Om Namo Bhagavate Sri Arunachalaramanaya

martedì 3 ottobre 2017

Se scegliamo di fare delle azioni dannose, dovremmo considerarle fatte secondo il destino (prārabdha)?

Michael James

5 Settembre 2017
If we choose to do any harmful actions, should we consider them to be done according to destiny (prārabdha)?

Nei commenti al mio articolo precedente, L’ego è una falsa entità, ciò nonostante è un’entità, se non lo investighiamo abbastanza accuratamente da vedere che non esiste realmente, diversi amici si sono impegnati appassionatamente in una discussione se dovremmo considerare che tutte le nostre azioni, incluso il nostro fare scelte etiche come mangiare carne o no, sono determinate dal prārabdha (fato o destino) o se il libero arbitrio gioca un ruolo nelle scelte e nelle azioni che facciamo.

La discussione è iniziata con due commenti in cui Sanjay Lohia ha parafrasato qualcosa che ho detto riguardo jñāna, karma, prārabdha e libero arbitrio nel video 2017-07-08 Ramana Maharshi Foundation UK: discussion with Michael James on the power of silence, ai quali Salazar ha scritto una risposta in cui ha detto: ‘Il prarabdha continua in ogni secondo delle nostre vite, ogni graffio, ogni piccola cosa è prarabdha, e nessuna azione esteriore è determinata dall’ego. Se siamo vegetariani o mangiamo carne, è anche prarabdha. Così se qualcuno dei devoti di Bhagavan ancora mangia carne, non confonderti, questo è destino tanto quanto quello di un Hindu che mangia carne, cosa che può creare tumulto interiore a meno che uno non faccia atma-vichara. Così noi sembriamo essere un pupazzo, almeno ciò che accade al corpo, comunque non siamo vittime del prarabdha perché possiamo trascenderlo con atma-vichara. Le azioni del corpo continueranno come destinato, ma l’identificazione interiore perde la sua presa’. Questo ha dato l’avvio a una serie di altri commenti in cui vari amici hanno espresso la loro comprensione degli insegnamenti di Bhagavan riguardo a questo, e durante le prime fasi di questa discussione Sanjay mi ha scritto chiedendomi di chiarire se il tipo di cibo che mangiamo è deciso dal nostro destino, pertanto questo articolo è scritto in risposta a questa domanda.
  1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 19: la disputa riguardo a chi prevale, tra destino e libero arbitrio, è solo per coloro che non hanno visto la non-esistenza dell’ego
  2. Destino e libero arbitrio prevalgono ciascuno nel proprio dominio, così non sono opposti l’uno all’altro
  3. Usando il nostro libero arbitrio dobbiamo coltivare sat-vāsanā e quindi controllare tutte le altre vāsanā
  4. Non abbiamo controllo sul nostro destino, pertanto esso non ci deve interessare, ma dobbiamo avere il controllo di come usiamo il nostro libero arbitrio, pertanto dovremmo essere interessati all’uso che facciamo di esso
  5. Upadēśa Undiyār verso 2: la causa della schiavitù non è il destino ma le vāsanā, che appartengono solo al dominio del libero arbitrio
  6. La nota di Bhagavan per sua madre: solo ciò che è destinato ad accadere accadrà, e sebbene non può essere cambiato siamo liberi di cercare di cambiarlo
  7. Coloro che hanno registrato ciò che Bhagavan ha detto in risposta a domande su destino e libero arbitrio spesso non sono riusciti ad afferrare le sfumature nelle sue risposte
  8. Il nostro prārabdha è fatto per adattarsi sia alle nostre vāsanā sia alla nostra propensione di non permettere a noi stessi di essere dominati da esse
  9. Nāṉ Yār? paragrafi 10 e 11: essere auto-attentivi richiede vairāgya, che comporta non essere dominati dalle nostre viṣaya-vāsanā
  10. Il miglior uso che possiamo fare del nostro libero arbitrio è di scegliere di essere auto-attentivi, ma anche quando diamo attenzione a qualsiasi altra cosa dovremmo almeno scegliere di evitare di compiere azioni dannose

1. Uḷḷadu Nāṟpadu verso 19: la disputa riguardo a chi prevale, tra destino e libero arbitrio, è solo per coloro che non hanno visto la non-esistenza dell’ego

In uno dei suoi commenti Sanjay si è riferito a me come ‘la corte più alta’, intendendo che io dovrei pronunciarmi su questa discussione, ma la corte suprema è Bhagavan, ed egli ha già dato il suo verdetto finale su tutte queste dispute nel verso 19 di Uḷḷadu Nāṟpadu:
விதிமதி மூல விவேக மிலார்க்கே
விதிமதி வெல்லும் விவாதம் — விதிமதிகட்
கோர்முதலாந் தன்னை யுணர்ந்தா ரவைதணந்தார்
சார்வரோ பின்னுமவை சாற்று.

vidhimati mūla vivēka milārkkē
vidhimati vellum vivādam — vidhimatigaṭ
kōrmudalān taṉṉai yuṇarndā ravaitaṇandār
sārvarō piṉṉumavai sāṯṟu
.

பதச்சேதம்: விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம். விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; சார்வரோ பின்னும் அவை? சாற்று.

Padacchēdam (separazione delle parole): vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam. vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; sārvarō piṉṉum avai? sāṯṟu.

அன்வயம்: விதி மதி மூல விவேகம் இலார்க்கே விதி மதி வெல்லும் விவாதம். விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்ந்தார் அவை தணந்தார்; பின்னும் அவை சார்வரோ? சாற்று.

Anvayam (parole ridisposte in ordine naturale di prosa): vidhi mati mūla vivēkam ilārkkē vidhi mati vellum vivādam. vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇarndār avai taṇandār; piṉṉum avai sārvarō? sāṯṟu.

Traduzione: Solo per coloro che non hanno il discernimento (vivēka) della radice del destino (vidhi) e del libero arbitrio (mati) [vale a dire l’ego] c’è la disputa riguardo a chi prevale, destino o libero arbitrio. Coloro che hanno conosciuto loro stessi [l’ego], che è l’origine [causa, radice o fondamento] di destino e libero arbitrio, li hanno [di conseguenza] scartati. Dimmi, da allora in poi loro saranno connessi con essi?
Né destino né libero arbitrio esistono indipendentemente dall’ego, del quale sono il destino e il libero arbitrio, così essi sono entrambi reali quanto l’ego, e senza di esso nessuno dei due esisterebbe. Finché l’ego esiste, ha volontà propria, e usando impropriamente la propria volontà nel suo tentativo di raggiungere qualunque cosa desidera e di evitare qualunque cosa teme o verso cui prova avversione compie āgāmya (nuovo karma guidato dal libero arbitrio), i frutti del quale sono depositati nel suo sañcita (il vasto deposito di frutti accumulati delle azioni passate che non sono state ancora sperimentate), dal quale Dio o il guru seleziona i frutti che devono essere sperimentati come il prārabdha (fato o destino) di ciascuna vita o sogno. Quindi sia il destino che il libero arbitrio operano in ogni momento dell’apparente esistenza dell’ego.

L’ego è solo la falsa consapevolezza ‘io sono questo corpo’ (in cui ‘questo corpo’ si riferisce a qualunque corpo attualmente confondiamo come noi stessi), che è un’idea sovrapposta alla nostra reale auto-consapevolezza ‘io sono’, proprio come ciò che sembra essere un serpente è un’idea sovrapposta alla forma di una corda, così esso è ciò che sembriamo essere solo finché non siamo consapevoli di noi stessi come siamo realmente. Quindi se investighiamo noi stessi abbastanza accuratamente da vedere ciò che siamo realmente, l’ego che ora sembriamo essere sarà di conseguenza sradicato, proprio come il serpente illusorio sarebbe sradicato se lo si guardasse abbastanza attentamente da vedere che è solo una corda, e poiché il destino e il libero arbitrio sembrano esistere solo per l’ego, essi cesseranno di esistere insieme con esso.

Quindi poiché l’ego è ciò a cui Bhagavan si riferisce qui sia come ‘விதி மதி மூலம்’ (vidhi mati mūlam), ‘la radice [base, origine o sorgente] di destino e libero arbitrio’, che come ‘விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai), ‘sé stesso, che è l’unica origine [causa, radice, fondamento o base] per destino e libero arbitrio’, e poiché esso si dissolverà per sempre in pura auto-consapevolezza quando lo investighiamo abbastanza accuratamente da vedere che non esiste come tale (perché non è mai stato realmente qualcosa diversa dalla pura auto-consapevolezza, proprio come il serpente non è mai stato qualcosa diversa da una corda), ciò che egli intende sia con ‘விதி மதி மூல விவேகம்’ (vidhi mati mūla vivēkam), ‘discernimento della radice di destino e libero arbitrio’, che come ‘விதிமதிகட்கு ஓர் முதல் ஆம் தன்னை உணர்தல்’ (vidhi-matigaṭku ōr mudal ām taṉṉai uṇardal), ‘conoscere sé stesso, che è l’unica origine [causa, radice, fondamento o base] di destino e libero arbitrio’, è vedere la non-esistenza dell’ego essendo consapevoli di noi stessi come siamo realmente.

Tuttavia, finché non riusciamo a vedere che ciò che esiste non è l’ego o qualsiasi altra cosa ma solo pura, infinita, indivisibile e immutabile auto-consapevolezza, sembriamo essere questo ego e di conseguenza sembriamo avere una volontà propria e sembriamo sperimentare il destino, così cerchiamo di comprendere quale di questi due prevalga, e se ci facciamo un’opinione su questa domanda e ci attacchiamo fortemente alla nostra opinione, siamo soggetti ad essere presi in dispute con coloro che hanno opinioni differenti, come abbiamo visto succedere nei commenti al mio articolo precedente. Questo è ciò per cui Bhagavan ci mette in guardia in questo verso.

Questo non è per dire che non dovremmo discutere questo o ogni altro aspetto dei suoi insegnamenti con altri devoti o aspiranti spirituali, a condizione che il nostro fine nel fare questo sia solo comprendere il soggetto più chiaramente per il nostro beneficio, ma dovremmo evitare dispute in cui qualcuno o tutti i partecipanti puntano ad affermare egoisticamente e in modo combattivo che la propria visione è la sola corretta. Sebbene possiamo credere sinceramente che la nostra comprensione attuale sia più o meno corretta, non dovremmo mai presupporre che abbiamo la parola finale su ogni dato soggetto, o che coloro che sono in disaccordo con noi sono necessariamente in errore. Non importa quanto bene possiamo pensare di aver compreso gli insegnamenti di Bhagavan, dovremmo sempre essere disposti a mettere in dubbio criticamente la nostra comprensione con spirito umile e mente aperta, perché questo è il solo modo per approfondirla e rifinirla, e perché se non facciamo così ci bloccheremo in opinioni rigide e dogmatiche, che sono opposte al vero spirito di investigazione di cui abbiamo bisogno per seguire questo sentiero, e saremo soggetti a soccombere all’orgoglio, pensando che noi siamo nel giusto e gli altri sono in errore.

Nelle due frasi finali del verso 23 di Uḷḷadu Nāṟpadu Bhagavan dice, ‘நான் ஒன்று எழுந்த பின், எல்லாம் எழும். இந்த நான் எங்கு எழும் என்று நுண் மதியால் எண்’ (nāṉ oṉḏṟu eṙunda piṉ, ellām eṙum. inda nāṉ eṅgu eṙum eṉḏṟu nuṇ matiyāl eṇ), che significa ‘Dopo che una cosa [chiamata] ‘io’ sorge, ogni cosa sorge. Investiga [considera, determina o scopri] con una mente sottile dove sorge questo ‘io’, indicando quindi che lo strumento di cui abbiamo bisogno per investigare noi stessi è (non sorprendentemente) ‘நுண் மதி’ (nuṇ mati), una ‘mente [o intelletto] sottile’. Una tale mente o intelletto sottile è richiesto non solo per l’auto-investigazione ma anche per comprendere i suoi insegnamenti chiaramente e correttamente, perché sebbene i suoi insegnamenti sono essenzialmente molto semplici, sono anche molto sottili e profondi, così non possono essere compresi chiaramente da una mente grezza che è inflessibilmente attaccata ai credi dogmatici o alle rigide interpretazioni.

Più pratichiamo l’essere auto-attentivi, più la nostra mente sarà purificata o ripulita dai suoi desideri, attaccamenti, orgoglio e così via, e più diventerà sottile e rifinita, permettendoci di andare ancora più in profondità all’interno per vedere ciò che siamo realmente, che è la sorgente dalla quale questo ‘io’ (l’ego) sorge. Mentre la nostra mente e l’intelletto divengono in questo modo più sottili e rifiniti, anche la chiarezza con cui siamo in grado di comprendere i suoi insegnamenti aumenterà e si approfondirà, così possiamo ora comprendere più chiaramente e forse anche in una luce completamente nuova ciò che abbiamo pensato di aver compreso chiaramente qualche anno fa (o forse solo alcuni mesi o settimane fa). Questa sarà l’esperienza di chiunque sta seguendo seriamente questo sentiero di auto-investigazione che egli ci ha insegnato.

Quindi non dovremmo mai permettere a noi stessi di essere attaccati troppo fortemente alla nostra attuale comprensione o di credere che nei suoi insegnamenti non ci sono dimensioni più sottili che non abbiamo ancora compreso, e in particolare non dovremmo permettere a noi stessi di inorgoglirci all’idea che ora abbiamo compreso tutto ciò che c’è da comprendere e che la nostra comprensione non ha bisogno di ulteriore approfondimento, rifinitura o chiarezza. Questo è particolarmente vero riguardo alla nostra comprensione di ciò che egli ci ha insegnato del karma e del soggetto di destino e libero arbitrio, perché sebbene questo non sia il nucleo centrale del suo insegnamento, è uno degli aspetti più sottili e complessi di essi, e forse uno che non comprenderemo mai pienamente, perché come egli indica in questo verso, non possiamo comprenderlo completamente senza conoscere la verità dell’ego, solo per il quale esistono karma, destino e libero arbitrio, e quando conosciamo la verità dell’ego, esso cesserà di esistere insieme con tutte queste cose.

2. Destino e libero arbitrio prevalgono ciascuno nel proprio dominio, così non sono opposti l’uno all’altro

Se lo consideriamo abbastanza attentamente, vedremo che la disputa che Bhagavan sminuisce in questo verso, vale a dire ‘விதி மதி வெல்லும் விவாதம்’ (vidhi mati vellum vivādam), ‘la disputa riguardo chi prevale, destino o libero arbitrio’, è priva di significato, perché ciascuno di essi prevale nel proprio dominio e poiché i loro rispettivi domini sono distinti l’uno dall’altro, non sono affatto opposti l’uno all’altro e quindi non contrastano mai realmente.

Il dominio sul quale il destino (vidhi o prārabdha) ha giurisdizione è qualunque cosa noi sperimentiamo in ogni vita (o sogno, poiché ogni vita è solo un sogno), che è una selezione scelta attentamente dei frutti delle azioni che abbiamo compiuto per mezzo del nostro libero arbitrio nelle vite precedenti (o sogni). In altre parole, il destino è ciò che determina tutto ciò che accade in ciascuna delle nostre vite, tranne entro il dominio del nostro libero arbitrio.

Poiché certi eventi o esperienze possono accadere solo se la nostra mente, parola o corpo agiscono in un modo particolare, colui che ha ordinato il nostro destino, vale a dire Dio o il guru, li faranno agire in quel modo. Tuttavia questo non significa che tutte le azioni della nostra mente, parola o corpo sono guidate solo dal nostro destino, perché alcune di esse sono guidate dal nostro libero arbitrio, e tali azioni sono ciò che è chiamato āgāmya, i frutti dei quali sono immagazzinati nel nostro sañcita finché Dio o il guru li scelgono per formare parte del destino (prārabdha) di una vita futura. Molte delle azioni della nostra mente, parola o corpo sono guidate da entrambi e sia il destino che il libero arbitrio lavoreranno insieme in sincronia, ma alcune azioni sono guidate unicamente dal destino, mentre altre sono guidate unicamente dal nostro libero arbitrio, perché spesso ciò che siamo destinati a sperimentare non è ciò che vogliamo, e ciò che vogliamo non è ciò che siamo destinati a sperimentare.

Tuttavia, sebbene può sembrare che a causa di questo il nostro destino e il nostro libero arbitrio siano in contrasto, non è realmente così, perché nessuno dei due può mai andare oltre i limiti del proprio dominio. Cioè, per quanto e in qualunque modo possiamo esercitare il nostro libero arbitrio nella nostra vita attuale, non possiamo mai con questo cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare in questa vita, perché questo è fuori del dominio del libero arbitrio, e qualunque possa essere il nostro destino, non può mai impedirci di esercitare il nostro libero arbitrio in qualunque cosa vogliamo, perché questo è esterno al dominio del destino. Quindi sebbene possiamo pensare che i nostri desideri e sforzi sono stati ostacolati dal destino, pensiamo in questo modo solo perché non comprendiamo il limite tra i rispettivi domini di libero arbitrio e destino.

Il dominio sul quale il libero arbitrio (mati) ha giurisdizione sono i nostri desideri, richieste, speranze, attaccamenti, simpatie, antipatie, paure, avversioni e così via, e di conseguenza qualunque sforzo possiamo fare per raggiungere, tenere stretto o evitare qualunque cosa desideriamo, vogliamo, verso cui proviamo simpatia, antipatia, paura o avversione. Poiché tali sforzi sono ciò che è chiamata āgāmya, qualunque āgāmya possiamo fare appartiene interamente al dominio di libero arbitrio e non al dominio del destino. Poiché le vāsanā sono propensioni, inclinazioni o impulsi, la formazione, coltivazione, modificazione, contenimento, controllo e sradicamento di tutti i tipi di vāsanā appartiene ugualmente solo al dominio del libero arbitrio e non al dominio del destino.

3. Usando il nostro libero arbitrio dobbiamo coltivare sat-vāsanā e quindi controllare tutte le altre vāsanā

Nel contesto degli insegnamenti di Bhagavan, i tre tipi di vāsanā che più ci interessano sono viṣaya-vāsanā (tendenza a sperimentare tipi particolari di viṣaya o fenomeni), karma-vāsanā (tendenza a fare tipi particolari di karma o azioni), e sat-vāsanā (tendenza solo ad essere come siamo realmente non essendo consapevoli di nient’altro che noi stessi). I primi due tipi, viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā, sono inseparabili, come i due lati di una singola moneta, perché sono realmente due aspetti dello stesso tipo di vāsanā. Cioè, per ogni viṣaya-vāsanā c’è una corrispondente karma-vāsanā, e viceversa, perché se siamo inclini a sperimentare un fenomeno particolare, saremo anche inclini a fare qualunque cosa è richiesta per sperimentarlo. Per esempio, una preferenza per il gusto di cioccolato, è una viṣaya-vāsanā, mentre la corrispondente preferenza a mangiare cioccolato è una karma-vāsanā.

Sebbene qualche volta siano citati altri tipi di vāsanā, come dēha-vāsanā, lōka-vāsanā e śāstra-vāsanā (che rispettivamente si riferiscono al corpo, al mondo e ai libri o testi sacri), essi sono tutte varietà di viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā. Quindi poiché il nostro fine è quello di sradicare tutte le viṣaya-vāsanā e le karma-vāsanā, non abbiamo bisogno di analizzarle e classificarle in ulteriori sottocategorie come queste.

Poiché le viṣaya-vāsanā e le karma-vāsanā sono due aspetti dello stesso tipo di vāsanā, vale a dire l’impulso a sorgere e ad uscire fuori (la vāsanā di pravṛtti o attività), e poiché sat-vāsanā è il tipo opposto di vāsanā, vale a dire l’impulso a rivolgersi all’interno e a sprofondare nella nostra sorgente (la vāsanā di nivṛtti o inattività), ci sono realmente solo due tipi di vāsanā di cui abbiamo bisogno di interessarci. Un tipo di vāsanā, vale a dire quello di pravṛtti, abbiamo bisogno di contenerlo ed eventualmente sradicarlo, mentre il tipo opposto di vāsanā, vale a dire quello di nivṛtti, abbiamo bisogno di coltivarlo e rafforzarlo, cosa che possiamo fare solo per mezzo della pratica persistente di auto-attentività.

Poiché le vāsanā appartengono al dominio del libero arbitrio, non possono cambiare ciò che siamo destinati a sperimentare, né possono essere cambiate da esso. Il destino può esporci a situazioni o esperienze che causano il sorgere di certe vāsanā sulla superficie della nostra mente, ma se permettiamo o meno a noi stessi di essere influenzati da quelle vāsanā è determinato solo dal nostro libero arbitrio e non dal nostro destino. Se permettiamo a noi stessi di essere influenzati da esse, le nutriremo e rafforzeremo, mentre se non permettiamo a noi stessi di essere influenzati da esse, le indeboliremo. La scelta è sempre nostra, perché appartiene solo al dominio del libero arbitrio.

4. Non abbiamo controllo sul nostro destino, pertanto esso non ci deve interessare, ma dobbiamo avere il controllo di come usiamo il nostro libero arbitrio, pertanto dovremmo essere interessati all’uso che facciamo di esso

Qualunque possa essere il nostro destino, è il risultato del nostro uso improprio del nostro libero arbitrio nel passato, ma poiché esso è ciò che ci è stato ordinato di sperimentare nella nostra vita attuale, non possiamo cambiarlo in alcun modo per mezzo del nostro attuale uso del nostro libero arbitrio. Quindi non abbiamo controllo su di esso, così non dovremmo interessarcene, ma dovremmo accettarlo con calma come la dolce volontà di Dio o del guru, che lo ha ordinato per il nostro sviluppo spirituale. Tuttavia, sebbene non dovremmo interessarci di qualunque cosa ci è stato ordinato di sperimentare in questa vita, se comprendiamo e siamo fermamente convinti che ciò è stato ordinato per il nostro bene e che non possiamo cambiarlo in alcun modo per quanto intensamente possiamo cercare di cambiarlo, questa comprensione e convinzione rimuoverà un pesante peso dalle nostre spalle (proprio come una persona che viaggia su un treno sarebbe alleviato dal peso di portare il suo bagaglio sulla testa se comprendesse e fosse convinto che il treno lo sta già portando per lui) e ci renderà più facile mettere il nostro libero arbitrio a buon uso cercando più che possiamo di essere tranquillamente auto-attentivi.

Mentre il dominio del destino non è sotto il nostro controllo, il dominio del nostro libero arbitrio è sotto il nostro controllo, così dovremmo interessarci dell’uso che facciamo di esso. La nostra scelta basilare è se cercare di essere auto-attentivi, ritirando quindi la nostra attenzione da altre cose e di conseguenza indebolendo le nostre viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā, o se permettere alla nostra attenzione di continuare a fluire all’esterno, lontano da noi stessi verso altre cose. Il primo è il sentiero di nivṛtti (ritornare, ritirarsi o cessare), che è altrimenti chiamato il sentiero di auto-investigazione o auto-abbandono, e il secondo è il sentiero di pravṛtti (andare all’esterno o essere attivi).

Ogni volta che permettiamo alla nostra attenzione di andare all’esterno, sperimentiamo noi stessi come un corpo e una mente, e quindi sperimentiamo qualunque azione è compiuta dalla nostra mente, parola e corpo come azioni compiute da noi stessi, e quindi non possiamo distinguere in quale misura ciascuna delle nostre azioni è guidata dal nostro destino o dal nostro libero arbitrio. Quindi dobbiamo accettare la responsabilità morale per qualunque scelta facciamo e qualunque azione sembriamo fare attraverso questi tre strumenti, e quindi dovremmo cercare più possibile di rispettare certi semplici niyama (restrizioni o contenimenti) come ahiṁsā (evitare di causare danno a ogni essere vivente) e mita sāttvika āhāra-niyama (il contenimento di consumare solo cibo sattvico in quantità moderate), riguardo alle quali Bhagavan ha scritto nella frase finale del nono paragrafo di Nāṉ Yār?:
எல்லா நியமங்களிலுஞ் சிறந்த மித ஸாத்விக ஆகார நியமத்தால் மனத்தின் சத்வ குணம் விருத்தியாகி, ஆத்மவிசாரத்திற்கு சகாய முண்டாகிறது.

ellā niyamaṅgaḷilum siṟanda mita sātvika āhāra niyamattāl maṉattiṉ satva guṇam virutti-y-āhi, ātma-vicārattiṟku sahāyam uṇḍāgiṟadu.

Per mezzo di mita sāttvika āhāra-niyama, che è la migliore tra tutte le restrizioni, il sattva-guṇa [la qualità della mente di ‘essere-ità’, calma e chiarezza, aumenterà e [di conseguenza] sorgerà l’aiuto per ātma-vicāra [auto-investigazione].
Sebbene abbiamo una responsabilità morale di rispettare restrizioni come ahiṁsā e mita sāttvika āhāra-niyama, la moralità non è la ragione principale per seguirle se il nostro fine è rivolgerci all’interno per vedere ciò che siamo realmente, perché saremo in grado di rivolgerci all’interno solo nella misura in cui la nostra mente è libera da viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā e quindi il vairāgya deve resistere da essere trascinato all’esterno da esse, e aderire sinceramente a tali restrizioni (niyama) può essere un mezzo effettivo non solo per frenare e indebolire queste vāsanā almeno in un certa misura ma anche per rafforzare il nostro vairāgya. Questo è il motivo per cui Bhagavan dice che per mezzo di mita sāttvika āhāra-niyama ‘மனத்தின் சத்வ குணம் விருத்தியாகும்’ (maṉattiṉ satva guṇam virutti-y-āhum), ‘il sattva-guṇa della mente aumenterà’, perché queste vāsanā sono ciò che oscura il sattva-guṇa che sempre esiste nel profondo del nostro cuore.

Se non fosse nel nostro potere scegliere o almeno cercare di rispettare questa semplice restrizione di consumare solo mita sāttvika āhāra (cibo sattvico in quantità moderate), sembra inverosimile che Bhagavan l’abbia raccomandata in modo così inequivocabile come un aiuto per ātma-vicāra. Quindi anche se crediamo che tutte le nostre azioni sono determinate solo dal prārabdha, come alcuni aspiranti sembrano credere, non sarebbe saggio da parte nostra non cercare di seguire il suo chiaro consiglio a questo riguardo, perché non possiamo conoscere in anticipo quale sarà il nostro prārabdha, e quindi non dovremmo presupporre che esso ci spinge a mangiare carne o ogni altro tipo di cibo che causa danno (hiṁsā) sia ad altri che alla nostra mente e corpo.

5. Upadēśa Undiyār verso 2: la causa della schiavitù non è il destino ma le vāsanā, che appartengono solo al dominio del libero arbitrio

Tuttavia, se crediamo che tutte le nostre azioni sono determinate solo dal prārabdha, questo mostra che non abbiamo compreso correttamente il concetto di prārabdha, perché non è il solo karma ma uno dei tre karma, e consiste di karma-phala, il frutto di azioni che abbiamo compiuto nel passato secondo la nostra volontà (vale a dire āgāmya). Dei tre karma, sañcita è solo un deposito di karma-phala che non sono stati ancora selezionati da Dio o il guru per essere sperimentati da noi, così non è mai un karma attivo e quindi i soli due karma che sono attivi sono āgāmya e prārabdha, ed essi sono sempre attivi finché l’ego sembra esistere.

Finché permettiamo alla nostra mente di rivolgersi all’esterno, lontano da noi stessi e verso altre cose, non possiamo evitare di avere preferenze e avversioni, così cercheremo naturalmente di sperimentare fenomeni che troviamo piacevoli e di evitare di sperimentare quelli che troviamo spiacevoli. Possiamo cercare di frenare le nostre preferenze e avversioni e quindi ridurre il pravṛtti o flusso esteriorizzante della nostra mente, e in questo modo possiamo ridurre in una certa misura la quantità di āgāmya che stiamo attualmente facendo, ma non possiamo evitare di compiere completamente āgāmya tranne che rivolgendo la nostra attenzione interiormente per essere consapevoli soltanto di noi stessi.

Nella misura in cui permettiamo alla nostra mente di fluire esteriormente, in quella misura staremo compiendo āgāmya di un tipo o un altro, perché una mente rivolta all’esterno starà sempre vagando sotto l’influenza delle sue viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā, che sono i semi che fanno sorgere āgāmya. Tuttavia, poiché compiere āgāmya appartiene al dominio del libero arbitrio e non al dominio del destino, qualunque āgāmya possiamo compiere non cambierà in alcun modo qualunque cosa siamo destinati a sperimentare, e qualunque cosa siamo destinati a sperimentare non ci forzerà a compiere alcun āgāmya che non scegliamo di compiere.

I risultati di ogni āgāmya che compiamo sono di due tipi: il frutto, che è ciò più tardi sperimenteremo come prārabdha (sebbene il prārabdha non è mai il frutto di āgāmya compiuto nella vita attuale ma solo il frutto di āgāmya compiuto nelle vite precedenti), e i semi, che sono le karma-vāsanā, e sono questi semi che ci tengono immersi nel grande oceano del karma spingendoci a compiere ulteriore āgāmya, come Bhagavan spiega nel verso 2 di Upadēśa Undiyār:
வினையின் விளைவு விளிவுற்று வித்தாய்
வினைக்கடல் வீழ்த்திடு முந்தீபற
வீடு தரலிலை யுந்தீபற.

viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivuṯṟu vittāy
viṉaikkaḍal vīṙttiḍu mundīpaṟa
vīḍu taralilai yundīpaṟa
.

பதச்சேதம்: வினையின் விளைவு விளிவு உற்று வித்தாய் வினை கடல் வீழ்த்திடும். வீடு தரல் இலை.

Padacchēdam (separazione delle parole): viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivu uṯṟu vittāy viṉai-kaḍal vīṙttiḍum. vīḍu taral ilai.

Traduzione: Essendo finito il frutto dell’azione, come semi esso causa la caduta nell’oceano dell’azione. Non è dare la liberazione.

Traduzione parafrasata: Il frutto dell’azione essendo finito [rimane] come semi [e di conseguenza] causa la caduta nell’oceano dell’azione. [Quindi] essa [l’azione] non dà la liberazione.
‘வினையின் விளைவு விளிவு உற்று’ (viṉaiyiṉ viḷaivu viḷivu uṯṟu) significa ‘essendo finito [morto o cessato] il frutto dell’azione’, e si riferisce al fatto che proprio come un frutto cesserà di esistere quando lo mangiamo, il frutto di ogni azione passata cesserà di esistere quando lo sperimentiamo come parte del nostro prārabdha. Tuttavia ogni āgāmya che compiamo non produce solo un frutto ma anche un seme, così quando il frutto di un particolare āgāmya è stato sperimentato e quindi ha cessato di esistere, il seme prodotto da esso rimarrà e ci spingerà a compiere lo stesso tipo di āgāmya ancora ed ancora, come Bhagavan spiega dicendo ‘வித்தாய் வினை கடல் வீழ்த்திடும்’ (vittāy viṉai-kaḍal vīṙttiḍum), che significa ‘come seme esso causa la caduta nell’oceano dell’azione’.

I semi che sono prodotti da āgāmya sono karma-vāsanā [e le loro corrispondenti viṣaya-vāsanā), che ci spingono a compiere azioni ancora ed ancora, così āgāmya è auto-perpetuante, proprio come le piante sono auto-perpetuanti a causa dei semi che producono. Quindi non importa quanto prārabdha possiamo sperimentare vita dopo vita (sogno dopo sogno), non possiamo mai esaurire tutti i frutti del nostro āgāmya passato, perché mentre stiamo sperimentando qualcuno dei loro frutti, le nostre karma-vāsanā ci spingeranno a compiere ancora più āgāmya, producendo quindi più frutti da aggiungere all’enorme cumulo di frutti che sono già immagazzinati nel nostro sañcita per essere sperimentati come prārabdha in qualche vita futura.

Poiché il karma è quindi auto-perpetuante, Bhagavan dice ‘வீடு தரல் இலை’ (vīḍu taral ilai), ‘esso non dà la liberazione’, e nella versione Sanscrita di questo verso egli dice anche più enfaticamente, ‘गति निरोधकम्’ (gati nirōdhakam), ‘esso ostruisce la liberazione’. Cioè, il karma non dà la liberazione perché è auto-perpetuante, ed è tale a causa dei suoi semi, vale a dire le karma-vāsanā. Quindi la causa di schiavitù non è il destino (prārabdha) ma solo le vāsanā, sulle quali il destino non ha giurisdizione, perché esse appartengono solo al dominio del libero arbitrio.

Poiché tutte le vāsanā rientrano nella sola giurisdizione del nostro libero arbitrio, possiamo usare il nostro libero arbitrio o per coltivare, nutrire e rafforzare le nostre viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā permettendo alla nostra mente di andare all’esterno e di coinvolgersi nel karma attraverso i tre strumenti di mente, parola e corpo, o affamarle e indebolirle e simultaneamente coltivare, nutrire e rafforzare la nostra sat-vāsanā dirigendo la nostra mente all’interno per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, vale a dire come pura auto-consapevolezza – consapevolezza che non è consapevole di niente altro che sé stessa.

Quindi solo il libero arbitrio è la causa sia della schiavitù (l’esistenza apparente del nostro ego) che della liberazione (lo sradicamento o dissoluzione permanente del nostro ego). Se usiamo impropriamente il nostro libero arbitrio permettendo alla nostra mente di andare all’esterno, lontano da noi stessi e verso altre cose, questo sosterrà il nostro ego e quindi ci legherà nella rete del karma, mentre se lo usiamo saggiamente rivolgendo la nostra mente all’interno per guardare solo noi stessi e quindi per vedere ciò che siamo realmente, questo dissolverà il nostro ego e la nostra mente per sempre, nella chiarezza assoluta della pura auto-consapevolezza. L’uso improprio che facciamo del nostro libero arbitrio è chiamato desiderio, mentre l’uso saggio e corretto di esso è vero amore – amore per ciò che solo è reale, vale a dire la pura auto-consapevolezza o ātma-jñāna.

6. La nota di Bhagavan per sua madre: solo ciò che è destinato ad accadere accadrà, e sebbene non può essere cambiato siamo liberi di cercare di cambiarlo

Finché siamo legati nella rete del karma, destino e libero arbitrio operano fianco a fianco nella nostra vita, ognuno nel proprio dominio, come inteso da Bhagavan nella nota che ha scritto per sua madre nel Dicembre 1898:
அவரவர் பிராரப்தப் பிரகாரம் அதற்கானவன் ஆங்காங்கிருந் தாட்டுவிப்பன். என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது; நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது. இதுவே திண்ணம். ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று.

avar-avar prārabdha-p prakāram adaṟkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ. eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu. iduvē tiṇṇam. āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu.

Secondo il loro-loro prārabdha, egli che è per quell’essere lì-lì causerà di danzare [cioè, secondo il destino (prārabdha) di ogni persona, egli che è per quello (vale a dire Dio o il guru, che ordina il loro destino) essendo nel cuore di ciascuno di essi li farà agire]. Ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo si fa [per farlo accadere]; ciò che deve accadere non si fermerà qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa [per impedire che ciò accada]. Questo è davvero certo. Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono.
Qualunque cosa è destinata ad accadere nella nostra vita come questo ego accadrà, e qualunque cosa non è destinata ad accadere non accadrà. Tuttavia, questo non significa che il nostro libero arbitrio non ha ruolo da svolgere nelle azioni che noi compiamo con mente, parola e corpo, come Bhagavan indica chiaramente dicendo ‘என் முயற்சிக்கினும்’ (eṉ muyaṟcikkiṉum), ‘qualunque sforzo uno fa’, e ‘என் தடை செய்யினும்’ (eṉ taḍai seyyiṉum), ‘qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa’.

Cioè, sebbene non siamo liberi di far accadere qualcosa che non è destinata ad accadere, o di impedire qualcosa che è destinata ad accadere, siamo liberi di volere e di cercare di farlo, e finché non arrendiamo interamente la nostra volontà insieme con la sua radice, il nostro ego, inevitabilmente vorremo e cercheremo di farlo più o meno intensamente. Tuttavia, il nostro cercare o anche voler farlo è un uso improprio del nostro libero arbitrio, così dovremmo cercare di evitare di usarlo impropriamente solo rivolgendo la nostra attenzione all’interno per fonderci e dissolverci per sempre nella nostra sorgente, che è ātma-svarūpa (la nostra vera natura), la pura auto-consapevolezza che siamo realmente.

Alcune persone che non hanno considerato il significato di questa nota abbastanza attentamente discutono che poiché Bhagavan ha detto che ciò che è destinato ad accadere accadrà certamente e ciò che non è destinato ad accadere certamente non accadrà, egli intendeva che non abbiamo libero arbitrio, o almeno che non abbiamo la libertà di agire come vogliamo. Una tale affermazione equivale ad affermare che in tutto ciò che pensiamo, diciamo o facciamo (incluse tutte le scelte e gli sforzi che facciamo) il destino prevarrà sempre sul libero arbitrio, così poiché Bhagavan ha sminuito questa disputa nel verso 19 di Uḷḷadu Nāṟpadu dicendo che è solo per coloro che non sono in grado di discernere la radice sia del destino che del libero arbitrio, vale a dire l’ego, che chiaramente non è ciò che egli intendeva che noi deducessimo. In effetti, riferendosi due volte all’ego come la radice, il fondamento o base di destino e libero arbitrio in questo verso, egli chiaramente intendeva che il destino e il libero arbitrio sono entrambi reali quanto l’ego, solo per il quale essi esistono.

Se tutto ciò che pensiamo, diciamo o facciamo (includendo tutte le scelte e gli sforzi che facciamo) fosse determinato solo dal destino e non dal libero arbitrio, questo significherebbe che non abbiamo assolutamente libertà di compiere qualsiasi pratica spirituale per mezzo della nostra volontà, e che qualsiasi pratica spirituale che possiamo compiere sarebbe quindi guidata solo dal destino e non dal nostro libero arbitrio. Se fosse così non saremmo mai in grado di ottenere la liberazione, perché il destino (che è ciò che è altrimenti chiamato prārabdha) è uno dei tre karma, e nessun karma può dare la liberazione, come Bhagavan spiega nel verso 2 di Upadēśa Undiyār.

Il libero arbitrio è la base di tutto il karma. Perché è solo per mezzo del nostro libero arbitrio che compiamo āgāmya, e gli altri due karma, vale a dire sañcita e prārabdha, consistono solo dei frutti di āgāmya che abbiamo fatto nel passato. Quindi senza libero arbitrio non ci sarebbe destino (prārabdha), perciò se affermiamo che c’è solo il destino e mai alcun libero arbitrio, sarebbe come affermare che un bambino esiste ma sua madre non è mai esistita.

Il libero arbitrio è la base non solo di tutto il karma ma anche della liberazione da tutto il karma, perché quando usiamo il nostro libero arbitrio per guardare all’esterno, a causa di questo sorgiamo come questo ego, che solo compie āgāmya e quindi sperimenta prārabdha, mentre quando usiamo il nostro libero arbitrio per guardare all’interno, a causa di questo sprofondiamo e dissolviamo questo ego nella pura auto-consapevolezza da cui è sorto. Quindi siamo liberi di scegliere se guardare esteriormente e di conseguenza compiere āgāmya e sperimentare prārabdha, o guardare interiormente e di conseguenza rimanere silenti, senza sorgere a fare o sperimentare qualsiasi cosa.

Se consideriamo attentamente tutto ciò che Bhagavan ha scritto in questa nota per sua madre, saremo in grado di vedere che egli non sta negando l’esistenza del libero arbitrio ma sta effettivamente enfatizzando l’importanza di usarla correttamente, perché solo quando facciamo così eviteremo di usarlo impropriamente come generalmente facciamo. Nella seconda e terza frase di questa nota egli ha scritto: ‘என்றும் நடவாதது என் முயற்சிக்கினும் நடவாது; நடப்ப தென்றடை செய்யினும் நில்லாது’ (eṉḏṟum naḍavādadu eṉ muyaṟcikkiṉum naḍavādu; naḍappadu eṉ taḍai seyyiṉum nillādu), che significa ‘Ciò che non deve accadere non accadrà qualunque sforzo uno fa; ciò che deve accadere non si fermerà qualunque ostruzione [o resistenza] uno fa’. நடவாதது (naḍavādadu) significa letteralmente ‘ciò che non accadrà’, che in questo contesto implica ‘ciò che non deve accadere’, e நடப்பது (naḍappadu) significa letteralmente ‘ciò che accadrà’, che in questo contesto implica ‘ciò che deve accadere’, così ciò che egli intende qui è che qualunque cosa è destinata ad accadere accadrà e qualunque cosa non è destinata ad accadere non accadrà.

Cioè, ciò che è determinato dal prārabdha è qualunque cosa dobbiamo sperimentare finché la nostra attenzione è rivolta all’esterno, lontano da noi stessi. Tuttavia, al fine di sperimentare qualunque cosa siamo destinati a sperimentare, ci sono certe azioni che dobbiamo compiere con la nostra mente, parola e corpo, così il prārabdha ci spingerà a compiere quelle azioni, come Bhagavan ha spiegato nella prima frase di questa nota, vale a dire ‘அவரவர் பிராரப்தப் பிரகாரம் அதற்கானவன் ஆங்காங்கிருந் தாட்டுவிப்பன்’ (avar-avar prārabdha-p prakāram adaṟkāṉavaṉ āṅgāṅgu irundu āṭṭuvippaṉ), che significa ‘Secondo il loro-loro prārabdha, egli che è per quell’essere lì-lì causerà di danzare’, e che implica che secondo il destino di ogni persona, egli che è per quello (vale a dire Dio o il guru, che ordina il loro destino) essendo nel cuore di ciascuno di essi li farà agire.

Tuttavia, questo non significa che tutte le azioni che compiamo con la nostra mente, parola e corpo sono guidate unicamente dal prārabdha, come egli indica nelle due frasi successive dicendo ‘என் முயற்சிக்கினும்’ (eṉ muyaṟcikkiṉum), ‘qualunque sforzo uno compie’, e ‘என் தடை செய்யினும்’ (eṉ taḍai seyyiṉum), ‘qualunque ostruzione [o resistenza] uno fa’. Cioè, sebbene alla nostra mente, parola e corpo sarà fatto fare qualunque cosa essi sono destinati a fare, siamo anche liberi di fare sforzo attraverso questi tre strumenti per far accadere ciò che non è destinato di accadere e per impedire ciò che deve accadere, anche se tali sforzi falliranno certamente, perché ciò che è destinato a non accadere non accadrà, e ciò che è destinato ad accadere accadrà. ‘இதுவே திண்ணம்’ (iduvē tiṇṇam), ‘Questo è davvero certo’, come egli dice nella frase successiva.

Gli sforzi che compiamo per far accadere certe cose, anche se sono destinate a non accadere, e per impedire di accadere certe altre cose, anche se sono destinate ad accadere, sono guidati dal nostro libero arbitrio. Tuttavia il nostro libero arbitrio ci guida anche a fare sforzi per far accadere certe cose che sono comunque destinate ad accadere, e a impedire di accadere a certe altre cose che sono comunque destinate a non accadere, così in alcuni casi il nostro libero arbitrio ci guiderà a fare sforzi che sono opposti al prārabdha e in altri casi ci guida a fare sforzi che sono in accordo con il prārabdha.

Poiché non possiamo mai essere realmente contenti e soddisfatti della nostra vita come un ego limitato, il nostro libero arbitrio ci obbliga costantemente a fare sforzo di un tipo o un altro. Se ogni sforzo obbligato dal nostro libero arbitrio è diretto verso qualsiasi cosa diversa da noi stessi, è āgāmya e di conseguenza produce frutto (karma-phala) e semi (karma-vāsanā), perciò tale sforzo è un uso improprio del nostro libero arbitrio. Il solo uso corretto del nostro libero arbitrio è quello di rivolgere la nostra mente all’interno per essere consapevoli soltanto di noi stessi, perché guardando verso qualsiasi altra cosa (bahirmukham) nutriremo e sosterremo il nostro ego e il suo senso di essere l’agente, mentre guardare verso noi stessi (ahamukham) lo farà sprofondare e dissolvere nella sua sorgente, vale a dire la pura auto-consapevolezza, che è la nostra reale natura (ātma-svarūpa).

Questo è ciò che Bhagavan intende nella frase finale di questa nota, , ‘ஆகலின் மௌனமா யிருக்கை நன்று’ (āhaliṉ mauṉamāy irukkai naṉḏṟu), che significa ‘Quindi essere silenziosamente [o essere silenti] è buono’. Finché diamo attenzione a qualsiasi cosa diversa da noi stessi, stiamo di conseguenza alimentando il nostro ego e sostenendo la sua esistenza apparente, così poiché il sorgere e l’attività dell’ego sono la vera antitesi del silenzio reale (mauna), che è la nostra reale natura, possiamo essere realmente silenti solo essendo accuratamente auto-attentivi, dominando il sorgere e l’attività del nostro ego.

Se non avessimo libero arbitrio, non saremmo liberi di scegliere o di fare sforzo per rivolgerci all’interno ed essere auto-attentivi, ma poiché abbiamo libero arbitrio possiamo scegliere e fare sforzo per fare questo, come Bhagavan intende in questa nota. Se d’altra parte scegliamo di non fare questo, vagheremo all’esterno sotto l’influenza delle nostre vāsanā, e sebbene possiamo scegliere di limitare la misura in cui permettiamo a noi stessi di essere influenzati da esse, ci costringeranno inevitabilmente a compiere āgāmya in misura maggiore o minore.

Come questo si applica a questioni etiche come scegliere o meno di mangiare carne? Anche se affermiamo di credere che tali scelte sono tutte determinate solo dal prārabdha, se siamo onesti con noi stessi dovremo ammettere che sembriamo avere una scelta. Cioè, sembriamo essere in grado di scegliere se mangiare carne o no, se commettere omicidi o no, e se compiere numerose altre azioni o no. Finché sembriamo avere tali scelte, abbiamo una responsabilità morale di scegliere di agire eticamente, che comporta cercare per quanto possibile di evitare di causare qualche danno a qualsiasi altro essere vivente.

Finché abbiamo un senso di essere l’agente (kartṛtva buddhi) non possiamo negare tale responsabilità per le nostre azioni, e finché sperimentiamo noi stessi come questo ego, che sempre confonde un corpo e una mente come sé stesso, non possiamo negare di avere un senso di essere l’agente. Fare una certa azione può essere il nostro destino, ma finché sperimentiamo noi stessi come il corpo o mente che compie quella azione, la sperimenteremo come se noi la stessimo facendo, e se abbiamo qualche desiderio o propensione a farla o a sperimentare il suo risultato, significa essere guidati non solo dal nostro destino ma anche simultaneamente dal nostro libero arbitrio.

7. Coloro che hanno registrato ciò che Bhagavan ha detto in risposta a domande su destino e libero arbitrio spesso non sono riusciti ad afferrare le sfumature nelle sue risposte

In connessione a questo spesso le persone citano (come ha fatto un amico anonimo in uno dei commenti al mio articolo precedente) ciò che Devaraja Mudaliar ha registrato delle risposte che Bhagavan gli ha dato a sue domande se anche azioni irrilevanti nella nostra vita sono predeterminate. Egli ha effettivamente registrato questo in due posti, primariamente in Day by Day with Bhagavan e successivamente in My Recollections of Bhagavan Sri Ramana. Ciò che egli ha registrato in Day by Day (4-1-46 Pomeriggio: Edizione 1989, pagina 78, edizione 2002, pagine 91-2) è:
In riferimento alla risposta di Bhagavan alla domanda di Mrs. Desai nel pomeriggio del 3-1-46 [vale a dire ‘Ciò che è destinato ad essere opera fatta da te in questa vita sarà fatto da te, che ti piaccia o no. […] È vero che l’opera destinata ad essere fatta da noi sarà fatta da noi. Ma possiamo essere liberi dalle gioie o dai dolori, dalle conseguenze piacevoli o spiacevoli dell’opera, non identificando noi stessi con il corpo o quello che compie l’opera. Se realizzi la tua vera natura e conosci che non sei tu a compiere qualsiasi opera, non sarai condizionata dalle conseguenze di qualunque opera in cui il corpo può essere impegnato secondo il destino o il karma passato o il piano divino, in qualunque modo tu lo possa chiamare. Sei sempre libera e non c’è limite a quella libertà], ho chiesto a lui, “Sono solo gli eventi importanti nella vita di un uomo, come la sua occupazione o professione principale, ad essere predeterminati, o sono predeterminate anche azioni insignificanti della nostra vita, come bere una tazza d’acqua o muoversi da un punto a un altro della stanza?” Bhagavan: Si, ogni cosa è predeterminata. I: Allora quale responsabilità, quale libero arbitrio ha l’uomo? Bhagavan: Allora per cosa il corpo viene all’esistenza? È designato per fare le varie cose destinate ad essere eseguire in questa vita. L’intero programma è segnato. ‘அவனன்றி ஓரணுவும் அசையாது’ [avaṉ-aṉḏṟi ōr aṇuvum asaiyādu] (Non un atomo si muove al di fuori della Sua Volontà) esprime la stessa verità, sia che tu dica அவனன்றி அசையாது [avaṉ-aṉḏṟi asaiyādu] (Non si muove al di fuori della Sua Volontà) o che tu dica கர்மமின்றி அசையாது [karmam-iṉḏṟi asaiyādu] (Non si muove al di fuori del karma). Per quanto riguarda la libertà dell’uomo, egli è sempre libero di non identificare sé stesso con il corpo e di non essere condizionato dalle conseguenze piacevoli o spiacevoli delle attività del corpo.
In My Recollections (Capitolo 4: edizione 1992, pagine 90-1) egli ha registrato la stessa conversazione come segue:
Un pomeriggio estivo ero seduto di fronte a Bhagavan nella sala vecchia, con un ventaglio in mano, e ho detto a lui: “Posso comprendere che gli eventi di spicco della vita di un uomo, come il suo paese, la nazionalità, la famiglia, la carriera o professione, il matrimonio, la morte ecc. sono tutti predeterminati dal suo karma, ma può essere che tutti i dettagli della sua vita, fino ai più piccoli, sono stati già predeterminati? Ora, per esempio, metto qui a terra questo ventaglio che ho in mano. Può essere che era già deciso che nel tal giorno, a tale ora, io muovessi questo ventaglio e lo posassi qui? Bhagavan ha risposto “Certamente”. Ha continuato: “Qualunque cosa questo corpo fa e qualunque esperienza attraversa era già decisa quando esso ha avuto origine”. A quel punto ho naturalmente esclamato: “Cosa né allora della libertà dell’uomo e della responsabilità delle sue azioni?” Bhagavan ha spiegato: “La sola libertà che l’uomo ha è di sforzarsi di acquisire il jnana che lo renderà in grado di non identificarsi con il corpo. Il corpo attraverserà le azioni rese inevitabili dal Prarabdha (destino basato sul bilancio delle vite passate) e un uomo è libero o di identificarsi con il corpo ed essere attaccato ai frutti delle sue azioni, o di essere distaccato da esso ed essere un puro testimone delle sue attività”.
Poiché la formulazione due queste due registrazioni della stessa conversazione è così differente, ciò che Devaraja Mudaliar ha registrato in ciascuno di questi libri non sono le esatte parole di Bhagavan ma solo la sostanza di esse, così non possiamo essere sicuri di ciò che egli ha detto esattamente in quell’occasione. Sebbene Devaraja Mudaliar ha scritto ‘io sono sicuro di non aver fatto errori nel trasmettere come sopra la sostanza della conversazione che ha avuto luogo tra Bhagavan e me’ (My Recollections, pagina 91), e sebbene non dubitava di aver registrato fedelmente ciò che ricordava delle parole di Bhagavan, egli è stato in grado di ricordarle solo fino a dove è stato in grado di comprenderle, così se la sua comprensione non era abbastanza sottile, non sarebbe stato in grado di afferrare tutte le sfumature nella risposta di Bhagavan, come sembra essere stato qui.

Ciò che egli ha registrato in entrambi i libri corrisponde in una certa misura con ciò che Bhagavan ha scritto nella sua nota per sua madre, vale a dire che ci sarà fatto fare qualunque cosa siamo destinati a fare, e che ciò che non è destinato ad accadere non accadrà per quanto sforzo possiamo fare, e ciò che è destinato ad accadere non si fermerà per quanto possiamo cercare di impedirlo. Nella misura in cui ciò che Devaraja Mudaliar ha registrato è in accordo con questo, può riflettere con precisione la sostanza di qualunque cosa Bhagavan ha detto in quella occasione, ma molte persone comprendono molto più di questo in ciò che egli ha registrato, cioè che non abbiamo alcuna libertà di fare alcuna azione o compiere alcuno sforzo diretto esteriormente per nostra volontà o volizione, che è chiaramente non ciò che Bhagavan intendeva, perché se fosse così questo contraddirebbe prima di tutto la chiara implicazione della proposizione ‘என் முயற்சிக்கினும்’ (eṉ muyaṟcikkiṉum), ‘qualunque sforzo uno compie’, e ‘என் தடை செய்யினும்’ (eṉ taḍai seyyiṉum), ‘qualunque ostacolo [o resistenza] uno fa’, nella sua nota per sua madre, e in secondo luogo significherebbe che non possiamo compiere āgāmya (nuovo karma guidato dal nostro libero arbitrio), che renderebbe la teoria del karma insegnata da Bhagavan priva di significato, perché secondo questa teoria qualunque cosa sperimentiamo come prārabdha è il frutto di āgāmya che abbiamo compiuto nelle vite precedenti.

Questa interpretazione errata è ampiamente dovuta alla frase ‘La sola libertà che l’uomo a è di sforzarsi e acquisire il jnana che li metterà in grado di non identificarsi con il corpo’, che Devaraja Mudaliar ha registrato in My Recollections, pagina 90. Logicamente questa non può essere la sola libertà che abbiamo, perché se siamo liberi di sforzarci e acquisire jñāna (conoscenza o consapevolezza della nostra reale natura) e quindi di non identificare noi stessi con alcun corpo o mente, dobbiamo ugualmente essere liberi di scegliere di non farlo. Ciò che Bhagavan ha detto realmente in molte occasioni riguardo a questo è che il solo uso corretto che possiamo fare del nostro libero arbitrio è di cercare di rivolgerci all’interno e di conseguenza arrendere il nostro ego (che è ciò che oscura la nostra reale natura, che è jñāna o pura auto-consapevolezza), così ciò che egli ha detto in questa occasione sarà stato probabilmente qualcosa di questo effetto.

Il fatto che sforzarci per jñāna non è la sola libertà che abbiamo è inteso dalla frase successiva in My Recollections, in cui Devaraja Mudaliar registra che Bhagavan ha detto: ‘un uomo è libero o di identificare sé stesso con il corpo e di essere attaccato ai frutti delle sue azioni, o di essere distaccato da esso ed essere un puro testimone delle sue attività’. La scelta è nostra: siamo sempre liberi di scegliere se rivolgerci all’interno per cercare di vedere ciò che siamo realmente e quindi sradicare il nostro ego, che è la falsa consapevolezza ‘io sono questo corpo’ (dēhātma-buddhi), o di permettere alla nostra mente di continuare a soffermarsi sui fenomeni, che sono tutti esterni a noi stessi, e quindi di sostenere la nostra dēhātma-buddhi e sperimentare tutti ‘i piaceri o dolori conseguenti alle attività del corpo’ (come Devarja Mudaliar registra come parole di Bhagavan nel passaggio sopra in Day by Day).

Questa è la scelta fondamentale che abbiamo: cercare di essere auto-attentivi per vedere ciò che siamo realmente, o dare attenzione ad altre cose per sperimentare i futili piaceri (e conseguenti dolori) che ne possiamo derivare. La scelta di essere auto-attentivi è singola e semplice, mentre la scelta opposta è sfaccettata, perché se scegliamo di dare attenzione ad altre cose ci troviamo di fronte ad innumerevoli altre scelte: se dare attenzione o fare questo, quello o l’altro.

Sebbene Bhagavan generalmente enfatizzava il fatto che siamo sempre liberi di rivolgere la nostra attenzione interiormente per essere consapevoli di noi stessi come siamo realmente, che è il solo mezzo con cui possiamo evitare di sperimentare noi stessi come il corpo e la mente e quindi di identificare le loro azioni come azioni fatte da noi, ha fatto questo perché questo è il solo uso corretto che possiamo fare del nostro libero arbitrio, e non perché intendeva farci dedurre che non possiamo usare il nostro libero arbitrio per fare (o almeno cercare di fare) qualsiasi azione con mente, parola e corpo.

Come spesso egli sottolineava ogni volta che gli venivano poste domande come se c’è libero arbitrio, o se abbiamo qualche libertà di fare quello che scegliamo, in tutti gli insegnamenti spirituali e le istruzioni morali è premesso il fatto che abbiamo libero arbitrio e possiamo di conseguenza scegliere ciò che vogliamo fare e cercare di farlo, e se non avessimo tale libertà tutti gli insegnamenti e le istruzioni sarebbero inutili e senza valore. Per esempio, nella sezione 426 di Talks with Sri Ramana Maharshi (edizione 1978, pagina 393; edizione 2006, pagina 409) è registrato che in risposta a qualcuno che ha chiesto se una persona ha qualche libero arbitrio o se ogni cosa nella propria vita è predestinata egli ha detto qualcosa di questo effetto:
Il Libero-Arbitrio tiene il campo in associazione con l’individualità. Finché l’individualità dura c’è Libero-Arbitrio. Tutti i sastra sono basati su questo fatto e consigliano di dirigere il Libero-Arbitrio nel giusto canale. Scopri a chi importa il Libero-Arbitrio o il Destino. Dimora in esso. Allora questi due sono trascesi. Questo è il solo scopo di discutere queste domande. A chi sorgono queste domande? Scoprilo e sii in pace.
Se la sola libertà che abbiamo fosse di rivolgerci esteriormente e di conseguenza sperimentare qualunque prārabdha ci è stato assegnato o rivolgerci indietro verso noi stessi, tutti i śāstra (testi spirituali, religiosi e morali) ci istruirebbero solo a rivolgerci all’interno, ma questa non è la sola istruzione che essi danno, perché gli autori di questi testi sapevano prima di tutto che molti di noi non sono ancora disposti a cercare di rivolgersi all’interno, e in secondo luogo che finché ci rivolgiamo all’esterno possiamo fare altre scelte, come mangiare carne o no o fare numerose altre azioni moralmente significative, e le scelte che facciamo determinano la purezza o l’impurità della nostra mente (che dipende dalla forza e intensità relative delle nostre viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā), così poiché solo una mente relativamente pura sarà disposta a cercare di rivolgersi interiormente, essi ci consigliano di scegliere di compiere azioni che tenderanno a purificare la nostra mente e di evitare quelle che tenderebbero a renderla meno pura.

8. Il nostro prārabdha è fatto per adattarsi sia alle nostre vāsanā sia alla nostra propensione di non permettere a noi stessi di essere dominati da esse

La comprensione di alcune persone del prārabdha è che esso è proprio come sedersi in un cinema a guardare un film, cosa di cui non abbiamo controllo tranne per chiudere gli occhi e le orecchie, mentre di fatto è più come giocare ad un ingannevole gioco da computer in cui sembriamo avere il controllo sulle azioni di uno dei personaggi, anche se tutto ciò che accade nel gioco è già predeterminato. Mentre guardiamo un film possiamo volere ardentemente che certi personaggi riescano nei loro tentativi mentre che altri falliscano, ma siamo chiaramente consapevoli che non possiamo fare niente per influenzare qualcosa che accade nel film perché è tutto predeterminato. Se giochiamo a un gioco da computer, d’altra parte, possiamo sembrar avere un certo grado di controllo su ciò che sta accadendo per mezzo del nostro essere in grado di dirigere le azioni di uno dei personaggi, ma se il gioco è stato programmato attentamente da qualcuno che conosce quali scelte è più probabile che facciamo in ogni situazione, ci darà l’impressione che le nostre scelte stanno influenzando ciò che sta accadendo, anche se di fatto è tutto predeterminato.

La nostra vita come una persona è come giocare a un gioco di computer abilmente programmato, che è stato fatto su misura per adattarsi alle nostre viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā, che influenzano le scelte che facciamo e le azioni che cerchiamo di fare. Il nostro prārabdha è la programmazione del gioco, e quello che lo ha programmato così abilmente è ciò che generalmente chiamiamo Dio, guru o Bhagavan, e ciò a cui Bhagavan si è riferito come ‘அதற்கானவன்’ (adaṟkāṉavaṉ), ‘egli che è per quello’, nella sua nota per sua madre.

Proprio come la persona che gioca un gioco da computer così fatto su misura è libera di fare scelte e di cercare di controllare o influenzare ciò che sta accadendo, noi siamo liberi di fare scelte e di cercare di controllare o almeno di influenzare ciò che sta accadendo nelle nostre vite, e proprio come il gioco è stato programmato per dare al giocatore l’impressione che le sue scelte e gli sforzi stanno realmente controllando o influenzando in qualche misura ciò che sta accadendo nel gioco, il nostro prārabdha è stato predeterminato in modo tale da darci l’impressione che le nostre scelte e gli sforzi stanno realmente controllando o influenzando in qualche misura ciò che sta accadendo nella nostra vita, perché è stato predeterminato da uno che conosce tutte le nostre vāsanā e quindi quali scelte molto probabilmente faremo in ogni particolare situazione.

Questo non significa che tutte le nostre scelte e sforzi sono stati predeterminati. Alcuni di essi possono essere stati predeterminati, perché possono essere necessari per il risultato del nostro prārabdha, ma non tutti sono stati predeterminati, e anche quelli che sono stati predeterminati probabilmente coincidono con le scelte e gli sforzi che comunque ci accade di compiere con il nostro libero arbitrio. Per esempio, se mangiamo carne, deve essere il nostro destino a farlo, ma se il nostro destino è tale, quasi certamente abbiamo vāsanā che ci rendono inclini a farlo, nel qual caso ci piacerà mangiare carne e godremo nel farlo, e quindi il nostro mangiare carne è spinto non solo dal nostro destino ma anche dal nostro libero arbitrio.

Questo è il caso con molte azioni che facciamo abitualmente. Sebbene è il nostro prārabdha a farci fare tali azioni, siamo anche spinti a farle dalle nostre vāsanā, che sono le nostre preferenze e avversioni, e che sono quindi formate da e sotto il controllo del nostro libero arbitrio. La ragione per cui le nostre vāsanā in questi casi coincidono con il nostro prārabdha è che quest’ultimo è stato scelto da ‘egli che è per quello’ (Dio, guru o Bhagavan) per corrispondere alle nostre vāsanā, o almeno ad alcune di esse.

Cioè, il prārabdha che ci è ordinato di sperimentare in ciascuna delle nostre vite non è solo una selezione casuale dagli innumerevoli frutti delle nostre azioni passate che sono state accumulate nel nostro sañcita, ma sono state selezionate attentamente ed espressamente per promuovere il nostro sviluppo spirituale, che significa che è stato scelto da ‘egli che è per quello’ considerando tutte le nostre vāsanā e il modo più efficace per aiutarci a superarle più velocemente possibile. Poiché possiamo superare e sradicare le nostre vāsanā solo scegliendo di non essere influenzati da esse quando sorgono alla superficie della nostra mente, e poiché particolari circostante esterne ed esperienze spingono particolari vāsanā a sorgere, ‘egli che è per quello’ ha ordinato il nostro prārabdha in modo tale che ciò che sperimentiamo spingerà il sorgere di quelle vāsanā che ora siamo abbastanza forti da superare e che ci sarebbe di grande beneficio superare. Quindi se permettiamo a noi stessi di essere influenzati da certe vāsanā, non dovremmo illuderci attribuendo ciò al prārabdha, ma dovremmo riconoscere che abbiamo la libertà di scegliere se permettere a noi stessi di essere influenzati da esse o no, e che spingendo queste vāsanā a sorgere il nostro prārabdha ci sta dando l’opportunità di fare questa scelta.

Poiché siamo giunti al sentiero di Bhagavan e abbiamo da lui imparato l’importanza di non mangiare carne, molti di noi si spera che non mangino carne, anche se possiamo essere nati in una famiglia o una cultura che mangia carne e di conseguenza abbiamo mangiato carne nel passato. Se abbiamo mangiato carne nel passato, probabilmente avevamo alcune inclinazioni residue (vāsanā) a farlo, così il prārabdha della prima parte della nostra vita avrebbe causato il nostro essere mangiatori di carne, ma quella inclinazione probabilmente non era molto forte, e quindi siamo stati facilmente in grado di rinunciarvi quando siamo giunti a comprendere, dalle parole di Bhagavan o per qualche altro mezzo, che è sbagliato farlo. Sia il nostro mangiare carne nel passato che il nostro non mangiare carne ora sono in accordo con il nostro prārabdha, ma un tale prārabdha è stato scelto per noi a causa delle nostre inclinazioni residue a mangiare carne e a causa della nostra disponibilità a dominare quella inclinazione e quindi rinunciare a mangiare carne appena siamo giunti a comprendere che era sbagliato.

Il fatto che il prārabdha di ciascun individuo è fatto su misura per eguagliare certe vāsanā può essere compreso dal fatto che se abitualmente facciamo qualche azione siamo generalmente inclini a farla e a godere nel farla. Per esempio, ci sono mangiatori di carne abituali che non lo fanno volontariamente e non derivano qualche piacere dal farlo? Ce ne possono essere un po’, ma devono essere molto rari, e molti di quei rari casi sarebbero persone le cui circostanze non danno loro che la scelta di magiare carne.

Quindi, finché le nostre circostanze sembrano permetterci di scegliere cosa mangiare, dopo che siamo giunti a Bhagavan e imparato da lui che mangiare carne è sbagliato, sia da una prospettiva etica che spirituale, se nondimeno continuiamo a mangiare carne non dovremmo considerare che facciamo questo solo secondo il nostro prārabdha, ma dovremmo riconoscere che ancora abbiamo forti vāsanā a mangiare carne e a gioirne mangiandola. Cioè, se mangiamo carne, è il nostro prārabdha a farlo, ma questo prārabdha ci è stato assegnato perché abbiamo tali vāsanā e non siamo ancora disposti a dominarle non permettendo a noi stessi di essere influenzati da esse.

9. Nāṉ Yār? paragrafi 10 e 11: essere auto-attentivi richiede vairāgya, che comporta non essere dominati dalle nostre viṣaya-vāsanā

La ragione per cui Bhagavan ci ha insegnato che ogni cosa che accade nella nostra vita è secondo il prārabdha è solo per aiutarci a rinunciare ad interessarci con questioni esteriori e rivolgerci all’interno per investigare ciò che siamo realmente. Egli non intendeva questo nel significato che dovremmo permettere a noi stessi di essere influenzati da qualunque vāsanā sorge alla superficie della nostra mente, credendo che è il prārabdha piuttosto che il nostro libero arbitrio che ci sta facendo fare questo, perché non possiamo rivolgerci all’interno finché permettiamo a noi stessi di essere influenzati da esse, poiché ogni vāsanā diversa da sat-vāsanā è un’inclinazione o impulso a guardare esteriormente. Quindi non dovremmo interessarci a qualunque prārabdha siamo destinati a sperimentare, ma dovremmo essere interessati a non permettere a noi stessi di essere influenzati da qualunque vāsanā può sorgere nella nostra mente.

Il bisogno imperativo per noi di non essere influenzati da qualunque vāsanā può sorgere è stata da lui enfatizzata nel decimo e undicesimo paragrafo di Nāṉ Yār?:
தொன்றுதொட்டு வருகின்ற விஷயவாசனைகள் அளவற்றனவாய்க் கடலலைகள் போற் றோன்றினும் அவையாவும் சொரூபத்யானம் கிளம்பக் கிளம்ப அழிந்துவிடும். அத்தனை வாசனைகளு மொடுங்கி, சொரூபமாத்திரமா யிருக்க முடியுமா வென்னும் சந்தேக நினைவுக்கு மிடங்கொடாமல், சொரூபத்யானத்தை விடாப்பிடியாய்ப் பிடிக்க வேண்டும். ஒருவன் எவ்வளவு பாபியாயிருந்தாலும், ‘நான் பாபியா யிருக்கிறேனே! எப்படிக் கடைத்தேறப் போகிறே’ னென்றேங்கி யழுதுகொண்டிராமல், தான் பாபி என்னு மெண்ணத்தையு மறவே யொழித்து சொரூபத்யானத்தி லூக்க முள்ளவனாக விருந்தால் அவன் நிச்சயமா யுருப்படுவான்.

toṉḏṟutoṭṭu varugiṉḏṟa viṣaya-vāsaṉaigaḷ aḷavaṯṟaṉavāy-k kaḍal-alaigaḷ pōl tōṉḏṟiṉum avai-yāvum sorūpa-dhyāṉam kiḷamba-k kiḷamba aṙindu-viḍum. attaṉai vāsaṉaigaḷum oḍuṅgi, sorūpa-māttiram-āy irukka muḍiyumā v-eṉṉum sandēha niṉaivukkum iḍam koḍāmal, sorūpa-dhyāṉattai viḍā-p-piḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum. oruvaṉ evvaḷavu pāpiyāy irundālum, ‘nāṉ pāpiyāy irukkiṟēṉē; eppaḍi-k kaḍaittēṟa-p pōkiṟēṉ’ eṉḏṟēṅgi y-aṙudu-koṇḍirāmal, tāṉ pāpi eṉṉum eṇṇattaiyum aṟavē y-oṙittu sorūpa-dhyāṉattil ūkkam uḷḷavaṉāha v-irundāl avaṉ niścayamāy uru-p-paḍuvāṉ.

Anche se viṣaya-vāsanā [inclinazioni o desideri a sperimentare cose diverse da sé stessi], che vengono da tempo immemorabile, sorgono [come pensieri] innumerevoli come onde dell’oceano, esse saranno tutte distrutte quando svarūpa-dhyāna [auto-attentività o contemplazione della propria natura reale] aumenta ed aumenta. Senza dare spazio anche al pensiero di dubbio ‘È possibile dissolvere così tante vāsanā e rimanere solo come svarūpa [la forma propria o reale natura]?’ è necessario aggrapparsi tenacemente a svarūpa-dhyāna. Per quanto una persona possa essere un peccatore, se invece di lamentarsi e piangere ‘io sono un peccatore! Come posso essere salvato?’ rifiuta completamente il pensiero di essere un peccatore ed è zelante [o fermo] nell’auto-attentività, sarà certamente riformato [trasformato in ciò che è realmente].

மனத்தின்கண் எதுவரையில் விஷயவாசனைக ளிருக்கின்றனவோ, அதுவரையில் நானா ரென்னும் விசாரணையும் வேண்டும். நினைவுகள் தோன்றத் தோன்ற அப்போதைக்கப்போதே அவைகளையெல்லாம் உற்பத்திஸ்தானத்திலேயே விசாரணையால் நசிப்பிக்க வேண்டும். அன்னியத்தை நாடாதிருத்தல் வைராக்கியம் அல்லது நிராசை; தன்னை விடாதிருத்தல் ஞானம். உண்மையி லிரண்டு மொன்றே. முத்துக்குளிப்போர் தம்மிடையிற் கல்லைக் கட்டிக்கொண்டு மூழ்கிக் கடலடியிற் கிடைக்கும் முத்தை எப்படி எடுக்கிறார்களோ, அப்படியே ஒவ்வொருவனும் வைராக்கியத்துடன் தன்னுள் ளாழ்ந்து மூழ்கி ஆத்மமுத்தை யடையலாம். ஒருவன் தான் சொரூபத்தை யடையும் வரையில் நிரந்தர சொரூப ஸ்மரணையைக் கைப்பற்றுவானாயின் அதுவொன்றே போதும். கோட்டைக்குள் எதிரிக ளுள்ளவரையில் அதிலிருந்து வெளியே வந்துகொண்டே யிருப்பார்கள். வர வர அவர்களையெல்லாம் வெட்டிக்கொண்டே யிருந்தால் கோட்டை கைவசப்படும்.

maṉattiṉgaṇ edu-varaiyil viṣaya-vāsaṉaigaḷ irukkiṉḏṟaṉavō, adu-varaiyil nāṉ-ār eṉṉum vicāraṇai-y-um vēṇḍum. niṉaivugaḷ tōṉḏṟa-t tōṉḏṟa appōdaikkappōdē avaigaḷai-y-ellām uṯpatti-sthāṉattilēyē vicāraṇaiyāl naśippikka vēṇḍum. aṉṉiyattai nāḍādiruttal vairāggiyam alladu nirāśai; taṉṉai viḍādiruttal ñāṉam. uṇmaiyil iraṇḍum oṉḏṟē. muttu-k-kuḷippōr tam-m-iḍaiyil kallai-k kaṭṭi-k-koṇḍu mūṙki-k kaḍal-aḍiyil kiḍaikkum muttai eppaḍi eḍukkiṟārgaḷō, appaḍiyē o-vv-oruvaṉum vairāggiyattuḍaṉ taṉṉuḷ ḷ-āṙndu mūṙki ātma-muttai y-aḍaiyalām. oruvaṉ tāṉ sorūpattai y-aḍaiyum varaiyil nirantara sorūpa-smaraṇaiyai-k kai-p-paṯṟuvāṉ-āyiṉ adu-v-oṉḏṟē pōdum. kōṭṭaikkuḷ edirigaḷ uḷḷa-varaiyil adilirundu veḷiyē vandu-koṇḍē y-iruppārgaḷ. vara vara avargaḷai-y-ellām veṭṭi-k-koṇḍē y-irundāl kōṭṭai kaivaśa-p-paḍum.

Fintanto che esistono viṣaya-vāsanā nella mente, l’investigazione chi sono io è necessaria. Come e quando sorgono i pensieri, allora e lì è necessario annientarli per mezzo di vicāraṇā [investigazione o vigilante auto-attentività] proprio nel luogo in essi sorgono. Non dare attenzione a qualsiasi cosa diversa [da sé stessi] è vairāgya [imparzialità o distacco] o nirāśā [assenza di desideri]; non dimenticare [o lasciar andare] sé stessi è jñāna [vera conoscenza o reale consapevolezza]. In verità [queste] due [vairāgya e jñāna] sono solo uno. Proprio come un pescatore di perle, legandosi pietre alla cintura ed immergendosi, raccoglie le perle che stanno sul fondo dell’oceano, così ciascuno, immergendosi [sotto l’attività di superficie della propria mente] e sprofondando all’interno di sé stesso con vairāgya [libertà dal desiderio di essere consapevoli di qualsiasi cosa diversa da sé stessi], può ottenere la perla di sé stesso. Se ci si aggrappa fermamente all’ininterrotto svarūpa-smaraṇa [auto-ricordo] finché si ottiene svarūpa [la propria forma o reale natura], quello solo sarà sufficiente. Finché i nemici sono dentro il forte, continueranno ad uscire da esso. Se si continua a tagliarli [o distruggerli] tutti come e quando giungono, il forte sarà [infine] catturato.
Il modo più efficace per evitare di essere influenzati da qualunque vāsanā che sorge nella nostra mente è di aggrapparsi fermamente a svarūpa-dhyāna o auto-attentività, che è la semplice pratica di auto-investigazione (ātma-vicāraṇā). In pratica, comunque, molti di noi non sono in grado di essere così accuratamente auto-attentivi tutto il tempo, perché la nostra bhakti (amore ad essere consapevoli soltanto di noi stessi) e vairāgya (libertà dal desiderio di essere consapevoli di qualsiasi altra cosa) non sono ancora abbastanza forti, ma questo non significa che dobbiamo permettere a noi stessi di essere influenzati da vāsanā ogni volta non ci stiamo aggrappando fermamente all’essere auto-attentivi. Anche quando la nostra mente sta guardando all’esterno, dovremmo cercare quanto più possibile di evitare di essere influenzati almeno dalle nostre vāsanā più grossolane e più dannose, come il desiderio di mangiare carne.

Se manchiamo di vairāgya anche per resistete alla preferenza di mangiare carne, anche se sappiamo che mangiare carne è dannoso non solo per gli animali interessati ma anche a noi stessi, come possiamo aspettarci di avere il vairāgya richiesto per aggrapparsi fermamente all’auto-attentività e quindi immergerci profondamente all’interno per trovare la perla della nostra reale natura? Quindi adottare anche semplici restrizioni (niyama) come ahiṁsā (evitare di causare danno ad ogni essere vivente) e mita sāttvika āhāra-niyama (la restrizione di consumare solo cibo sattvico in quantità moderate) può aiutare a rafforzare il nostro vairāgya e quindi permettendoci di aggrapparci fermamente all’essere auto-attentivi, che è una delle ragioni (sebbene non la sola) per cui Bhagavan ha detto nel nono paragrafo di Nāṉ Yār? che per mezzo di mita sāttvika āhāra-niyama il sattva-guṇa della mente aumenterà, e che questo ci aiuterà nella nostra pratica di auto-investigazione (ātma-vicāra).

Ogni volta che la nostra mente guarda all’esterno, stiamo con questo permettendo a noi stessi di essere influenzati in misura maggiore o minore dalle nostre karma-vāsanā e viṣaya-vāsanā, ma sta a noi scegliere la misura in cui permettiamo a noi stessi di essere influenzati da esse, e a quali di esse permettiamo di influenzarci. Alcune vāsanā sono in definitiva più dannose di altre, così dovremmo usare il nostro potere di vivēka (giudizio o discriminazione) per decidere quali vāsanā sono più dannose e dalle quali è più necessario evitare di essere influenzati. Generalmente i nostri desideri più grossolani e più egoistici, come il desiderio di mangiare carne, sono più dannosi per noi di alcuni dei desideri meno egoistici, così per purificare la nostra mente e quindi sviluppare sattva-guṇa, che ci è richiesto per praticare in modo più efficace ātma-vicāra, per quanto ci è possibile dovremmo cercare di dominare i nostri desideri più egoistici.

Cercare più possibile di essere auto-attentivi è sicuramente il modo più efficace di dominare tutte le nostre karma-vāsanā e viṣaya-vāsanā, sia le più dannose che quelle meno dannose, ma se siamo seriamente decisi a praticare ātma-vicāra dobbiamo usare ogni arma della nostra armeria per indebolire la presa che queste vāsanā hanno su di noi, e questo il motivo per cui certe restrizioni (niyamas) sono prescritte come requisito preliminare non solo per la pratica di ātma-vicāra ma anche per ogni altro tipo di yōga o pratica spirituale. Comprendere ed accettare la necessità di queste restrizioni, in modo particolare la restrizione di ahiṁsā e di non mangiare carne, sono l’ABC di ogni seria pratica spirituale, così anche se ora stiamo facendo ricerca a livello di dottorato, vale a dire ātma-vicāra, non possiamo permetterci di scartare queste restrizioni, proprio come uno studente di dottorato non più permettersi di scartare l’uso dell’alfabeto che lui o lei ha appreso all’asilo infantile.

Come ho spiegato precedentemente, se permettiamo o meno a noi stessi di essere influenzati dalle nostre viṣaya-vāsanā e karma-vāsanā non è una questione sotto la giurisdizione del nostro destino (prārabdha) ma solo sotto la giurisdizione del nostro libero arbitrio. Poiché il nostro prārabdha è stato fatto su misura per adattarsi sia alle nostre vāsanā sia alla nostra volontà di non permettere a noi stessi di essere influenzati da esse, se scegliamo di non essere influenzati da una particolare vāsanā, come la preferenza o l’inclinazione che possiamo avere a mangiare carne, in molti casi scopriremo che il nostro prārabdha è stato assegnato in modo tale da far sembrare come se la nostra scelta di non essere influenzati da quella vāsanā ci faccia astenere dal fare l’azione corrispondente.

10. Il miglior uso che possiamo fare del nostro libero arbitrio è di scegliere di essere auto-attentivi, ma anche quando diamo attenzione a qualsiasi altra cosa dovremmo almeno scegliere di evitare di compiere azioni dannose

In retrospettiva possiamo dire che qualunque cosa è accaduta è prārabdha, ma quando ci troviamo di fronte a una scelta di come agire non possiamo sapere quale prārabdha è in deposito per noi, così dovremmo sempre scegliere di agire in modo etico, o almeno di evitare più possibile di agire in modo non etico. Anche in retrospettiva, sebbene qualunque cosa è accaduta era in accordo con il prārabdha, non dovremmo cercare di negare la responsabilità per qualunque azione scegliamo di fare, perché molte delle nostre scelte e azioni che sono guidate dal nostro prārabdha sono anche guidate simultaneamente dal nostro libero arbitrio.

Cioè, sebbene tutte le nostre esperienze passate sono avvenute secondo il nostro prārabdha, per molte di esse abbiamo voluto che accadessero e di conseguenza abbiamo fatto sforzi con mente, parola o corpo per farle accadere, così in questi casi il nostro destino e il nostro libero arbitrio hanno operato in sincronia. Nella nostra vita sia il nostro destino che il nostro libero arbitrio operano fianco a fianco, qualche volta in armonia e qualche volta in opposizione l’uno all’altro, e poiché noi abbiamo un senso di essere l’agente di tutte le azioni del nostro corpo, parola e mente, non possiamo distinguere con precisione in quale misura ciascuna delle nostre azioni passate sono state guidate solo dal destino o anche dal libero arbitrio.

Questo è il motivo per cui Bhagavan ha detto che impegnarsi in dispute riguardo destino e libero arbitrio e riguardo a chi dei due prevale interessa solo coloro che non riconoscono che la radice e il fondamento di entrambi è solo l’ego, e che il nostro solo interesse dovrebbe quindi essere investigare noi stessi per vedere se siamo realmente questo ego, per il quale solo c’è destino e libero arbitrio. Quando guardiamo noi stessi abbastanza attentamente da vedere ciò che siamo realmente, vedremo che non siamo mai stati un ego e quindi non abbiamo mai sperimentato alcun destino né usato bene o impropriamente alcun libero arbitrio.

Fino a quel momento, dovremmo cercare di essere più possibile auto-attentivi, perché cercare di essere auto-attentivi è il modo migliore per usare il nostro libero arbitrio, e più accuratamente siamo auto-attentivi meno spazio ci sarà per il nostro ego per sorgere e usare il suo libero arbitrio in qualche altro modo. Invece di essere accuratamente auto-attentivi, se permettiamo alla nostra attenzione di andare verso qualsiasi altra cosa, sperimenteremo propensioni e avversioni per qualunque prārabdha può essere proiettato su di noi, che ci guiderà a compiere āgāmya cercando di realizzare e aumentare al massimo qualunque cosa ci piace e di evitare o minimizzare qualunque cosa non ci piace.

Nella misura in cui la nostra attenzione è rivolta all’interno, verso noi stessi soltanto, eviteremo di usare impropriamente il nostro libero arbitrio in alcun modo, e nella misura in cui le permettiamo di uscire, verso qualsiasi altra cosa, non saremo in grado di evitare di usarlo impropriamente in un modo o in un altro. Quindi come Bhagavan spesso ha spiegato, l’uso migliore che possiamo fare del nostro libero arbitrio è di rivolgere la nostra attenzione all’interno e con questo arrendere il nostro ego insieme con la sua volontà.

Tuttavia, ogni volta che permettiamo alla nostra attenzione di andare all’esterno, sperimenteremo noi stessi come un corpo e una mente e quindi dobbiamo accettare la responsabilità per le loro azioni, e dovremmo di conseguenza scegliere di evitare più possibile ogni azione che potrebbe causare danno ad altri. Possiamo non sempre essere in grado di evitare tali azioni, perché possiamo essere destinati a farle, ma non dovremmo usare il destino (prārabdha) come una scusa per scegliere di farle. Finché siamo in grado di fare scelte, come sempre saremo in grado di fare finché sembriamo essere questo ego, dovremmo cercare di fare la migliore scelta possibile.

Finché ci interessa fare qualsiasi azione, la scelta migliore è cercare di evitare di fare azioni dannose, ma piuttosto che scegliere di fare qualche azione, la scelta migliore di tutte è rivolgersi all’interno e quindi dissolvere per sempre l’ego e la sua volontà nella sua sorgente, la chiara luce di pura auto-consapevolezza che sempre risplende nel nostro cuore come il vero significato della parola ‘io’.

Nessun commento:

Posta un commento