉadu āṇaiyāl. kaṉmam jaḍam adāl, kaṉmam kaḍavuḷ-ō?
Traduzione: Il dare frutto del karma (azione) è per l’ordinare di Dio [il kartā o chi stabilisce]. Poiché il karma è jaḍa [privo di consapevolezza], può il karma essere Dio?
Spiegazione: கன்மம் (kaṉmam) è una forma Tamil della parola Sanscrita karma,
che significa ‘azione’ nel senso di ogni azione compiuta con volizione da
parte di un essere senziente con la mente, con la parola o con il corpo.
பயன் (payaṉ) significa
‘frutto’, così è l’equivalente Tamil della parola Sanscrita phala, che
nel contesto di karma significa il frutto o conseguenze morali di ogni
azione volitiva. தரல் (taral)
è un sostantivo verbale che significa ‘dare’.
கர்த்தனது (karttaṉadu) è una forma genitiva di கர்த்தன் (karttaṉ), che è una forma Tamil della parola Sanscrita kartṛ o kartā, che significa ‘chi agisce’ o ‘agente’, così esso significa letteralmente ‘di chi agisce’ o ‘dell’agente’. Comunque, in questo contesto கர்த்தன் (karttaṉ) non si riferisce alla persona che compie il karma, ma solo a Dio, che è considerato il sommo ‘agente’ o forza motrice dietro tutte le azioni, benché come Sri Ramana spiega nel quindicesimo paragrafo del Nāṉ Yār? (Chi sono io?), Dio non agisce con alcuna volizione, ma proprio come alla presenza del sole molteplici cose sono fatte accadere sulla terra, nello stesso modo per la semplice presenza di Dio gli esseri senzienti sono fatti agire secondo sia la loro volizione sia il loro destino (prārabdha), che è il frutto delle loro passate azioni volitive (āgāmya).
ஆணையால் (āṇaiyāl) è una forma strumentale di ஆணை (āṇai), che è una forma Tamil della parola Sanscrita ājñā, che significa ‘comando’, ‘ingiunzione’, ‘ordinamento’, ‘autorità’ o ‘permesso’, così கர்த்தனது ஆணையால் (karttaṉadu āṇaiyāl) significa ‘per l’ordinamento di Dio’ (o meno letteralmente, ‘secondo l’ordinamento di Dio’).
கர்த்தனது (karttaṉadu) è una forma genitiva di கர்த்தன் (karttaṉ), che è una forma Tamil della parola Sanscrita kartṛ o kartā, che significa ‘chi agisce’ o ‘agente’, così esso significa letteralmente ‘di chi agisce’ o ‘dell’agente’. Comunque, in questo contesto கர்த்தன் (karttaṉ) non si riferisce alla persona che compie il karma, ma solo a Dio, che è considerato il sommo ‘agente’ o forza motrice dietro tutte le azioni, benché come Sri Ramana spiega nel quindicesimo paragrafo del Nāṉ Yār? (Chi sono io?), Dio non agisce con alcuna volizione, ma proprio come alla presenza del sole molteplici cose sono fatte accadere sulla terra, nello stesso modo per la semplice presenza di Dio gli esseri senzienti sono fatti agire secondo sia la loro volizione sia il loro destino (prārabdha), che è il frutto delle loro passate azioni volitive (āgāmya).
ஆணையால் (āṇaiyāl) è una forma strumentale di ஆணை (āṇai), che è una forma Tamil della parola Sanscrita ājñā, che significa ‘comando’, ‘ingiunzione’, ‘ordinamento’, ‘autorità’ o ‘permesso’, così கர்த்தனது ஆணையால் (karttaṉadu āṇaiyāl) significa ‘per l’ordinamento di Dio’ (o meno letteralmente, ‘secondo l’ordinamento di Dio’).
கன்மம் பயன் தரல் (kaṉmam
payaṉ taral), ‘il dare frutto del karma’, è il soggetto di questa
frase, e கர்த்தனது ஆணையால் (karttaṉadu
āṇaiyāl), ‘per l’ordinamento di Dio’, è il suo predicativo. Sebbene qui non
ci sia un esplicito verbo finito, il verbo copulativo ‘è’ è chiaramente
implicito, poiché in una frase o proposizione Tamil che afferma cosa qualcosa è
(come ‘X è Y’, dove ‘X’ è il soggetto e ‘Y’ è il soggetto predicativo, che può
essere sia una frase sostantiva o una frase aggettiva), la copula ‘sono’[‘io’], ‘è’ o ‘sono’ [‘essi’], generalmente non è specificata esplicitamente,
poiché essa è chiaramente implicita dalla presenza del soggetto e del
predicativo senza alcun verbo finito. Così la prima frase, ‘கன்மம் பயன் தரல் கர்த்தனது ஆணையால்’ (kaṉmam payaṉ taral karttaṉadu āṇaiyāl)
significa ‘il dare frutto del karma è per [o secondo] l’ordinamento di
Dio’, che implica che quando, dove e come ciascun karma produce quale
frutto o esperienza conseguenziale è determinato non da quell’azione in sé ma
solo da Dio.
Nella seconda frase கன்மம் (kaṉmam) nuovamente significa karma, e கடவுளோ (kaḍavuḷ-ō) è il
sostantivo கடவுள் (kaḍavuḷ),
che significa ‘Dio’ nel senso di ciò che trascende tutte le cose finite
(essendo derivato da கடந்து உள்ளது (kaḍandu
uḷḷadu), ‘ciò che esiste trascendendo’, o கடந்து உள்ளவன் (kaḍandu uḷḷavaṉ), ‘egli che esiste
trascendendo’, con il suffisso interrogativo ஓ (ō) apposto a esso. Come nella frase precedente, la copula
‘è’ è qui implicita, così ‘கன்மம் கடவுளோ?’
(kaṉmam kaḍavuḷ-ō?) significa ‘E’ il karma Dio?’ (o meno letteralmente,
‘Può il karma essere Dio?’).
Nella frase finale கன்மம் (kaṉmam) nuovamente significa karma; சடம் (jaḍam) è una parola
Sanscrita che significa inanimato, insenziente, non-cosciente, materiale o
fisico, ma in questo contesto significa specificatamente non-cosciente; e அதால் (adāl) è una forma
strumentale di அது (adu),
così esso significa letteralmente ‘da quello’ o ‘da esso’, ma in questo
contesto significa ‘poiché’ o ‘perché’. La copula ‘è’ è nuovamente implicita in
questa frase, così ‘கன்மம் சடம் அதால்’ (kaṉmam jaḍam adāl)
significa ‘poiché il karma è non-cosciente’. Questa frase finale può
essere costruita con l’una o l’altra delle due frasi principali in questo
verso o con entrambe: ‘Poiché il karma è non-cosciente, il dare frutto
del karma è per l’ordinamento di Dio’ e ‘Poiché il karma è
non-cosciente, può il karma essere Dio?’.
Il concetto di karma – cioè, l’idea che ogni azione
che un individuo compie con volizione per mezzo della mente, della parola o del
corpo deve dare frutto o produrre una conseguenza morale che presto o tardi
sarà sperimentata da quell’individuo come un’esperienza piacevole o spiacevole
– è molto antico, risalente alle parti più antiche dei Vēda, che sono le
primordiali documentazioni del pensiero filosofico e religioso in India. Pressoché
ogni sistema di filosofia Indiana e ogni religione di origine Indiana accetta
questo concetto in una forma o in un’altra, sebbene ciascuna di esse abbia la
propria teoria riguardo ciò – sia riguardo a cosa costituisce un’azione morale
o immorale, sia riguardo a come tali azioni producono il loro frutto
appropriato.
Secondo la filosofia del pūrva mīmāṁsā, che Sri
Ramana ripudia in questo verso, karma significa principalmente le azioni
che sono comandate, permesse o proibite dai Vēda, e un’azione è morale
se è fatta in accordo alle ingiunzioni vediche, o immorale se è fatta in
contravvenzione a esse. Inoltre, il pūrva mīmāṁsā sosteneva che i karma
sono supremi, essendo la forza motrice
che regola l’intero universo, e che poiché essi hanno il potere di
produrre il loro frutto automaticamente, e poiché non c’è potere più grande di
essi, non c’è Dio eccetto il karma.
Altri sistemi di filosofia Indiana non sostengono una
visione così estrema riguardo al potere dei karma, e la maggioranza di
essi considerano ogni azione compiuta con volizione come un karma.
Comunque, come il pūrva mīmāṁsā,
molti di essi (come il sāṁkhya,
alcune interpretazioni della filosofia yōga, il Jainismo, i vari sistemi
della filosofia Buddhista, e anche le iniziali forme di vaiśēṣika e
forse anche del nyāya) non hanno o non ebbero posto per il concetto di
Dio, e quindi non vedono la necessità di postulare un Dio che ordina i frutti
dei karma, così sostengono che i karma
in qualche modo portano frutto automaticamente. Senza ogni concetto di Dio,
comunque, non sembra facile spiegare come i karma possono portare frutto
secondo qualche principio morale. A meno che ci sia un potere cosciente di
regolazione che decide quale azione deve portare quale tipo di frutto, come può
un’azione morale risultare automaticamente in un’esperienza piacevole per la
persona che l’ha compiuta, e come può un’azione immorale risultare
automaticamente in un’esperienza spiacevole per quella persona?
Se il karma stesso fosse cosciente, esso potrebbe forse
determinare i suoi frutti, ma un karma è solamente un’azione che un
individuo compie per mezzo della mente, della parola o del corpo pertanto come
potrebbe essere cosciente? Dato che il karma è non cosciente, come può determinare i suoi frutti? Sebbene un
individuo che compie qualche karma è cosciente, egli o ella non può
essere colui che determina il frutto di quell’azione, perché se lo fosse, una
persona che compie un’azione immorale non sceglierebbe di sperimentare un
frutto spiacevole come risultato di essa. Quindi, dal momento che il frutto di qualsiasi
karma non può essere determinato né dall’individuo che lo ha compiuto né
dallo stesso karma, ci deve essere un qualche potere indipendente che è
cosciente e quindi in grado di determinare i suoi frutti. A meno che un tale
potere sia postulato, è molto difficile dimostrare la fondatezza di ogni teoria del karma.
Quindi in questo verso Sri Ramana sostiene che dato che il karma
non è cosciente, non può portare frutto tranne che per l’ordinamento di Dio.
Cioè, quale frutto ciascun karma dovrebbe produrre, e quando e come quel
frutto dovrebbe essere sperimentato è determinato solo da Dio, poiché egli solo
può conoscere il valore morale di ciascuna azione e quale frutto sarebbe a essa
appropriato.
Secondo la teoria del karma come insegnata da Sri
Ramana, quando compiamo un karma, esso non produce il suo frutto
immediatamente, perché qualsiasi cosa sperimentiamo nella nostra vita attuale è
predestinata, essendo ciò che Dio ha scelto tra la vasta collezione di frutti
dei nostri karma passati per essere da noi sperimentato in questa
esistenza. Quindi il frutto di qualsiasi nuovo karma che compiamo in qualche
esistenza non sarà da noi sperimentato durante quell’esistenza, ma sarà
conservato per essere sperimentato in vite future. Qualsiasi nuovo karma
che compiamo per nostra volizione o libera volontà è chiamato āgāmya, la
riserva di tutti i frutti accumulati dei nostri karma passati che
dobbiamo ancora sperimentare è chiamata sañcita, e i frutti dei nostri karma
passati che siamo destinati a sperimentare in qualche vita particolare sono
chiamati prārabdha.
Generalmente l’ammontare di āgāmya che compiamo in
ciascuna vita è molto più grande dell’ammontare di prārabdha che
sperimentiamo, perché desideriamo e compiamo sforzi con la mente, la parola e
il corpo per sperimentare molto più di quanto possiamo sperimentare in una
singola vita, ed anche desideriamo e compiamo sforzi per evitare di
sperimentare tutte le cose spiacevoli che siamo destinati a sperimentare, così
la quantità dei frutti di tutto il nostro āgāmya che è conservato nel
nostro sañcita aumenta
stabilmente. Quindi per ciascuna delle nostre vite (che sono solo sogni che
accadono nel nostro lungo sonno di auto-ignoranza) Dio ha scelto esattamente
una piccola parte dalla vasta riserva di frutti che abbiamo accumulato nel
nostro sañcita.
Dato che il frutto di ogni āgāmya che compiamo ora
non sarà da noi sperimentato durante questa vita, non possiamo per mezzo di
ogni sforzo fatto ora dalla nostra libera volontà cambiare qualcosa che siamo
destinati a sperimentare nella nostra vita attuale. Questo fu dichiarato
enfaticamente da Sri Ramana nella nota che scrisse per sua madre nel Dicembre
del 1898 quando lo implorò di tornare a casa con lei a Madurai:
அவரவர் பிராரப்தப்
பிரகாரம் அதற்கானவன் ஆங்காங்கிருந் தாட்டுவிப்பன். என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது;
நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது. இதுவே திண்ணம். ஆகலின்
மௌனமா யிருக்கை நன்று.
avar avar prārabdha-p prakāram adaṯkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ. eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṯcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. idu-v-ē tiṇṇam. āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu.
avar avar prārabdha-p prakāram adaṯkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ. eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṯcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. idu-v-ē tiṇṇam. āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu.
Secondo il prārabdha [destino] di ciascuna persona,
Dio essendo lì e lì [nel cuore di ciascuno di essi] [lo o la] farà agire. Ciò che non deve succedere non succederà quale
che sia lo sforzo che [uno] compie [per farlo succedere]; ciò che deve
succedere non si fermerà quale che sia l’ostruzione [o resistenza] che [uno]
compie [per impedire che succeda]. Questo è certo davvero. Quindi essere
silenziosamente [o essere silenti] è buono.
Il significato letterale della prima frase di questa nota è ‘Secondo
il loro e loro prārabdha , egli che è per quell’essere lì e lì causerà
l’agire’, in cui il termine அதற்கானவன் (adaṯkāṉavaṉ),
che significa ‘egli che è per quello’, indica Dio, la cui funzione in questo
contesto è ordinare il destino (prārabdha) di ciascun individuo, e in
cui ஆங்காங்கிருந்து (āṅgāṅgirundu),
che significa ‘essere lì lì’ (āṅgu-āṅgu-irundu), significa che Dio è nel
cuore di ciascun individuo il cui destino egli ordina.
Ciò che Sri Ramana denota qui chiaramente dicendo, ‘ Ciò che
non deve succedere non succederà quale che sia lo sforzo che [uno] compie; ciò
che deve succedere non si fermerà quale che sia l’ostruzione che [uno]
compie’, è in primo luogo che non siamo
liberi di cambiare qualsiasi cosa siamo destinati a sperimentare, e in secondo
luogo che siamo nondimeno liberi di cercare di cambiarla. Cioè, sebbene non
possiamo sperimentare niente che non siamo destinati a sperimentare, e sebbene
non possiamo evitare di sperimentare qualsiasi cosa che siamo destinati a
sperimentare, possiamo desiderare e sforzarci con la mente, con la parola e con
il corpo per sperimentare ciò che non siamo destinati a sperimentare, e per
evitare di sperimentare ciò che siamo destinati a sperimentare.
Dal momento che il nostro destino o fato (prārabdha)
ci costringerà a sperimentare ciò a cui siamo destinati (come Sri Ramana ha
voluto dire nella prima frase di questa nota), le azioni della nostra mente,
della parola o del corpo sono guidate da due forze, destino e libera volontà,
che in ogni momento possono lavorare in armonia o in conflitto tra loro. Alcune
delle nostre azioni possono essere spinte solo dal nostro destino, altre
possono essere spinte solo dalla nostra libera volontà, mentre altre possono
essere spinte simultaneamente da entrambe. Cioè, dato che desideriamo
genuinamente alcune delle cose che siamo destinati a sperimentare, sia il
nostro destino sia la nostra libera volontà ci spingeranno a compiere qualsiasi
sforzo sia richiesto per sperimentare tali cose, nel qual caso essi lavoreranno
in armonia. Comunque, non ci è possibile determinare fino a che punto ciascuna
delle nostre azioni è spinta dal destino o dalla libera volontà.
Dato che Sri Ramana dice che è certo che non possiamo
cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare, non importa quanto sforzo
possiamo compiere per farlo, dovremmo comprendere che è futile compiere
qualsiasi sforzo per mezzo della nostra volizione per sperimentare o per non
sperimentare qualsiasi cosa diversa da noi stessi. Cioè, il destino determina solo ciò che è
sperimentato da noi quando la nostra mente è rivolta all’esterno – verso
qualsiasi cosa diversa da ‘io’ – ma non può impedirci di rivolgerci
interiormente per sperimentare ‘io’ da solo, poiché dare attenzione e perciò
sperimentare solo ‘io’ non è un’azione (karma) ma uno stato di solo
essere (summā-v-iruppadu), e quindi non è legato o limitato dal karma
in alcun modo.
Di conseguenza il solo uso saggio che possiamo fare della
nostra libera volontà è di cercare di sperimentare niente altro che ‘io’, dando
attenzione solamente a noi stessi, rimanendo perciò indifferenti a qualsiasi
cosa possiamo o non possiamo essere destinati a sperimentare esteriormente.
Dare attenzione tranquillamente e silenziosamente solo a ‘io’ è lo stato che
egli descrive qui come மௌனமாய் இருக்கை (mauṉamāy irukkai), ‘essere
silenziosamente’ o ‘essere come il silenzio’, che dice essere நன்று (naṉḏṟu), ‘buono’. மௌனமாய் இருக்கை (mauṉamāy irukkai), ‘essere
silenziosamente’, significa rimanere senza compiere qualsiasi azione volitiva
(cioè, qualsiasi āgāmya o karma spinto dalla nostra libera
volontà), così la sola altra opzione è compiere qualche azione volitiva, e
secondo lui il compiere qualsiasi azione non è buono, perché essa non può
cambiare qualsiasi cosa è destinata a essere sperimentata (o da noi stessi o da
altri), poiché è determinata solo dal prārabdha, e perché compiendo
qualsiasi azione non solo stiamo generando nuovo karma (āgāmya) ma stiamo
anche coltivando o nutrendo una vāsana
(una propensione o inclinazione) a compiere una tale azione ripetutamente
(come dice nel verso successivo di Upadēśa Undiyār). Quindi மௌனமாய் இருக்கை (mauṉamāy irukkai),
solamente ‘essere silenziosamente’ è buono.
Cosa è inteso esattamente con questo termine மௌனமாய் இருக்கை (mauṉamāy irukkai), può
essere compreso più chiaramente paragonando questa frase, ஆகலின் மௌனமாய் இருக்கை நன்று (āhaliṉ mauṉamāy
irukkai naṉḏṟu), ‘ Quindi essere silenziosamente è buono’, con un’altra
frase nella quale Sri Ramana esprime un’idea simile, vale a dire la seconda
frase del paragrafo finale del Nāṉ Yār? (Chi
sono io?), nella quale egli dice:
[…] எவ்வளவுக்கெவ்வளவு
தாழ்ந்து நடக்கிறோமோ அவ்வளவுக்கவ்வளவு நன்மையுண்டு. […]
[…] evvaḷavukkevvaḷavu tāṙndu naḍakkiṟōmō avvaḷavukkavvaḷavu
naṉmai-y-uṇḍu. […]
[…] Nella misura in cui ci comportiamo essendo quietati, in
quella misura c’è bontà [o virtù]. […]
எவ்வளவுக்கெவ்வளவு (evvaḷavukkevvaḷavu)
eஅவ்வளவுக்கவ்வளவு (avvaḷavukkavvaḷavu),
sono ciascuna un composto di due parole, vale a dire எவ்வளவுக்கு எவ்வளவு (evvaḷavukku evvaḷavu) e
அவ்வளவுக்கு அவ்வளவு (avvaḷavukku
avvaḷavu), che significano rispettivamente ‘quale misura in quale misura’ e
‘quella misura in quella misura’, e che per duplicazione delle loro rispettive
parole aggiungono enfasi al loro significato di base, ‘in quale misura’ e ‘in
quella misura’.
Cioè, la duplicazione di ciascuna di queste parole enfatizza
l’esatto parallelo tra le idee espresse in ciascuna di queste due frasi: vale a
dire che c’è bontà solo nella misura in cui siamo quietati e ci comportiamo di
conseguenza.
Essendo una forma di participio di தாழ் (tāṙ), che significa essere modesto,
abbassarsi, cedere, placarsi, declinare, diminuire, fermarsi, sottomettersi,
prostrarsi o essere umile, தாழ்ந்து (tāṙndu)
ha vari significati strettamente collegati, ma in questo contesto significa
essenzialmente ‘placarsi’ o ‘essendo placato’, perché ciò che Sri Ramana
enfatizza in tutte le tre frasi di questo paragrafo finale è che il placarsi
dell’ego o mente è il bene più grande.
நடக்கிறோம் (naḍakkiṟōm)
è la seconda persona plurale nella forma presente di நட (naḍa), che significa camminare, andare,
procedere, comportarsi o condurre se stessi, così தாழ்ந்து நடக்கிறோம் (tāṙndu naḍakkiṟōm)
significa ‘ci comportiamo [mentre] siamo placati’. Il suffisso ஓ (ō), che è apposto a நடக்கிறோம் (naḍakkiṟōm), significa
contrasto o paragone, e in questo contesto serve come congiunzione per
connettere le due frasi parallele.
நன்மை (naṉmai)
significa letteralmente bontà, così essa implica qualsiasi cosa buona, e quindi
significa anche virtù o moralità. உண்டு (uṇḍu) significa ‘c’è’, così நன்மையுண்டு (naṉmai-y-uṇḍu) significa ‘c’è bontà’, o meno letteralmente
‘esso è buono’. Quindi questa frase significa essenzialmente che c’è bontà solo
nella misura in cui siamo placati, e in questo modo parafrasa il significato di
மௌனமாய் இருக்கை நன்று (mauṉamāy irukkai naṉḏṟu), ‘essere
silenziosamente è buono’.
Cioè, தாழ்ந்து நடப்பது (tāṙndu
naḍappadu), ‘comportarsi [mentre] si è placati’, significa essenzialmente
lo stesso di மௌனமாய் இருக்கை (mauṉamāy
irukkai), ‘essere silenziosamente’, poiché in entrambi i termini l’enfasi è
esattamente essere in una condizione placata e quindi silente. Se il nostro ego
si è placato completamente, saremo
veramente in silenzio, sia che la nostra mente, la parola o il corpo siano o
meno impegnati in qualche azione, poiché nell’assenza di ego non sperimenteremo
qualsiasi azione compiuta da questi
strumenti come azioni compiute da noi. In questo conteso நடப்பது (naḍappadu) significa comportarsi o condurre se stessi in generale, di
conseguenza esso include sia l’essere attivi sia l’essere inattivi. Se siamo
placati interiormente, la nostra mente, la parola o il corpo possono essere
attivi o inattivi, ma ciò che allora determinerà qualsiasi azione questi
strumenti possono compiere è solo il nostro destino o fato (prārabdha) e
non la nostra libera volontà, perché l’ego ovviamente non può esercitare la sua
libera volontà quando è placato.
Dato che il placarsi del nostro ego comporta il placarsi
della nostra volontà individuale, solo quando il nostro ego si è placato
completamente la nostra volontà sarà completamente arresa a Dio (che è lo stato
a cui i devoti aspirano quando pregano ‘La tua volontà sia fatta: non la mia
volontà ma solo la tua’), e se il nostro ego non è ancora completamente
placato, la nostra volontà è arresa solo nella misura in cui il nostro ego è
placato. Quindi, come Sri Ramana dice, solo nella misura in cui siamo placati e
ci comportiamo di conseguenza c’è bontà. E solo nella misura in cui siamo
placati siamo appunto essere silenziosamente.
Nel sesto paragrafo di Nāṉ Yār? Sri Ramana spiega
esattamente ciò che intende con il termine மௌனம் (mauṉam) o silenzio:
[…] நான் என்னும் நினைவு
கிஞ்சித்து மில்லா விடமே சொரூபமாகும். அதுவே ‘மௌன’ மெனப்படும். […]
[…] nāṉ eṉṉum niṉaivu kiñcittum illā v-iḍam-ē sorūpam āhum. adu-v-ē ‘mauṉam’
eṉappaḍum. […]
[…] Il luogo privo anche del minimo pensiero chiamato ‘io’ è
svarūpa [la nostra ‘propria forma’ o sé essenziale]. Questo solo è
chiamato ‘mauna’ [silenzio]. […]
Qui, come spesso fece, Sri Ramana usa il termine இடம் (iḍam), che significa letteralmente ‘luogo’, ‘posizione’
o ‘situazione’, in un senso metaforico
per indicare la base o realtà fondamentale, che è il più interno nucleo o
centro di noi stessi e di tutto ciò che sperimentiamo; il termine நான் என்னும் நினைவு (nāṉ eṉṉum niṉaivu),
che significa ‘il pensiero chiamato io’,
per indicare il nostro ego; e il
termine சொரூபம் (sorūpam),
che è una forma Tamil della parola Sanscrita svarūpa, che significa
letteralmente ‘propria forma’, per indicare il nostro sé reale. Di conseguenza
ciò che egli spiega qui è che il nostro sé reale è unicamente il luogo
fondamentale, centrale e più interno in cui non esiste neppure la minima
traccia di ego, e questo solo è il silenzio (mauna). Quindi மௌனமாய் இருக்கை (mauṉamāy irukkai),
che significa letteralmente ‘essere silenziosamente’ o ‘essere come il silenzio’,
è lo stato in cui rimaniamo senza anche il minimo sorgere di un qualsiasi ego.
In questo modo, மௌனமாய் இருக்கை நன்று (mauṉamāy irukkai naṉḏṟu), ‘Perciò
essere silenziosamente è buono’, comporta che essere completamente silente
(cioè, completamente placati e quindi privi di qualsiasi ego) è buono, ma non
indica esplicitamente che nella misura in cui siamo silenti è buono. Comunque,
da ciò che egli scrisse nella seconda frase del paragrafo finale di Nāṉ Yār?
possiamo dedurre che non intendeva
solo che essere completamente silenti è buono, ma anche che nella misura in cui
siamo silenti è buono.
Dato che l’ego sorge solo dando attenzione a cose diverse da
‘io’, e dato che è nutrito e sostenuto solo dal dare continuamente attenzione a
cose diverse da ‘io’, si placherà e sarà silente solo nella misura in cui esso
darà attenzione solo a ‘io’, ritirando quindi la sua attenzione da tutte le
altre cose. Vale a dire, la natura dell’ego o mente è quella di placarsi e
dissolversi nella sua sorgente solo quando esso investiga se stesso cercando di
dare attenzione solamente a ‘io’, come Sri Ramana dichiarò chiaramente ed
enfaticamente nel paragrafo sesto, ottavo e sedicesimo del Nāṉ Yār?:
நானார் என்னும்
விசாரணையினாலேயே மன மடங்கும்; [...]
nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇaiyiṉāl-ē-y-ē maṉam aḍaṅgum; [...]
Solo per [mezzo della] investigazione chi sono io la mente
si placherà [o cesserà]; […]
மனம் அடங்குவதற்கு விசாரணையைத் தவிர வேறு தகுந்த
உபாயங்களில்லை. மற்ற உபாயங்களினால் அடக்கினால் மனம் அடங்கினாற்போ லிருந்து, மறுபடியும் கிளம்பிவிடும். [...]
maṉam aḍaṅguvadaṯku vicāraṇaiyai-t tavira vēṟu tahunda upāyaṅgaḷ-illai. maṯṟa
upāyaṅgaḷiṉāl aḍakkiṉāl maṉam aḍaṅgiṉāl-pōl irundu, maṟupaḍiyum kiḷambi-viḍum.
[...]
Per il placarsi [o la cessazione] della mente, non ci sono mezzi appropriati [o
adeguati] tranne vicāraṇā
[auto-investigazione]. Se fatta placare con altri mezzi, la
mente rimarrà come se placata, [ma] emergerà nuovamente. […]
[...] மனத்தை
யடக்குவதற்குத் தன்னை யாரென்று விசாரிக்க வேண்டுமே [...]
[...] maṉattai y-aḍakkuvadaṯku-t taṉṉai yār eṉḏṟu vicārikka vēṇḍum-ē[...]
[…] Per far placare la mente è certamente necessario investigare se stessi [al
fine di sperimentare] chi [si è realmente] […]
Ciò che spinge l’ego o mente a sorgere e a dare attenzione
ad altre cose sono i suoi desideri, di conseguenza nella misura in cui da
attenzione solo a ‘io’ esso mette a freno i suoi desideri esteriorizzanti, e
dal momento che tali desideri sono la volizione che lo spinge a compiere
qualsiasi azione con mente, parola o corpo che non sono solamente spinti dal prārabdha,
possiamo effettivamente astenerci dal compiere qualsiasi azione volitiva (āgāmya)
solo nella misura in cui diamo attenzione a ‘io’ solamente. Cioè, fino a che
diamo attenzione a qualsiasi altra cosa diversa da ‘io’, il nostro ego è
attivo, e fino a che esso è attivo sarà guidato dai suoi desideri e
inevitabilmente compirà quindi azioni volitive, il frutto delle quali sarà
aggiunto al nostro sañcita al fine di essere successivamente
sperimentato come prārabdha.
Quindi il solo modo effettivo per interrompere questo ciclo
di karma ripetuto è dare attenzione solo a ‘io’ e di conseguenza
placarsi ed essere silenti.
I nostri desideri esteriorizzanti sono ciò che è chiamato viṣaya-vāsanās
(inclinazioni, propensioni o preferenze a sperimentare cose diverse da se
stessi), e fino a che essi sono forti non saremo in grado di dare attenzione
solo a ‘io’ e quindi essere silenti sempre o per la maggior parte del tempo.
Comunque questo non significa che non possiamo almeno cercare di essere silenti
dando attenzione solo a ‘io’, e nella
misura in cui cerchiamo così di essere silenti indeboliremo in tal modo le
nostre viṣaya-vāsanās e
coltivando al loro posto sat-vāsanā, l’inclinazione o preferenza solo a
essere – cioè, la preferenza di sperimentare niente altro che solamente noi
stessi. In questo modo, per mezzo di una pratica persistente, otterremo forza
crescente per placarci ed essere silenti a un grado sempre più grande. Come Sri
Ramana scrisse nel sesto paragrafo del Nāṉ
Yār?:
[…] நானார் என்று விசாரித்தால் மனம் தன் பிறப்பிடத்திற்குத் திரும்பிவிடும்;
எழுந்த வெண்ணமு மடங்கிவிடும். இப்படிப் பழகப்
பழக மனத்திற்குத் தன் பிறப்பிடத்திற் றங்கி நிற்கும் சக்தி யதிகரிக்கின்றது.[…]
[…] nāṉ-ār eṉḏṟu vicārittāl maṉam taṉ piṟappiḍattiṯku-t tirumbi-viḍum; eṙunda
v-eṇṇam-um aḍaṅgi-viḍum. ippaḍi-p paṙaga-p paṙaga maṉattiṯku-t taṉ piṟappiḍattil
taṅgi niṯgum śakti y-adikarikkiṉḏṟadu. […]
Se [si] investiga chi sono io, la mente ritornerà al suo
luogo di nascita [il nostro sé reale, la sorgente dalla quale essa è sorta]; il
pensiero che è sorto anche si placherà. Quando [si] pratica e pratica in questo
modo, il potere della mente di rimanere fermamente stabilita nel suo luogo di
nascita aumenterà. […]
In questo modo il significato della nota che Sri Ramana
scrisse per sua madre è che il nostro prārabdha ci spingerà a compiere
qualsiasi azione di mente, parola o corpo sia necessaria per sperimentare
qualsiasi cosa siamo destinati a sperimentare, di conseguenza non possiamo
evitare di compiere tali azioni, ma dovremmo cercare di evitare di compiere
qualsiasi altra azione (cioè, ogni azione spinta dalla nostra libera volontà),
e il solo modo di evitare di compiere tali azioni è solo rimanere silenti dando
attenzione solamente a ‘io’. Fino a che diamo attenzione a qualsiasi altra cosa diversa da ‘io’, il
nostro ego è attivo e sarà di conseguenza guidato inevitabilmente dalla sua
libera volontà a compiere āgāmya, mentre quando diamo attenzione solo a ‘io’
l’attività del nostro ego si placherà, lasciandoci nel nostro stato naturale di
solo essere silenziosamente (mauṉamāy irukkai). Quindi il solo mezzo
effettivo e sicuro per rimanere senza compiere alcun āgāmya è dare attenzione solo a ‘io’.
Nota: pubblicherò il resto della mia spiegazione di
questo primo verso di Upadēśa Undiyār nel mio prossimo articolo: Perché
Sri Ramana insegna una teoria del karma?
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